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Visita alla comunità ebraica di Venezia

Card. Angelo Scola
Italia (2003/11/26)

 

1. «Nessuno può abbandonarsi alla tentazione dello scoramento o della ritorsione» . Queste parole di Giovanni Paolo II possono esprimere sinteticamente lo spirito con cui oggi il Patriarca di Venezia, con una qualificata Delegazione, viene in visita ufficiale alla Comunità Ebraica di Venezia. Lo fa, come concordemente stabilito, in risposta alla duplice cortese visita che i rappresentanti della Comunità hanno voluto compiere in Patriarcato il 19 giugno 2002 e il 2 aprile 2003. Ma i tragici attentati che in queste ultime settimane hanno visto coinvolti uomini e donne ebrei, cristiani e musulmani in Iraq, in Turchia e nella Terra Santa, hanno reso ancora più urgente da parte nostra questo passo e più significativo questo gesto di squisita accoglienza da parte della Comunità Ebraica alla Delegazione della Chiesa Cattolica che vive in Venezia.
Voglio innanzitutto porgere il mio grazie a tutti Voi, nelle persone del Presidente, del Vicepresidente e del Rabbino Capo della Comunità per averci offerto questa possibilità di incontrarci in amicizia e verità.

2. Questa Visita Ufficiale alla Comunità Ebraica esprime, con un gesto concreto, il sincero desiderio di superare le incomprensioni e le difficoltà che, anche lungo la storia di Venezia, hanno visto coinvolte le nostre comunità di appartenenza.
Non ci sfuggono le responsabilità storiche di taluni figli della Chiesa nel favorire oggettive ingiustizie contro i membri del popolo ebraico. Il Santo Padre, nella sua visita al Mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme, ha esplicitamente affermato «che la Chiesa cattolica, motivata dalla legge evangelica della verità e dell’amore e non da considerazioni politiche, è profondamente rattristata per l’odio, gli atti di persecuzione e le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli ebrei da cristiani in ogni tempo e in ogni luogo» .

3. Motivati «dalla legge evangelica della verità e dell’amore». Queste parole del Santo Padre ci aiutano a comprendere che il rapporto tra il popolo di Israele e la Chiesa chiama in causa il dovere alto della carità che, secondo il comandamento biblico, è indisgiungibile dalla verità stessa della nostra fede cristiana.
Nella storia di Venezia non manca certo la documentazione di preziosi gesti di carità tra i nostri popoli ma, come ha giustamente sottolineato il Card. Jean-Marie Lustiger, uno dei più autorevoli interpreti del dialogo tra giudei e cristiani, non è il caso di ricordare in questa sede l’opera dei cristiani che in Venezia si adoperarono in favore degli ebrei. «Come si potrebbe evitare in tal modo la tentazione – magari inconscia – di autogiustificarsi?» . L’atteggiamento richiesto è un altro: «prendere atto della ferita dell’altro e (…) portarne il peso accettando la propria responsabilità» . La coscienza cristiana si trova nella necessità di ripensare in profondità i suoi rapporti con il popolo ebraico. Una semplice risposta solidale non può, infatti, considerarsi ultimamente risolutiva.
Il Decreto Nostra Aetate del Concilio Vaticano II ha costituito, in questo senso, il passaggio decisivo dal punto di vista dottrinale. In quel celebre documento del Magistero della Chiesa viene esplicitato con chiarezza il legame che unisce il cristianesimo all’ebraismo: «scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo» . Un legame la cui progressiva presa di coscienza spinge noi cristiani a riconoscere negli ebrei «i nostri fratelli maggiori» .
«Il Nuovo Testamento non è il libro di un’altra religione, che si è appropriata delle Sacre Scritture degli Ebrei, quasi si trattasse di una sorta di preliminare tutto sommato secondario (…) il giudaismo (…) e la fede cristiana, così come è descritta nel Nuovo Testamento, sono due modi di far proprie le Sacre Scritture di Israele, che in definitiva dipendono dalla posizione assunta nei confronti della figura di Gesù di Nazaret (…) L’interpretazione ebraica possiede una sua specifica missione teologica nel tempo “dopo Cristo”» . Sono parole del Cardinale Ratzinger che sento sempre più come mie. E – al di là delle comprensibili divergenze interpretative talora assai marcate – sono lieto del movimento di pensiero che ha condotto molti studiosi ebrei ad occuparsi della figura di Gesù Cristo. Se rigorosamente assunti, i risultati di questo nobile lavoro non possono non illuminare anche l’autocoscienza di fede dei cristiani.


