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Una religione tra le altre?K. Lehmann su Cristianesimo e il Dialogo Inter-Religioso
Relazione di apertura dell’assemblea plenaria autunnale svoltasi a Fulda il 23-26 settembre 2002 - Cortesia di "Il Regno-Documenti" Nella pubblica opinione la questione circa le relazioni reciproche fra le religioni ha toccato un nuovo apice dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. L’interesse per questa problematica perdura tuttora. All’ordine del giorno di questa Assemblea plenaria c’è anche l’approvazione di un ampio testo commissionato già dal 1989 e che oggi porta il titolo «Linee-guida per la celebrazione di feste multireligiose di cristiani, ebrei e musulmani. Un aiuto dei vescovi tedeschi» (32 pagine). Certamente per effetto degli ultimi avvenimenti il tema si è fatto più urgente, ma è divenuto anche più ampiamente sfaccettato. La pubblicazione della dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus del 5 settembre 2000, e la discussione che ne è seguita, hanno inoltre portato alla luce un’urgenza che era rimasta nascosta, ossia quella di occuparsi della questione dell’identità delle singole Chiese e religioni. In questa occasione è anche emerso che la dichiarazione del concilio Vaticano II del diritto umano alla libertà religiosa non è stata abbastanza discussa e non si è compiuta una sufficiente opera di mediazione con la pretesa di verità e la pretesa di assolutezza della fede cristiana. Tutto ciò costituisce motivo sufficiente per toccare, in questa relazione di apertura, il tema di fondo di questi numerosi problemi. Non è possibile trattare in questa sede anche solo in via di approccio tutti gli elementi importanti di un’odierna teologia delle religioni nella teoria e nella pratica. Per questo si prenderà qui in esame un problema fondamentale, ossia se il cristianesimo sia una religione fra le altre. Anche se in questo contributo confluiscono molte altre conoscenze, si deve ribadire fin dall’inizio che questa presa di posizione prende le mosse dalla prospettiva della teologia cattolica. Ciò non viene inteso però come una deplorevole limitazione, bensì più come una complessiva discussione del tema. I. L’uso del concetto di «religione» L’uso del concetto di «religione» non è per nulla così scontato come potrebbe sembrare a prima vista. Siamo abituati al concetto generale di «religione». In realtà il significato specifico associato a esso risale al XVII secolo. Il termine «religione» è orientato alla convinzione dell’esistenza di una «teologia naturale» che, secondo quanto si riteneva allora, appartiene alla realtà creaturale dell’uomo. Il concetto di «religione» fu concepito in dipendenza a questa teologia naturale dei filosofi. A partire dalla fine del XVIII secolo venne meno la base su cui si fondava tale subordinazione. David Hume ha formulato la tesi secondo cui in principio non vi sarebbe la fede monoteistica di una religio naturalis, bensì la venerazione di una pluralità di potenze naturali. Nel suo celebre scritto del 1799 Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (Sulla religione. Discorsi agli intellettuali tra i suoi detrattori) Schleiermacher si spingeva oltre, considerando la teologia naturale e la religione un prodotto della riflessione filosofica sui quanto di comune fra le religioni sviluppate al grado più alto, precisamente all’interno delle religioni monoteistiche. In tal modo, la pluralità delle religioni risultava essere un dato originario della vita religiosa. Ne conseguiva che anche la verità della rivelazione cristiana doveva essere fondata in modo nuovo. Nella filosofia della religione hegeliana il cristianesimo valeva quale religione assoluta, poiché in esso il concetto di religione – e cioè la mediazione tra finito e infinito – era divenuto il contenuto stesso della religione. In modo analogo Schleiermacher, nel quinto discorso sulla religione, aveva caratterizzato il cristianesimo come «religione della religione». Quando, nella seconda metà del XIX secolo, si affermò la ricerca empirica e storica sulla religione, divenne sempre più difficile svolgere un’argomentazione del genere a favore della cosiddetta assolutezza del cristianesimo partendo dal concetto di religione. E. Troeltsch1 scorgeva nel cristianesimo, nel contesto delle tante forme religiose, una sorta di «più alta considerabilità», una sintesi centrale e una convergenza di tutte le direzioni di sviluppo conoscibili della religione. Con l’influsso dei metodi di ricerca di storia delle religioni, ento-sociologici e di analisi culturale si svilupparono nuove teorie riguardo all’intero del fenomeno della religione. In questo processo si andò sempre più evidenziando quanto la comunità nel suo complesso abbia bisogno della religione per il mantenimento delle norme morali e dell’ordine sociale. Ciò portò a una visione sempre più spiccatamente funzionale della religione.2 In questo modo di vedere, la fede cristiana, ma anche ogni religione, sembra essere presa in considerazione solo come una forma dell’esperienza umana e della coscienza umana. Ciò risulta particolarmente chiaro con l’affermarsi del concetto di religiosità, che descrive in gran parte un determinato complesso di comportamenti psico-sociali. La religiosità si avvicina così alla moralità e viene intesa come disposizione a determinati modi dell’agire (Fichte, Herder, Schlegel e Kant). In altri pensatori la religiosità viene distinta rigorosamente dalla morale e viene concepita come una determinata costituzione emozionale (Humboldt, Schleiermacher, Simmel). Al tempo stesso v’è il tentativo di attribuire alla religione il suo luogo proprio nel