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Le chiese e la Shoah. Allocuzione di p. Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa

Pizzaballa, Pierbattista
Israel (2006/04/25)

 

Sono nato nel 1965 a Bergamo, una città dell'Italia del nord. Se dò questi dettagli personali è per situarmi in un contesto, prima di affrontare un argomento così importante e doloroso, sempre al cuore dell'incontro tra ebrei e cristiani. Questi fatti mi collocano nella generazione del dopoguerra e in un periodo nuovo per la chiesa cattolica. Tengo, dunque, a precisare quanto segue:

1. Non sono stato né direttamente, né indirettamente testimone degli eventi terribili svoltisi in Europa durante la Shoah e che hanno provocato lo sterminio di sei milioni di ebrei. Sono nato esattamente venti anni dopo la seconda guerra mondiale e la liberazione dei sopravvissuti dei campi di concentramento, in un' Europa che si sforzava di affrontare il suo pesante passato, un passato nel corso del quale è stata perpetrata la Shoah. La mia generazione ha dovuto confrontarsi con l'eredità lasciataci dai nostri genitori e che continua a definire la nostra identità.

2. Per il cristiano credente e l'uomo di chiesa che sono, questo confronto non è solo di ordine culturale, politico, sociale o educativo: è spirituale e teologico. Le sfide che la chiesa è chiamata a raccogliere dopo la Shoah sono numerose e i fedeli cristiani si trovano davanti una serie di dilemmi - teologici, spirituali e comunitari. Mi rendo conto perfettamente che appartengo ad una chiesa che si pone da decenni alcune questioni cruciali, sul suo passato come sul suo avvenire, alla luce della guerra. Come comprendere quello che è successo, allevare e formare i nostri figli in modo da assicurare un futuro migliore?

L'anno della mia nascita coincide con uno degli avvenimenti più importanti della storia contemporanea della chiesa cattolica. Questo anno (il 1965) ha marcato la fine del Concilio Vaticano II. Questo incontro di migliaia di vescovi cattolici provenienti dal mondo intero - i capi spirituali della chiesa - ha radicalmente trasformato il volto della chiesa. E queste trasformazioni erano, almeno in parte, una reazione alla crisi profonda scatenata dalla seconda guerra mondiale. Si può dunque dire che io sono nato in una chiesa che non solo desiderava situarsi in modo nuovo nel mondo moderno, ma cercava anche di ringiovanire la sua immagine.

A seguito dei reali sconvolgimenti intervenuti nella chiesa cattolica nel corso degli anni '60 e '70, ho respirato un'aria nuova, molto diversa da quella che avevano conosciuto i miei genitori nella loro giovinezza. Tra i cambiamenti più degni di nota vi furono delle trasformazioni nella liturgia - per cui non si dicevano più le preghiere in latino né al di fuori dalla chiesa e si rivolgeva uno sguardo positivo sul mondo in generale, percepito non come un luogo ostile ma come un luogo ove ciascuno poteva sviluppare e approfondire la propria fede. Una delle trasformazioni più importanti ha toccato l'attitudine della chiesa nei riguardi delle altre chiese e confessioni religiose. Dopo il Concilio, la chiesa cattolica si è preoccupata di manifestare il suo grande interesse per l'incontro con i rappresentanti delle altre chiese, delle altre religioni e anche con i non credenti. Si potè dire che il Concilio aveva aperto le finestre della chiesa.

Non vi è dubbio che una delle svolte principali del momento del Concilio riguarda il legame con gli ebrei. La "questione ebraica" è sempre stata al cuore della riflessione cristiana. L'ambivalenza cristiana tradizionale verso gli ebrei si esprime attraverso la tensione tra due immagini. Da una parte gli ebrei sono il popolo eletto, il popolo dei patriarchi, dei sacerdoti, dei re, dei sapienti e dei profeti, il popolo di Gesù di Nazaret e dei suoi discepoli. Dall'altra, è il popolo che ha suscitato la collera dei profeti, quello che l'esegesi cristiana ha considerato per secoli come il popolo ribelle che ha rifiutato di riconoscere la sovranità di Dio e la venuta del suo Messia. Per il suo accecamento, il popolo ebraico si è reso responsabile della crocifissione di Gesù. Dio si è rivelato agli ebrei, ha donato loro la sua Torah, ma essi non hanno saputo riconoscere che le sue promesse si erano compiute nel suo figlio Gesù, quell'ebreo di Nazaret che pure era stato inviato prima di tutto a loro. Purtroppo, c'è stato bisogno di centinaia di anni e di un avvenimento così tremendo come la Shoah affinché i membri della chiesa rivedessero il loro atteggiamento riguardo al popolo ebraico e cambiassero radicalmente posizione.