4. Questa evoluzione della Chiesa nei confronti della religione ebraica, autorevolmente insegnata dal Concilio Vaticano II e dal magistero di Giovanni Paolo II, chiude, da una parte, la strada ad ogni opposizione tra cristianesimo ed ebraismo ma, nello stesso tempo, costringe a stare umilmente di fronte a tutta la portata della loro differenza. A questo proposito mi sia permesso citare un ricordo personale. In occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1985 – convocata per commemorare il 20° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II – ebbi occasione di fare un libro intervista con Hans Urs Von Balthasar. In essa il celebre teologo svizzero affermò: «Una delle questioni più difficili alla quale forse solo Dio è in grado di rispondere correttamente è quella dello “scisma” originario dell’unico popolo di Dio (poiché non si possono dare due popoli di Dio), provocato da Cristo stesso: Lui ne è responsabile, la Chiesa non dovrebbe far finta di conoscere la soluzione e di poterlo risolvere. Noi vediamo solo dei frammenti della verità intera dai quali non sappiamo ricostruire la totalità» .
L’incontro e il dialogo tra ebrei e cristiani non può non partire dalla coscienza di questa “singolare ferita” il cui mistero spinge la libertà di ciascuno a riflettere in profondità sul disegno di salvezza di Dio su tutti gli uomini. Da qui il dovere della reciproca conoscenza. Per quanto riguarda noi cristiani essa può ben identificarsi nel gravoso compito che, una volta, a Parigi, ebbi l’occasione di sentire espresso dal card. Henri de Lubac con le parole seguenti: «Se si parla di inculturazione, per i cristiani è necessario ricordare che la loro radice profonda è la storia, la civiltà e la cultura del popolo ebraico».


5. Nel tragico frangente di transizione che l’umanità sta vivendo, il legame tra ebrei e cristiani è chiamato ad un ulteriore e improcrastinabile compito. Quello di essere un terreno fecondo in cui possa mettere radici e svilupparsi l’incontro e il confronto tra i membri di tutte le altre religioni, a partire dagli altri figli di Abramo, i musulmani. Tale dialogo non potrà che avere la forma della testimonianza perché – come ha acutamente ricordato Fackenheim – il Dio di Abramo è un Dio che si è esposto compromettendosi con la storia . La logica profonda di un vero rapporto tra culture, civiltà e religioni, impostato secondo verità, implica sempre l’autoesposizione dei soggetti che ne sono protagonisti . La testimonianza – espressione della libertà di chi si autoespone per attestare la verità – si rivela come l’autentica cifra del dialogo interetnico, interculturale e interreligioso. Essa realizza quel “possesso nel distacco” che, nel suo vertice, si chiama martirio. Solo il martirio è in grado, tra l’altro, di smascherare l’insidiosa caricatura di martire proposta dagli uomini bomba. La loro è una falsa e nichilistica testimonianza. Essi sono degli anti-testimoni.


6. In questa passione testimoniale si attua il necessario quotidiano lavoro per edificare la pace fondata, come ebbe a scrivere il mite Patriarca e Beato Papa Giovanni XXIII, sulla verità, la libertà, la giustizia e l’amore . È questo il contesto adeguato per comprendere la proposta di Giovanni Paolo II e della Santa Sede, in ambito internazionale, in merito alla situazione della Terra Santa: il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Uniti, il diritto dei due popoli – l’israeliano e il palestinese – a un proprio Stato con confini ben definiti, uno statuto speciale internazionalmente garantito per la città santa di Gerusalemme, città verso la quale le tre religioni monoteistiche volgono il loro sguardo .


7. Un tratto singolare, caratteristico della pietà cristiana di Venezia è la devozione per i Santi dell’Antico Testamento. Non è solo una bella tradizione, è anche un bell’auspicio. Mi sia permesso allora concludere questo mio saluto con la preghiera della liturgia cattolica del 4 settembre, memoria di san Mosè profeta: «O Dio, che per mezzo di Mosè hai liberato il Tuo popolo dalla terra di schiavitù e gli hai consegnato la Tua santa Legge, spezza le catene che ci tengono schiavi del peccato, perché possiamo aderire in libertà di spirito al comandamento nuovo del Tuo amore».

 

 

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