contesto delle religioni antiche e di quelle tuttora esistenti. Questo tentativo si ricollegò soprattutto anche al metodo fenomenologico sulla scia di Husserl.3 La notevole importanza di queste ricerche, complessivamente recepite in modo insufficiente, che oggi si possono mettere in relazione anche con il primo M. Heidegger,4 risiede nel fatto che la peculiare ordinazione dell’uomo a un fondamento del senso razionalmente non del tutto raggiungibile, eppure illuminabile e con valore indiscutibile, è condizione permanente per la possibilità di un incontro con una dimensione personale che si colloca assolutamente che sta ben oltre la datità dell’esistenza. Le diverse forme espressive s’inseriscono nel riferimento ultimamente valido dell’uomo verso la trascendenza interpretata in modo personale e, rispettivamente, verso l’essere personale del Dio che disvela se stesso. Ci si poteva ben aspettare che si producesse una resistenza teologica contro una concezione della religione sempre più antropocentrica. La religione aveva in gran parte smarrito la sua provenienza da un’origine trascendente, come effetto della rivelazione divina, e la sua priorità del divino. Il più arguto esponente di questa interpretazione antropocentrica della religione è stato Ludwig Feuerbach, che vedeva nella religione una proiezione umana e un’alienazione dell’uomo, il quale raddoppia in maniera fittizia il suo stesso essere al di fuori di sé finendo col dissiparlo. È stato soprattutto Karl Barth a scendere in campo contro questo concetto di religione, da suo libro sulla Lettera ai Romani fino alla Dogmatica ecclesiale. Questa religione umana si smaschera come potenza propria dell’uomo che diventa sempre più il creatore di Dio. La religione è quindi idolatria e giustizia delle opere. In essa si mostra la contraddizione dell’uomo nei confronti di Dio e, addirittura, l’incredulità. Il concetto di rivelazione diventa sempre più un’istanza che si contrappone alla religione. Questa contrapposizione critica si può comprendere dalla collocazione storico-teologica di Barth occupa nella storia della teologia, ma in ultima analisi è anche una violenza nei confronti delle manifestazioni e delle forme espressive religiose lascia giocare il concetto di rivelazione contro quello di religione.5 In fin dei conti, non si può neppure parlare di religione al plurale, se si nega il singolare o lo si aggira. Vi sono punti in comune fra le singole religioni che anche la scienza della religione è in grado di scoprire. 6 In questo contesto è certamente utile adottare una descrizione più sfumata che renda giustizia ai dati della storia delle religioni e non tema di utilizzare anche elementi del linguaggio quotidiano. Questo è riuscito bene nella dichiarazione del concilio Vaticano II Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. In un primo momento, cioè prima di tratteggiare le singole religioni nel loro rapporto con il cristianesimo, il testo richiama i punti fondamentali in comune. Così si legge nell’introduzione: «Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta circa gli oscuri enigmi della condizione umana che, anche oggi come una volta, turbano profondamente i cuori degli uomini: che cosa sia l’uomo, quale sia il senso e il fine della nostra vita, che cosa sia bene e che cosa sia peccato, quale origine e quale fine abbiano i dolori, quale sia la via per raggiungere la vera felicità, che cosa sia la morte, il giudizio e la retribuzione dopo la morte, infine che cosa sia quell’ultimo e ineffabile mistero che abbraccia la nostra esistenza, dal quale noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (Nostra aetate, n. 1; EV 1/855) Il Concilio già trova « presso i vari popoli si nota quasi una percezione di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana (…) Tale percezione e conoscenza compenetrano la loro vita di un profondo senso religioso. Invece le religioni legate al progresso della cultura si sforzano di rispondere alle stesse questioni con nozioni più raffinate e con un linguaggio più elaborato” (Nostra aetate, n. 2; EV 1/856). Le religioni si sforzano ovunque «di superare, in vari modi, l’inquietudine del cuore umano proponendo vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri» (ivi). II. Religione e cristianesimo in rapporto tra loro Merita gettare uno sguardo più approfondito al testo della Nostra aetate. Purtroppo fino a oggi non abbiamo dei commenti all’altezza di questa importante, lungamente dibattuta, dichiarazione del concilio Vaticano II, perlomeno per quanto riguarda le sezioni che trattano la teologia della religione.7 È già importante il modo in cui s’imposta la determinazione del rapporto. Non viene battuta la tradizionale via apologetico-missionaria. La questione della diversità non è posta subito, ma non viene affatto ignorata. Si formula dapprima un prudente riconoscimento dell’esperienza di Dio nelle religioni, che non mette in discussione l’autocomprensione della Chiesa e mantiene una certa discrezione per quanto riguardo ogni propria «pretesa» formale e isolata. I cattolici vengono esortati a cercare il dialogo e la collaborazione con i fedeli di altre religioni, a riconoscerne, custodirne e promuoverne i beni spirituali e morali e i valori culturali, offrendo in questo una testimonianza della propria fede. Invero le altre religioni secondo questa visione «riflettono» solamente «un raggio di quella Verità» che è affidata alla Chiesa con l’annuncio di Gesù Cristo e che dischiude «la pienezza della vita religiosa» (Nostra aetate, n. 2; EV 1/857). Certo queste considerazioni devono essere comprese alla luce delle altre dichiarazioni del concilio che