A dire il vero, non ho sentito molto parlare degli ebrei nella mia infanzia. Nella regione dove vive la mia famiglia non c'è una comunità ebraica. Alcuni ebrei vi si sono insediati a partire da una certa epoca: senza dubbio erano originari di Venezia, che allora dominava la regione. Sono arrivati nel quindicesimo secolo, ma poi sono stati espulsi in seguito alla predicazione anti-ebraica del monaco francescano Bernardino da Feltre. Allorché mi sono chiesto quando avevo sentito parlare di ebrei la prima volta, mi sono ricordato che avevo più volte nel corso del tempo sentito pronunciare la parola 'ebreo'. In effetti, si diceva "questi ebrei" di coloro che non andavano regolarmente alla messa la domenica. Naturalmente non erano ebrei: erano dei "non-credenti" che non rispettavano la tradizione degli avi e che destavano, per questo fatto, i sospetti dei più vecchi. Per questi ultimi la parola "ebreo" era un'ingiuria, loro che non avevano mai nemmeno visto un ebreo in carne ed ossa. Sembra che questo uso venga da una lettura falsata delle Scritture, come anche da sermoni tendenziosi sulla Bibbia.

A scuola ci parlavano delle vittime del regime fascista in Italia durante la guerra. Sapevamo che tra le vittime della guerra e della dominazione nazista c'erano degli ebrei che erano stati mandati nei campi di sterminio insieme agli oppositori al regime. Il dito accusatore dei nostri insegnanti era rivolto contro i fascisti che avevano collaborato con l'occupante nazista. Per noi questi non erano dei cristiani ma degli avversari della chiesa. A quest'epoca non formulavamo ancora l'importante questione della responsabilità cristiana nella cultura antisemita dell'Europa. Non parlavamo di ebrei che nel contesto della guerra.

Nella mia infanzia non ho mai incontrato ebrei. Solo diversi anni più tardi, durante i miei studi di teologia, ho preso coscienza del fatto che conoscevo numerosi ebrei da lungo tempo, dei saggi e degli eroi, degli ebrei che erano per me dei modelli. Non si trattava di ebrei in carne ed ossa, ma dei personaggi della Bibbia. In realtà ci ho messo molto tempo a stabilire un legame tra i personaggi che popolavano i racconti che ascoltavo nelle nostre assemblee di preghiera o che leggevo da solo e con passione fin dalla mia infanzia, ed il popolo ebraico.

Sono arrivato in Israele da giovane frate e, contrariamente ai miei predecessori dell'epoca antecedente al Concilio Vaticano II mi sono confrontato con la società israeliana e col popolo ebraico. Dapprima all'ulpan, dove ho imparato l'ebraico moderno, poi all'Università Ebraica dove ho proseguito i miei studi nel dipartimento di Bibbia. E' stato allora che ho scoperto quanto la storia dell'Europa esaminata in prospettiva ebraica mi era sconosciuta. Ho capito che la differenza di religione non è che uno degli elementi che separano cristiani ed ebrei (del resto è interessante notare che questa differenza non ha esercitato una grande influenza sulle mie relazioni con i miei amici israeliani). Il modo diverso di studiare e di interpretare la storia, in particolare quella comune ad ebrei e cristiani, apre anch'esso un abisso tra noi. Mi sono accorto che la lettura ebraica della Storia pone la sofferenza del popolo ebraico al centro degli avvenimenti nei quali noi, cristiani, giochiamo spesso il ruolo dei persecutori.

Ciò che sto per dire ora non riflette, ne sono sicuro, la mia sola opinione personale, quella di un credente cristiano nato venti anni dopo la guerra, ma esprime una posizione cattolica largamente diffusa. Due grandi questioni si pongono allorché tentiamo, come cristiani, di misurare quale terribile peso abbia avuto la chiesa nei giorni della Shoah.