mettono in risalto la possibilità di salvezza anche per i non cristiani (cf. Lumen gentium, n. 16; Ad gentes, n. 7; Gaudium et spes, n. 22). Persino gli atei possono raggiungere la salvezza, attraverso vie che solo Dio conosce, qualora essi – ad esempio – seguono la loro coscienza.8 Il concilio riconosce che gli uomini possono vivere il loro concreto rapporto con Dio nelle loro religioni. A esse si accorda che in quanto religioni multiformi hanno parte alla realizzazione di quel proprio fondamentale rapporto che è la religione. Ci si deve rammaricare del fatto che nel periodo postconciliare ci si sia dedicati poco all’approfondimento di questi testi. Così si è giunti a una ricezione decisamente diversificata di questi spunti. A queste dichiarazioni si è rimproverato di fermarsi a mezza via. Da qualche parte si è anche sostenuto che si riconoscerebbero le religioni non cristiane solo nella misura in cui esse si lascerebbero comprendere in senso cristiano. Non le si rigetterebbero più, come capitava in molti filoni della tradizione, ma si finirebbe col requisirle nel proprio spazio. Gli esponenti della cosiddetta «teologia pluralista delle religioni» hanno cercato di fondare la tesi secondo cui le diverse religioni possono essere risposte indipendenti e ugualmente valide alla rivelazione di Dio oppure esperienze della trascendenza.9 In una chiara delimitazione dei confini rispetto all’unità di una comprensione inclusiva ed esclusiva di altre religioni nella storia della teologia, le diverse religioni vengono intese come forme espressive relative di un assoluto comune che ne rappresenta il fondamento, forme che ultimamente sono condizionate dalla propria provenienza culturale e impronta sociale.10 Questi tentativi scaturiscono dal compito di condurre a una sintesi le diverse impostazioni e tendenze di una teologia delle religioni dopo il concilio Vaticano II. Ma si dovrà anche affermare criticamente che questa sintesi non è loro riuscita in modo convincente.11 Accanto alla discussione teologica occorre qui richiamare la dichiarazione della Commissione teologica internazionale Il cristianesimo e le religioni del 30 settembre 1996,12 che rappresenta un documento ampiamente utilizzabile. Solo su questo sfondo si può infine comprendere nei suoi passaggi più importanti la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus (nota 13). Non si tratta solo di un confronto con le conclusioni spesso un po’ triviali della «teologia pluralista delle religioni», ma anche con i diversi tentativi teologici provenienti soprattutto dal subcontinente indiano, dei quali però qui non si può rendere nota in maniera dettagliata.14 III. Alla ricerca di una definizione fondamentale normativa per il rapporto della fede cristiana con le religioni non cristiane Non da ultimo anche a causa della non facile determinazione del contenuto di significazione della religione e, ancor più, della religiosità, rimane problematico prendere le mosse da un criterio che possa regolare il rapporto fra il cristianesimo e le religioni non cristiane. Sarà in seguito necessario ritornare ancora una volta sull’idea e senso del concetto «pretesa di assolutezza» della fede cristiana. Ma anche quando non si parta da una superiorità – di qualunque natura essa sia – o addirittura da un «valore massimo» della fede cristiana, è necessario trovare un modello di determinazione del rapporto che esprima una certa comunanza, che non può essere negato senza ignorare o mettere in secondo piano le differenze. Non c’è dunque una risposta immediatamente facile che si possa portare ad una formula stringente. Sulla base delle mie conoscenze, per giungere a questa determinazione del rapporto sono necessarie tre riflessioni di fondo che si co-appartengono nel modo di un movimento differenziato e che devono essere viste anche nella loro struttura di movimento. Una simile riflessione scaturisce anche dal rapporto fra il cristianesimo e la religione tout court. Abbiamo visto che non si può dare una totale diastasi fra di esse, com’era soprattutto la concezione di, e che però non si dà neppure semplicemente una completa identificazione fra le due.15 Anche questo abbozzo in via di approssimazione esige una determinazione più precisa del rapporto. Nei tre passi seguenti, che si co-appartengono come momenti di una res, si deve sempre di nuovo rimanere aperti in avanti e all’indietro nella direzione del movimento nella sua totalità. 1. Il momento positivo-affermativo Per la fede cristiana Dio è l’unico, assoluto e universale Signore di tutta la realtà. Ciò trova la sua massima espressione nella fede cristiana della creazione. Tutto ciò che esiste viene all’esistenza ed è pervaso dalla sapienza di Dio. Essa ha un nome concreto: Gesù Cristo. Tutto è stato cerato in lui e in vista di lui tutto. Per questa ragione vi è un unico ordine salvifico che comprende a creazione e redenzione. Pertanto già i primi padri della Chiesa vedevano in tutto il mondo frammenti dell’evento di rivelazione che si è manifestato definitivamente in Gesù Cristo. Questa volontà salvifica di Dio si trova in frammenti e parziali riflessi nei movimenti religiosi dell’umanità. La meta «una» compare nelle domande e nelle risposte dei filosofi pagani così come nelle affermazioni e nei riti delle religioni. Persino Agostino, che nella questione della possibilità salvifica dell’uomo ha un giudizio decisamente rigoroso, era propenso ad ammettere che la bontà di Dio fin dall’inizio è da sempre all’opera tra tutti i popoli, sicché anche i pagani hanno avuto i loro santi nascosti e i loro profeti. Questa speranza oggi non si riferisce solo alla salvezza del singolo non cristiano. La