1. La prima questione riguarda il passato. Come ha potuto prodursi la Shoah in un mondo evangelizzato da generazioni? Come ha potuto la chiesa, in Europa, fallire la sua missione di formare la coscienza dei fedeli perché rifiutassero fermamente di collaborare con partiti che diffondono dei valori tanto opposti all'insegnamento di Gesù di Nazaret e del Vangelo? Com'è potuto succedere che dei cristiani abbiano concorso alla macchina di sterminio nazista e che la maggioranza di loro siano rimasti passivi mentre i nazisti e i loro collaboratori tentavano di sterminare il popolo ebraico?

2. La seconda questione si riferisce al futuro e lancia una sfida tanto educativa quanto sociale: come impedire che un tale fatto si ripeta? Come creare una cultura fondata sui valori della vita, della pace e del progresso? A tal riguardo, mi sembra che dobbiamo tutti lavorare insieme, perché è impossibile costruire un mondo nuovo senza unire i nostri sforzi. Nel tempo che mi resta - e sarò breve, dunque obbligatoriamente parziale e limitato, vorrei presentarvi i tentativi di risposta dati dai cattolici alle due questioni appena formulate. In primo luogo, come affrontare la questione del passato? Per cambiare significativamente lo sguardo che i fedeli rivolgono su questo passato, la chiesa esercita la sua azione nelle seguenti quattro direzioni.

1. Dal Concilio Vaticano II l'insegnamento e la predicazione nella chiesa insistono sull'ebraicità di Gesù e della chiesa primitiva. Il personaggio che si trova al cuore della fede di tutti i cristiani è Gesù Cristo, nel quale noi riconosciamo il messia, il redentore e anche il figlio di Dio. E' impossibile conoscere Gesù senza cogliere l'importanza della sua appartenenza al popolo ebraico. Circa dieci ani fa il defunto papa Giovanni Paolo II (che la pace riposi su di lui) rivolgendosi alla commissione biblica della chiesa cattolica, ha dipinto un ritratto impressionante del Gesù ebreo. Il suo discorso riflette la sopravvenuta rivoluzione sulla maniera di percepire Gesù di Nazaret; cito: "L'identità umana di Gesù si definisce a partire dal suo legame con il popolo d’Israele, con la dinastia di Davide e la discendenza di Abramo. E non si tratta soltanto di un’appartenenza fisica. Prendendo parte alle celebrazioni nella sinagoga, dove venivano letti e commentati i testi dell’Antico Testamento, Gesù prendeva anche umanamente conoscenza di tali testi, con essi nutriva lo spirito ed il cuore, servendosene poi nella preghiera, e ad essi ispirando il suo comportamento. Egli è diventato così un autentico figlio d’Israele, profondamente radicato nella lunga storia del proprio popolo. Quando ha cominciato a predicare e ad insegnare, ha attinto abbondantemente dal tesoro delle Scritture." (discorso alla Commissione biblica della chiesa cattolica dell'11.04.1997). Per tornare al nostro tema, non posso impedirmi di rabbrividire al pensiero che, se Gesù fosse vissuto al tempo della Shoah, avrebbe conosciuto la stessa sorte di tutti gli ebrei. Oltretutto, questa appartenenza al popolo ebraico non si limita a Gesù. Sua madre, la sua famiglia, i suoi amici e i suoi discepoli erano anch'essi tutti ebrei. Gli universitari ebrei e cristiani, in Israele e all'estero, che oggi esaminano i testi dei Vangeli scritti dai discepoli di Gesù, constatano che questi testi fanno parte della letteratura ebraica del periodo del Secondo Tempio e del seguente. Evidentemente, la descrizione dell'identità ebraica di Gesù, dei suoi discepoli e della chiesa primitiva, contraddicono radicalmente le opinioni diffuse sul ruolo negativo degli ebrei nei racconti biblici. L'Antico Testamento critica severamente i peccati del popolo, ma il lettore cristiano ha la tendenza a dimenticare che la grandezza di Israele si regge precisamente sul fatto di concedersi un'autocritica così feroce da mettere il dito sui suoi fallimenti e sui suoi insuccessi, sollecitando il perdono di Dio e degli uomini. Oltre a ciò, l'accusa fatta agli ebrei di aver crocifisso Gesù maschera il fatto, ancora più importante, che lo stesso Gesù era ebreo. Il lettore cristiano deforma le Scritture quando trova ragioni per accusare gli ebrei negli scritti del popolo ebraico (la Bibbia) e di quegli scribi ebrei che hanno creduto in Gesù Cristo (i Vangeli). No; la lettura di questi testi deve preparare il lettore cristiano a identificarsi con il popolo d'Israele e riconoscere la sua propria umanità nell'umanità di Israele, nel bene e nel male.