grazia redentrice di Dio normalmente incontra l’uomo non solo isolato nella solitudine della sua coscienza morale, bensì nella totalità della sua situazione socio-culturale. Abitualmente egli vive la sua vita religiosa nelle forme che gli vengono offerte dalla sua comunità religiosa. Qui egli incontra normalmente quella che è per lui, nella sua situazione storica concreta, la pretesa incondizionata della coscienza morale. Sono dunque due gli elementi che qui vengono riconosciuti: la ricerca comune da parte dell’umanità di una causa prima religiosa e l’azione nascosta della grazia di Gesù Cristo, ancora sconosciuta, nelle religioni non cristiane. Ciò è stato espresso molto chiaramente dalla Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane del concilio Vaticano II, come già è stato esposto in precedenza mediante i rimandi ai paragrafi 1 e 2. Quanto è qui decisivo è come si giudica questa frammentaria e parziale comunanza. Naturalmente non può trattarsi di un puro e semplice livellamento delle diverse impostazioni religiose, poiché in questo modo non si potrebbe rendere giustizia né all’immagine che hanno di sé le religioni non cristiane né alla pretesa della fede cristiana. Il concilio Vaticano II formula pur sempre un massimo di affermazione e riconoscimento degli elementi comuni: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto in queste religioni è vero e santo. Essa con sincero rispetto considera quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini. Essa però annuncia, ed è tenuta ad annunziare, incessantemente Cristo che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose» (Nostra aetate, n. 2; EV 1/857). Solo mediante una risposta dinamica che accordi all’interlocutore un minimo di elementi comuni, ma al tempo stesso non eviti il confronto per la compiuta pienezza per tutti, può esservi dialogo e collaborazione. Chi intende le altre religioni solo come incredulità, idolatria e hybris, si isola creando una sostanziale incapacità di dialogo e smarrendo l’ampiezza universale dell’incontro propria del cattolicesimo.16 2. Il momento della negazione e dello smascheramento Senza un’integrazione critica quanto è stato detto non sarebbe vero neppure per metà. Non si può affatto negare che l’Antico e il Nuovo Testamento e i padri della Chiesa vedono nelle altre religioni anche una fede alienata e superstizione, menzogna e inganno, una caricatura demoniaca della vera religione, un’illusione diabolica, hybris, oscuramento del cuore e depravazione etica. Esse sono una sorta di capovolgimento dell’ordine della creazione. La fede biblica non lo riconosce affatto tutto quello che in qualche modo si spaccia per «religioso», già per questo solo motivo come significativo per la salvezza. La fede biblica conosce bene le diverse forme e trasformazioni della religiosità. Il cristianesimo pronuncia anche un deciso «no» alle religioni e vede in esse dei mezzi d’aiuto mediante i quali aiuti assicura se stesso contro Dio, piuttosto che consegnarsi alla sua pretesa. Ricordiamo lo sbeffeggiamento delle altre religioni nell’Antico Testamento. «JHWH non si pone in riga con gli altri dei. Poiché tutti gli altri dei sono solo idoli, JHWH è intollerante. In quanto egli è intollerante, tutti gli dei sono solo idoli. Essi si dissolvono in «nulla» se e non appena vengono messi a confronto con Jahvè, confronto che si svolge nel dileggio in un modo eminentemente peculiare a JHWH. Non si fa esercizio di tolleranza per amore della singolarità propria di Dio che si vuole preservare; poiché la lotta di JHWH contro gli idoli, di appartiene anche il dileggio, è parte della suo mostrarsi eminente e della suo dominio che s’impone».17 Nel Nuovo Testamento Paolo afferma, in maniera estremamente differenziata, che gli uomini conoscono la verità di Dio, ma non l’hanno riconosciuta. Hanno represso lo splendore della verità e hanno contraccambiato in maniera idolatrica la gloria di Dio con mere immagini di uomini e animali corruttibili. Al posto del creatore hanno tributato venerazione e culto alle creature (cf. Rm 1,18 ss, 2).18 Come già si è accennato, questa visione della religione ha trovato notoriamente nella teologia dialettica dell’ultimo secolo un inasprimento in senso negativo.19 Insieme all’etica, alla morale e alla legge, la religione è apparsa come la forma più raffinata di autogiustificazione, di giustizia delle opere, come il tentativo dell’uomo di giungere a Dio da solo e con le sue sole forze, in un atteggiamento manipolatore e quasi magico. Ultimamente essa è proprio l’aggiramento del Dio divino e il tentativo di un’autoredenzione. Il concetto di religione divenne così del tutto inadatto a essere applicato alla fede cristiana. D. Bonhoeffer ha aggiunto un’ulteriore sfumatura della critica della religione a questo pensiero di Karl Barth: davanti all’ingiunzione della fede che rivendica per sé la totalità dell’uomo, la «religione» si distingue inoltre per l’individualismo, la fuga in un mondo che sta «al di là», per il provincialismo e la mancanza di un’adeguata comprensione del mondo con la conseguente chiusura in sé stessi nella propria interiorità. L’ultimo Bonhoeffer insiste decisamente sulle tendenze al soggiogamento e sull’inclinazione all’assenza di mondanità. Se il cristianesimo era incapace di entrare in dialogo con il mondo moderno, non da ultimo è stato anche – ad esempio – in ragione della concezione «religiosa» della sua forma.20 Per lungo tempo questo concetto di religione ha largamente prevalso all’interno della teologia evangelica. Negli ultimi decenni vi è stato un cambiamento di rotta altrettanto radicale. Si è parlato addirittura di una