2. Quando, relativamente a Gesù, un cristiano prende chiara coscienza della sua appartenenza al popolo di Israele, non può più prescindere dall'eredità ebraica di Gesù, comune agli ebrei a ai cristiani. Il cristianesimo si radica nell'ebraismo. Ho imparato e non smetto di insegnare a mia volta che il Nuovo Testamento non ha nessun senso se non viene collegato al Tanakh. La tradizione cristiana a dato al Tanakh il nome di "Antico Testamento". Questa denominazione mostra bene il legame tra le due parti della Bibbia cristiana. Il problema è che i cristiani hanno preso ad attribuire al termine "Antico" un significato materiale, a parlare dell' "Antico Testamento" come si parla di un vecchio paio di scarpe o di un vecchio computer - nel senso di superfluo, obsoleto, improprio o inutile. Oggi dobbiamo spiegare ai cristiani che il senso della parola "antico" nell'espressione "Antico Testamento" è esattamente l'opposto del significato materiale. Questa parola evoca il radicamento, la profondità, l'esperienza intima, la saggezza ed offre il quadro essenziale per la comprensione di ciò che è nuovo. L' "antico" parla di un amore fedele che perdura da generazioni e senza il quale non può emergere niente di nuovo. Infatti nel Nuovo Testamento Gesù è colui che è venuto per compiere l'Antico e ne consegue che il Nuovo chiarisce l' Antico ma non l'abolisce. Gesù è per i cristiani un modello di obbedienza alla Torah ed è impossibile comprenderlo se lo si separa da ciò che ha ispirato la sua vita e i suoi atti. La preghiera che egli recita alla vigilia della sua morte ne costituisce una prova concreta: "Non la mia volontà, ma la tua (mio Dio)" (Marco, 14,36). Una delle difficoltà del rapporto con l' "Antico Testamento" viene dall'opposizione che si tende a stabilire tra il Dio dell'Antico e il Dio del Nuovo Testamento. Le caricature contraddittorie del Dio "irascibile e vendicatore" dell' Antico Testamento e del Dio "amorevole e misericordioso" del Nuovo non sono conformi al reale contenuto delle due parti della Bibbia cristiana e mostrano quanto la nostra conoscenza della Scrittura sia incompleta. E' ciò che papa Benedetto XVI spiega nella sua prima enciclica ai fedeli cattolici, apparsa pochi mesi fa. Ciò che è più nuovo nella Bibbia cristiana si trova tra le pagine dell'Antico Testamento: il fatto che Dio ama il suo popolo Israele e che è attraverso questo amore che egli esprime il suo amore per tutte le nazioni.

3. Il fatto che oggi dobbiamo raccogliere la sfida di tornare alle nostre radici per interpretarle correttamente costituisce un altro aspetto del rinnovamento del nostro sguardo sul passato, all'indomani della Shoah. Si tratta di accostare con uno spirito critico un certo numero di punti importanti della tradizione cristiana così come sono stati esposti negli scritti dei padri della chiesa. I grandi maestri che hanno commentato le Scritture nei primi tempi della chiesa erano contemporanei dei primi rabbini dell'epoca talmudica. A tal riguardo, abbiamo molto da imparare dal popolo della Bibbia e dai suoi profeti, che non esitarono a denunciare il peccato che abitava il cuore di Israele. I predicatori e gli esegeti cristiani che attraverso i secoli hanno aiutato i credenti a comprendere la loro fede non l'hanno sempre fatto con un senso di responsabilità conforme all'ottica di Gesù, del Vangelo e dei valori cristiani. Per ragioni storiche complesse e con una sconcertante mancanza di lungimiranza, anche i più grandi maestri hanno, lungo quasi tutta la storia della chiesa, dipinto gli ebrei come un popolo maledetto. La lettura antigiudaica non solo del Nuovo Testamento ma anche dell' Antico fa degli ebrei un popolo dalla dura cervice il cui indurimento ha causato la crocifissione di Gesù. Oggi, noi riconosciamo che il Nuovo Testamento ci rende tutti responsabili della morte di Gesù - tutti, cioè, non solamente l'istituzione religiosa ebraica ma anche le autorità politiche romane e - che è più importante - proprio i discepoli di Gesù che l'hanno rinnegato e abbandonato prima di fuggire. Gli interpreti dei primi scritti cristiani hanno dimenticato troppo presto il carattere universale della colpevolezza, mettendo l'accento esclusivamente sulla colpevolezza degli ebrei.

Forse, l'ossessione relativa alla colpevolezza degli ebrei è ugualmente legata alla difficoltà di capire perché questi ultimi hanno rifiutato di aderire alla fede cristiana. In realtà abbiamo dimenticato che, in questa faccenda, quasi tutti gli attori erano ebrei, i buoni come i malvagi. Ora, la nostra lettura non designa come 'ebrei' che i malvagi, mentre, immediatamente, Gesù, Simon Pietro, Paolo, Maria, Giovanni Battista e gli altri 'eroi', diventano cristiani. Solo i detentori del potere religioso, i capi dei sacerdoti, gli scribi, i farisei e, evidentemente, Giuda Iscariota, restano ebrei. Inoltre non sono soltanto le autorità che giudichiamo colpevoli, ma anche il popolo tutto intero e non solo quello di un solo luogo e di una sola epoca, ma di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Il processo di demonizzazione degli ebrei risale ai dibattiti che hanno opposto i padri della chiesa e i rabbini riguardo a ciò che distingueva l'ebraismo dal cristianesimo all'epoca del Talmud e nel periodo seguente. Fu allora che si è iniziato a trattare gli ebrei come dei figli di Satana, non solo perché avevano crocifisso Gesù, figlio di Dio, e si erano anche resi colpevoli di deicidio, ma perché persistevano nel rifiutare di vedere la verità delle loro stesse Scritture - del Tanakh - giacché la lettura cristiana allegorica vede in ciascuna pagina dell'Antico Testamento una profezia della venuta di Gesù come Messia d'Israele. Ecco perché questo popolo cieco, che testimonia della fondatezza della fede cristiana per quanto faccia della Torah una lettura differente, è condannato ad errare da un luogo all'altro, privato di patria, al fine di diffondere le sue Scritture e gettare le basi della fede cristiana. Va notato che, secondo la formula di Agostino, non bisogna ucciderli ma mantenerli in una situazione di umiltà, affinché siano gli eterni testimoni della verità della fede cristiana. E' stata l'incapacità di buona parte dei testi della tradizione cristiana di presentare gli ebrei e l'ebraismo sotto in una luce favorevole che ha creato l'alveo dell'antisemitismo moderno e ne ha permesso lo sviluppo. Lo storico ebreo francese della metà del ventesimo secolo, Jules Isaac, ha qualificato quest'attitudine dei cristiani verso gli ebrei come "insegnamento del disprezzo" e il grande proposito, chiaramente formulato nei documenti del Concilio Vaticano II, è quello di rigettare questo insegnamento e di sostituirlo con l'insegnamento della stima.