riabilitazione del concetto di religione.21 Se questo nuovo orientamento era tanto necessario, non di rado però esso ha gettato via il bambino insieme all’acqua sporca. In fondo l’alternativa opposta era analogamente radicale e perciò praticamente inutilizzabile quanto la tesi stessa. Si ricadeva non raramente in un concetto di religione indifferenziato, che per lo più tornava a livellare lo specifico della fede cristiana. Non vi è dubbio, però, che la teologia dialettica, nonostante le sue conseguenze eccessive, aveva visto qualcosa che nel suo nocciolo era sicuramente cristiano: cioè il fatto che il fenomeno della religione è senz’altro determinato anche dalla tendenza dell’uomo a chiudersi in sé e dalla sua inclinazione al peccato. L’aspetto della fede cristiana critico verso la religione, che non riconosce semplicemente ogni fenomeno delle religioni come espressione positiva di fede, in realtà non è affatto così fuori moda come apparirebbe a prima vista. «Il cristianesimo, nella sua teologia della storia delle religioni, non parteggia semplicemente per il religioso, per il conservatore che si attiene alle regole delle istituzioni che ha ereditate; il no cristiano detto agli dei significa piuttosto un’opzione per il ribelle che, per amore della coscienza morale, osa fuggire a ciò che è abituale: forse questo tratto rivoluzionario del cristianesimo è rimasto nascosto per troppo tempo sotto immagini guida a carattere di conservazione».22 Tale oscuramento della religione causato dalle proprie distorsioni e deformazioni, dall’abuso e dall’ideologizzazione, non va ignorato. Lo si vede proprio oggi all’opera in una certa «rinascimento» della religiosità in senso ampio, che include però anche pratiche superstiziose come ad esempio culti satanici.23 Se da qualche tempo ormai si parla della natura e dell’abiezione della religione, oppure se si deve anche riconoscere la problematica ideologica nella religione e nella Chiesa,25 ciò si radica senz’altro nella tradizione teologica. Una religione si aliena anche quando elude gli obiettivi originari, come ad esempio l’educazione dell’uomo alla maturità e alla libertà, conducendo alla cancellazione dell’autonomia. Altrettanto negativo è quando la religione viene strumentalizzata, dall’interno o dall’esterno, per giustificare l’uso della violenza e addirittura il terrorismo. In questo senso si parla anche di pseudoreligione, che fa la sua comparsa ogni volta che una realtà finita, come ad esempio l’umanità, la razza, il popolo, il partito, la natura, lo sport ecc., viene innalzata in modo mitico e cultuale e se si fa di essa un idolo. Ogni religione, operando distinzioni al suo interno, deve essere sollecita della sua autenticità e purezza. Per questo c’è continuamente bisogno di rinnovamento e riforma. Ma anche ogni dialogo interreligioso deve prestare attenzione e richiamare l’attenzione su questa perversione della religione. 3. La mediazione dei due elementi La via che occorre ora cercare fra affermazione e negazione non deve però essere una minimizzazione. Essa, infatti, non può condurre a un sincretismo26 che sfuma tutti i contorni e dichiara la totale indifferenza di tutti gli elementi. Si tratta di un pericolo grande e incombente perché oggi abitualmente partiamo da un concetto di religione molto statico. Il nostro concetto di religione, colorato di cosmopolitismo, presuppone infatti, nella maggior parte dei casi, che ognuno permanga all’interno della propria religione, la eserciti totalmente e la faccia fruttificare.27 Così si sarebbe senz’altro identici «nel nocciolo duro» a tutti gli altri uomini che sono religiosi. In questa borghesia globale religiosa traspare al tempo stesso, velatamente, l’idea che questo sarebbe possibile anche perché i simboli religiosi scaturiscono da un’ultima unità del linguaggio simbolico dell’umanità. L’unità delle religioni è dunque raggiungibile senza dissoluzione e superamento della pluralità. Non intendiamo qui esaminare in che misura questa visione del futuro contenga un briciolo di verità. Ma queste idee collaterali di religione hanno effettivamente creato un concetto di religione assai rigido, che ci ostacola sia nel vero dialogo delle religioni fra di loro sia nel confronto con tanti cosiddetti movimenti religiosi del nostro tempo. Questo concetto si presta anche ad immunizzare le figure religiose problematiche e a proteggerle in una zona riparata. La nuova strada non deve neppure portare a postulare un’aurea e innocua «mezza via» che andrebbe stabilita una volta per tutte. La via dell’analogia – somiglianza nella dissomiglianza e dissomiglianza nella corrispondenza – vuol dire il compito permanente di confrontare con spirito di autocritica gli elementi che accomunano e quelli che dividono. Non si tratta di liquidare aprioristicamente come hybris dell’incredulità ogni ricerca umana di Dio, tutto ciò che è religioso in questo senso. Da questo siamo messi in guardia anche gli Atti degli apostoli (17,22ss): «Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo. Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi».28 A questo punto si osserva anche che non si tratta affatto di un’indifferente uniformità di tutte le religioni. La sfida della vicinanza permane comunque in ogni caso. Poiché la rivelazione di Dio, soprattutto nel Nuovo Testamento, è coestensiva alla storia umana (Gesù Cristo è morto per tutti, la missione degli apostoli è verso tutti i popoli), e poiché l’azione della grazia oltrepassa l’ambito visibile della realtà ecclesiale, non possiamo sentenziare in modo assoluto e definitivo dove, all’interno di un movimento dello spirito religioso, sia all’opera la «religione naturale» o la rivelazione, e dove no. Nella religione rivelata si presuppone, quale base, la capacità di accoglienza per la ricerca umana, sebbene essa venga trasformata. Però, tutta la somiglianza delle forme, tuttavia, non può escludere un’altrettanto grande dissomiglianza nel modo di comprendere Dio. Nulla nelle ideazioni umane è da sempre completamente esente dall’hybris dell’uomo. Qualche volta il confine è sottilissimo, come ad esempio quando si accosta la risolutezza della confessione cristiana, che fa parte della fede, a un fanatismo e fondamentalismo intollerante,29 fermo restando che le due cose sono in realtà profondamente diverse. C’è sicuramente l’elemento in comune, cioè l’esigenza dell’uomo di lasciare il mondo delle manifestazioni visibili e trovare Dio. Ma per questo ci vogliono anche: la liberazione dai legami della passione che avvincono alle cose esteriori; la disciplina della parola e della fantasia umana, ma anche dei pensieri vaganti; la concentrazione delle forze nel nucleo centrale dell’uomo; il dono del silenzio come origine del vero vedere e dell’udire originario; capacità di distanza da tutte le attrazioni seducenti; purificazione degli affetti, dei legami impuri ecc. Ma bisogna mettere in guardia dalla minimizzazione, come se i diversi metodi e tecniche del religioso fossero tutti indifferenti, come se vi fosse una tale comunanza di elementi fondata in maniera filosoficamente religiosa da far apparire possibile un’ampia interscambiabilità dei contenuti. Tra le forme della nuova religiosità e la fede cristiana non v’è altra via che quella del discernimento costante degli spiriti, che si compie secondo molti criteri che non rappresentano un bagaglio costante e immutabile, ma si riformulano storicamente a seconda dell’interlocutore e del confronto e si legano insieme variamente a formare gruppi di criteri di volta in volta diversi. Non è possibile in questa sede mettere in particolare risalto alcune di queste caratteristiche, che oggi sono importanti.30 In questi tre momenti che rappresentano un movimento, ravviso la struttura e le regole del gioco per un dialogo interreligioso a partire dalla prospettiva della teologia e della Chiesa cattolica. È divenuto chiaro che questa struttura tripartita-unitaria appartiene al pensiero analogico, che è alla fin fine necessario per la vera conoscenza di Dio e quindi anche per le dinamiche religiose. IV. «Pretesa di assolutezza del cristianesimo»? In questo contesto occorre parlare anche – almeno brevemente – di un concetto che è stato da più parti utilizzato per descrivere ed anche risolvere il problema, cioè la «pretesa di assolutezza del cristianesimo».31 Innanzitutto va detto che non si tratta di un concetto genuinamente teologico. Dall’Illuminismo in poi esso si mescola anche a molteplici caratteristiche specifiche di questo periodo – cosa che però, spesso, non si ha una sufficiente percezione. Sovente tale concetto viene anche identificato con equivalenti come «unicità», «inconfondibilità», «inderivabilità», «incommutabilità» e «insuperabilità» in linea di principio. Ma questo non ci è di grande aiuto nella riflessione, in quanto l’«assolutezza del cristianesimo» ha determinati contorni dai quali non si può semplicemente prescindere. Ben presto ci si rende conto che la facile duttilità del concetto è un’illusione. Scrive E. Troeltsch: «Così l’espressione «assolutezza del cristianesimo» è divenuta oggi per molti un concetto completamente sbiadito, che viene utilizzato con grande passione ma con poco senso concreto. Per molti si tratta solo di un’espressione scientifica moderna che suona neutrale, con la quale essi effettivamente intendono l’apertura soprannaturale senza una precisa fondazione di tale apertura: uno dei tanti manti scientifici vago e ampio, che si indossano alle feste della teologia».32 Secondo Troeltsch il cristianesimo non può essere costruito mediante mezzi storici come religione assoluta. Esso è profondamente condizionato dalla situazione storica e dai suoi corrispondenti legami. Se viene visto come «relativo», ciò significa che è sempre immerso in un contesto vitale più grande e che solo a partire da tale contesto è possibile formulare un giudizio e una valutazione. «Relativo» e «assoluto» sono sempre frammisti. Dal relativo crescono direzioni che spingono verso fini assoluti.33 C’è un fine comune, esso però non è mai pienamente realizzato nella storia ma è sempre chiaramente indicato. Vi è anche qualcosa come una sorta di «breccia definitiva della sua della sua direzione fondamentale principale, ma non c’è alcuna sua realizzazione assoluta».34 Il fine trascendente nella storia può essere sempre colto solo in un modo individualmente determinato. Così si trasforma anche l’idea stessa dell’assolutezza. La pretesa di assolutezza, in una prospettiva evolutiva della storia, si trasforma nella possibile considerabilità più alta, nell’avvicinamento a un fine che si ha sempre in mente ma che è posto al di là della storia. Così esso rimane ultimamente solo nella cifra generale di una «superiorità» della rivelazione. Da ultimo, il riconoscimento dell’assolutezza della fede cristiana è un fatto della convinzione personale della confessione. Non mancano buoni motivi a favore della posizione singolare del cristianesimo. Esso è «punto culmine» e «punto di convergenza» di tutte le direzioni conoscibili, «sintesi centrale», «un grado in linea di principio nuovo», l’idea più alta in valore per noi e verità ma, appunto, della fede. In tal modo non è possibile dimostrare neppure che il cristianesimo debba rimanere l’ultimo punto culmine e che sia escluso ogni travalicamento. «Voler avere