Dal Concilio Vaticano II la chiesa cattolica si dibatte con la questione di sapere chi è responsabile di quanto accaduto al momento della Shoah. La chiesa ha una parte in questa responsabilità? E' un fatto indiscutibile che numerosi dirigenti cattolici e anche cattolici di base non hanno lasciato che i valori evangelici ispirassero la loro condotta né hanno adottato posizioni coraggiose davanti al regime nazista e mi chiedo perché si sono trovati così pochi eroi, persone capaci di mettere la loro vita in pericolo per salvare degli ebrei. E' vero che prima e durante la guerra è il comunismo molto più che il nazismo a preoccupare certi uomini di chiesa. Eppure, negli anni del dopo-guerra molte chiese cattoliche locali hanno tentato di formulare il loro punto di vista davanti a queste questioni. C'è molto da imparare dalle dichiarazioni dei vescovi tedeschi, francesi, polacchi, ecc. Non solo queste dichiarazioni esprimono il profondo dispiacere delle colpe passate, ma si sforzano di sprigionare le grandi linee di una relazione nuova col popolo ebraico. Quasi tutte queste dichiarazioni rimproverano i cristiani e i loro capi che, nel corso degli anni oscuri, sono rimasti con le braccia incrociate quando gli ebrei chiedevano aiuto.
Naturalmente, dopo la Shoah, queste questioni si pongono con ancor più intensità. Nel 1998 la Commissione della Santa Sede per le Relazioni Religiose con l'ebraismo ha promulgato una dichiarazione sulla Shoah, dal titolo "Noi ricordiamo". La questione dell'attribuzione della responsabilità era al centro delle discussioni che hanno preceduto e seguito questa dichiarazione. Questa ha suscitato numerosi dibattiti e io non voglio lanciarmi nella polemica. Piuttosto, vorrei citare alcuni stralci di questo documento, importante per i cattolici e, in particolare, per coloro che non si erano mai posti la domanda di sapere quale parte di responsabilità avevano i cattolici negli avvenimenti della Shoah. Il documento chiede esplicitamente - cito: "ci si deve chiedere se la persecuzione del nazismo nei confronti degli ebrei non sia stata facilitata dai pregiudizi antigiudaici presenti nelle menti e nei cuori di alcuni cristiani. Il sentimento antigiudaico rese forse i cristiani meno sensibili, o perfino indifferenti, alle persecuzioni lanciate contro gli ebrei dal nazionalsocialismo quando raggiunse il potere?" La dichiarazione termina con un appello a ricordarsi della terribile esperienza della Shoah perchè - cito: "ai semi infetti dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo non si deve mai più consentire di mettere radice nel cuore dell'uomo."

Ma è sulla questione dell'avvenire che vorrei terminare questa esposizione: come fare in modo che un tale avvenimento quale quello della Shoah non si ripeta più? Come possiamo, noi cattolici, concorrere alla creazione di una cultura fondata sulla vita, la pace, la giustizia, l'onore e il progresso? Come ho già sottolineato all'inizio, credo che occorrerà lavorare insieme, perché non si può costruire un mondo diverso senza uno forzo comune.

Riguardo a quel che riguarda l'evoluzione della chiesa cattolica dal Concilio degli anni '60, vorrei brevemente sottolineare quattro assi che aprono al futuro:

1. La chiesa cattolica oggi cerca di dialogare col mondo. Negli anni '60 abbiamo preso coscienza della necessità di questo dialogo. I padri conciliari hanno deciso di aprire le finestre e di guardare il mondo non con ostilità ma con interesse e anche con amore, domandandosi se vi è in esso qualcosa che possiamo imparare. La debolezza della chiesa cattolica nel momento della Shoah proveniva, almeno in parte, dal suo isolamento e dal timore di certi ambienti nei confronti del mondo. Questo ripiegamento su se stessa ha generato una sorta di ingenuità, per non dire di ignoranza. L'incoraggiamento dato alla cultura del dialogo dopo il Concilio è una delle più grandi rivoluzioni che l'insegnamento della chiesa abbia conosciuto. Essa riconosce di avere dei collaboratori nell'opera del "tikkun ´olam" (riparazione del mondo) e pensa anche che i capi religiosi possono influenzare lo spirito del mondo - nel bene e nel male. Sta a noi costituire un fronte con gli altri credenti e anche con i non-credenti per evitare che la religione venga usata a scopi negativi.

2. E' evidente che, nella cultura del dialogo, quello con il mondo ebraico occupi un posto centrale. La chiesa cattolica ha coscienza del suo legame unico con il popolo ebraico; ci siamo appena impegnati in questa via e siamo ancora alla tappa della rimozione delle barriere. Abbiamo bisogno di passare alla tappa successiva, cioè di costruire insieme una società fondata sui valori che ci accomunano. Nella sua visita alla sinagoga di Colonia l'anno scorso, Papa Benedetto XVI ha parlato di questo - cito: "Resta però ancora molto da fare. Dobbiamo conoscerci a vicenda molto di più e molto meglio. Perciò incoraggio un dialogo sincero e fiducioso tra ebrei e cristiani: solo così sarà possibile giungere ad un'interpretazione condivisa di questioni storiche ancora discusse e, soprattutto, fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto tra ebraismo e cristianesimo. (…).
Il nostro sguardo non dovrebbe volgersi solo indietro, verso il passato, ma dovrebbe spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani. Il nostro ricco patrimonio comune e il nostro rapporto fraterno (…) ci obbligano a dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo e della sacralità della vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace nel mondo."