l’assoluto nella storia in modo assoluto in un singolo punto è un’illusione che naufraga non solo a causa della sua irrealizzabilità, bensì anche a causa della sua contraddizione interna contro l’essenza di ogni religiosità storica».35 Così l’«assolutezza» è in fondo la caratteristica di un’immagine ingenua del mondo. Rispetto a questa «ingenua assolutezza» E. Troeltsch oscilla fra una posizione di pesante svalutazione e una di una sua valutazione correttamente positiva. La visione del mondo scientifica viene celebrata pateticamente.36 A questa ingenuità appartengono anche il valore e l’autorità dei dogmi, del diritto canonico, dei sacramenti. I due concetti di assolutezza, quello ingenuo e quello scientifico, rimangono tra loro giustapposti. Verso la fine della sua vita si è accentuata in Troeltsch il suo scetticismo: tutte le religioni dipendono dal loro ambiente culturale e sono comprensibili solo al suo interno. «Vorrei solo rimandare nuovamente, oggi più duramente di allora, al fatto che questa connessione non può già trovarsi in una delle religioni storiche, quanto piuttosto che tutte esse intendono una direzione comune e tutte aspirano, in virtù di uno slancio interiore, verso un’ultima ignota altezza, dove unicamente può trovarsi l’ultima unità e l’assoluto-obiettivo».37 Molte pubblicazioni sono debitrici a questo modello di pensiero, ricollegandovisi o contraddicendolo.38 Ma è possibile procedere oltre solo se si districano le aporie che si sono prodotte. In questa sede possiamo farlo solo procedendo attraverso delle tesi sintetiche.39 1. Seguendo E. Troeltsch si può utilizzare ingenuamente la formula «assolutezza del cristianesimo» nel senso di un’insuperabilità ultima e di una permanente pretesa di verità del messaggio biblico. 2. Nell’uso scientifico del linguaggio scientifico non si può prescindere dalla storia del problema che è stata mostrata. Non si possono acquisire, insieme con la formula, modelli di pensiero che contengano implicazioni inadeguate alla res. Il tratto più difficile è la referenzialità di questa assolutezza alla storia. Si pensa ad una dimensione rigorosamente immutabile, che riposa pienamente in sé, che può essere collocata unicamente al di là della storia. È la totale autarchia di un che di perfetto in se stesso, trascendenza esclusiva e immutabilità. Qui impera una metafisica statica che manca della dovuta riflessione. 3. Il plesso biblico-cristiano non si lascia descrivere come una realtà che sussiste puramente in se e per se stessa. La pretesa della fede biblica non sussiste per sé, bensì per l’altro e in uno scambio con lui. Il movimento della rivelazione dentro la storia deve essere concepito in maniera positiva. Questa è la sua inderivabile novità.40 4. Si nota come l’«assolutezza del cristianesimo» viene perlopiù fondata senza ricorrere all’Antico Testamento. Categorie portanti come promessa, pienezza e compimento non giocano alcun ruolo. Il tutto ha la somiglianza di un sistema senza tempo. 5. Il movimento della rivelazione dentro la storia trova il suo apice nella vita e nella morte di Gesù Cristo. Nella sua persona e nella sua opera l’insuperabile e irrevocabile verità «assoluta» di Dio si è fatta storia. Per questo è fondamentale anche l’idea di pleroma, della «pienezza di Gesù Cristo». Questo punto verrà esposto con maggior precisione nel paragrafo seguente. 6. «Assolutezza del cristianesimo» non esaurisce sufficientemente la concentrazione cristologica della rivelazione neotestamentaria. In Gesù Cristo stesso si compie infatti l’unità fra esistenza storica unica e pretesa universale. Per questo motivo non devono mancare anche le dimensioni del futuro (escatologia), della prassi e anche della comunicazione, cioè – per un usare un termine teologico – della missione. L’«assolutezza del cristianesimo» si realizza anche in persone viventi e in forme concrete. Il mancato riferimento alla storia ha conseguenze anche per quanto riguarda una comprensione della comprensione della Chiesa non sufficientemente illuminata. Senza la Chiesa storica come segno universale della salvezza e senza la sua originaria «cattolicità» non si può dare alcuna concezione di «assolutezza» che consenta un vero universalismo cristiano. Qui devo rimandare globalmente agli abbozzi teologici di H. de Lubac41 e H. U. von Balthasar.42 7. Che non sia possibile tornare indietro rispetto alle scoperte della storia delle religioni e anche agli intrecci di storia delle religioni dell’Antico e del Nuovo Testamento43 è dato corretto. Un’adeguata ricerca storica ha ragione quando vede ogni pretesa incondizionata in una relazione innegabile con configurazioni affini, tematicamente vicine o simili. Ho già proposto, in passato, per questo aspetto il termine di «capacità della storia», che ovviamente racchiude in sé anche una dimensione radicalmente trascendente: quanto è biblico-cristiano non soccombe facilmente all’amalgama delle religioni non cristiane, del processo di inserzione e contraddizione, ma in questa lotta storica si impone sopra ogni nuovo momento presente. Qui non si tratta della mera «sopravvivenza» fattuale, piuttosto vi compare una capacità di principio riguardo alla storia, che al tempo stesso viene in tal modo superata. Paolo lo ha formulato in forma estremamente sintetica: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21). Così dovrebbe essere stato mostrato che il concetto di «pretesa di assolutezza del cristianesimo», il quale in un primo momento suona così incolpevole e del tutto utilizzabile, è in ultima analisi insufficiente e frapponendosi come impedimento, piuttosto, al compito di una teologia delle religioni.44 V. Singolarità