3. Non è un caso che il papa parli dei diritti dell'uomo. Il Concilio Vaticano II insiste sul dovere dei cattolici nel campo dei diritti umani e della libertà individuale. La posizione della chiesa non è sempre stata in armonia con questi valori e ha ancora da correggersi, ma oggi adotta un'atteggiamento del tutto favorevole ai diritti umani. Ecco un patrimonio che ebrei e cristiani, che vedono nell'uomo l'immagine e la somiglianza con Dio, hanno in comune, e nel quale abbiamo una base teologica perfettamente chiara per stabilire un regime fondato sul mutuo rispetto, anche se le nostre opinioni divergono o si oppongono.

4. Infine, tengo a far sapere che la chiesa insiste particolarmente sui valori di giustizia e di pace nel nostro mondo e considera il popolo ebraico come un alleato particolare col quale operare in questo senso. La storia ci ha insegnato molto e noi dobbiamo riconoscere che non sempre abbiamo perseguito questo obiettivo. Sono stato personalmente impressionato per la domanda di perdono di Giovanni Paolo II e vorrei citare il messaggio dalui proclamato nella Giornata della Pace del 2002: "Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: ecco ciò che voglio annunciare in questo messaggio a credenti e non credenti, agli uomini e alle donne di buona volontà, che hanno a cuore il bene della famiglia umana e il suo futuro.
Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: questo voglio ricordare a quanti detengono le sorti delle comunità umane, affinché si lascino sempre guidare, nelle loro scelte gravi e difficili, dalla luce del vero bene dell'uomo, nella prospettiva del bene comune.
Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: questo monito non mi stancherò di ripetere a quanti, per una ragione o per l'altra, coltivano dentro di sé odio, desiderio di vendetta, bramosia di distruzione."

Concedetemi di tornare, per terminare, su una considerazione personale. Mentre penso alla Shoah mi devo porre la seguente domanda: io, cosa avrei fatto? Avrei ascoltato le grida degli ebrei? Avrei trovato in me il coraggio di pormi accanto a loro e di mettere in pericolo la mia vita?

Ho preso come modelli due personalità vissute durante la guerra e che sento particolarmente vicine per alcuni punti in comune nelle nostre vite. Questi due personaggi simboleggiano per me l'attitudine profetica della chiesa cattolica ai tempi della Shoah perché in quel momento essi si sono mostrati pronti, negli atteggiamenti e negli atti, a rischiare la loro vita e quella della chiesa.

Il primo e l'uomo che è diventato papa nel 1958 ed ha trascinato la chiesa nelle riforme del Concilio: Giovanni XXIII. E' nato, come me, a Bergamo e si chiamava allora Giuseppe Roncalli. Era un uomo dal cuore grande. So che la professoressa Dina Porat vi parlerà domani dell'opera da lui svolta mentre era ambasciatore della Santa Sede a Istambul. Quest'uomo rappresenta per me la possibilità di cambiare rotta e di modificare le tradizioni. Sono fiero di far parte della sua stessa comunità.

Il mio secondo modello è il padre francescano Ruffini Niccacci. Questi creò una rete clandestina durante l'occupazione nazista ad Assisi, la città di Francesco, il fondatore della congregazione francescana e, con i membri della sua rete, ha aiutato migliaia di ebrei a fuggire. Sono fiero di appartenere alla sua stessa congregazione, quella francescana, che non sempre né ovunque si è mostrata al fianco del popolo ebraico.

In quanto uomo di chiesa, questi due uomini sono per me degli esempi. Dentro ad una fedeltà totale alla chiesa di Gesù e alla sua tradizione non hanno avuto paura di andare controcorrente. Per il loro coraggio hanno trascinato molti altri ed hanno esercitato un'influenza felice. Ci hanno aperto la porta affinché noi cercassimo di correggerci. Ci hanno aiutati a ricercare nuovamente i nostri fratelli ebrei dopo i giorni oscuri, e ad esporci così al vasto mondo e alla luce, con i nostri fratelli e le nostre sorelle di ogni religione e di ogni nazione, per trovare un cammino comune verso un mondo migliore.


[Originale: ebraico. Tradotto dal francese a cura del SIDIC. Si prega di citarne la fonte in caso di utilizzo. Le citazioni dei documenti papali sono state riprese dai testi in italiano pubblicati su www.vatican.va.]

 

 

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