e universalità di Gesù Cristo nel dialogo interreligioso Stante la problematica appena esposta, si dovrebbe forse prendere un’altra direzione che però nel contesto del presente contributo si può solo presentare per cenni. Si deve guardare meno alla «pretesa di assolutezza del cristianesimo» in modo astratto, quanto piuttosto si deve guardare a colui che ha istituito e fondato la fede cristiana. Ciò è sempre successo in vario modo. Si pensi soltanto ai primi insegnamenti patristici sul logos, i cui semi possono essere disparsi anche nel mondo non cristiano. Il punto di partenza per un’ulteriore determinazione scaturisce dalla dottrina cardine per l’autocomprensione del cristianesimo, secondo la quale Dio si è rivelato nella storia che in Gesù di Nazaret giunge al suo apice insuperabile evi realizza la salvezza a favore di tutto il mondo. Questo si mostra nella struttura escatologica dell’evento di Cristo che, pur con tutta la provvisorietà che esiste finché dura la storia, significa ed esprime un’ultima definitività. Ma Gesù Cristo non è solo l’ultima parola di Dio, ma nella sua persona e nella sua opera salvifica si manifesta anche l’insuperabilità (Unübersteigbarkeit) e la non rivendicabilità dell’amore di Dio per gli uomini (cf. Gv 3,16; Rm 8,32; Ef 3,19). Si tratta dunque del singolare e universale ruolo salvifico di Gesù Cristo. La teologia pluralistica delle religioni vede nella relativizzazione di questo significato salvifico di Gesù Cristo l’unica possibilità per sottrarsi alla necessità di ridurre o negare completamente il ruolo salvifico delle altre religioni e le figure dei loro mediatori. L’argomentazione a favore di questa via non è convincente. Si argomenta che il Gesù storico non avrebbe avanzato nessuna pretesa di unicità e universalità. La pretesa singolare degli scritti neotestamentari si spiegherebbe facilmente a partire dalle condizioni storico temporali. Si tratterebbe di un modo di esprimersi apocalittico o mitico, oppure anche metaforico, abituale a quel tempo che dovrebbe essere inteso anche tenendo conto della strategia di sopravvivenza del primo cristianesimo. L’evento di Cristo sarebbe e resterebbe un avvenimento particolare, certo assai significativo ma, appunto, solo per coloro che ne furono immediatamente toccati, ossia gli apostoli di allora e i cristiani che li seguirono. Per un confronto dettagliato si rimanda alla bibliografia teologica già citata, ma soprattutto anche la documento cui si è fatto cenno della Commissione teologica internazionale Il cristianesimo e le religioni del 1996. Certamente l’incarnazione di Gesù Cristo include la sua particolarità, cioè di essere un ebreo del suo tempo. Ma poiché egli è il Figlio di Dio che si fa carne, la sua particolarità non esclude la sua universalità. Anche i Vangeli congiungono i due aspetti. La loro novità come genere letterario sta addirittura nel cercare di descrivere l’una nell’altra la particolarità e l’universalità che vengono rafforzate e confermate dalla risurrezione e dall’innalzamento di Cristo. Alla luce di questo si mostra come la particolarità non sia semplicemente l’apparire casuale e contingente di un singolo uomo – il che non tiene poi così tanto neanche a livello antropologico della somiglianza divina dell’uomo –, quanto piuttosto il fatto che questa particolarità significa al tempo stesso singolarità e dunque unicità. Il Nuovo Testamento mette in rilievo continuamente questa unità di singolarità storica e significato universale. La Lettera agli Ebrei riesce a definire questa struttura unitaria e duplice con un’unica parola, cioè ephapax, la cui traduzione migliore è «una volta per tutte» (cf. Eb 7,27; 9,12; 10,10).45 La singolarità qui è sintetizzata con la definitività, l’unicità con l’universalità, mediante una parola che certamente, in un esame sistematico, va oltre l’uso immediatamente rilevabile nella lettera agli Ebrei. Con questa interpretazione anche il «fatto» storico dell’evento di Cristo viene valutato diversamente. Esso non appare solo nella sua particolarità; ma, proprio per essere accaduto e per il suo perdurare, ha una sua propria dignità che a dire il vero è stata scarsamente messa in luce sul piano filosofico ed ermeneutico e necessita urgentemente di un approfondimento.46 È stata esattamente la debolezza di E. Troeltsch, ma anche di tanti tentativi teologici che lo seguirono, quella di far imperare fra l’«Assoluto» e la «storia» un abisso incolmabile. Teologicamente si deve pensare in questa direzione: ossia che tale evento che accade una volta per tutte rimane pienamente accessibile solo nello Spirito e si apre nel suo medium anche ad altre situazioni storiche. L’evento di Cristo mediante l’apertura «nello Spirito» è in grado di raggiungere altri luoghi e tempi, altre lingue e culture. Questa è una condizione essenziale per ogni dialogo interreligioso da parte della fede cristiana. Proprio partendo da questo punto si dà in esso l’accadimento della mediazione nella Chiesa. La cattolicità, apertura e universalità «per i molti», deve essere compresa a partire da qui. Questo contraddice francamente tutti i vecchi e nuovi integralismi. Così non è il cristianesimo nella sua astrattezza, bensì la persona di Gesù Cristo che può divenire anche punto di convergenza di una teologia delle religioni. Egli è l’ens concretum in cui si rivela a tutti gli uomini l’amore di Dio, resosi definitivamente manifesto e permanentemente presente nello Spirito. A questo punto si deve nuovamente richiamare l’importanza dei concetti biblici basilari quali «pleroma», «pienezza di Gesù Cristo» e così via. Non una relativizzazione del significato salvifico dell’evento di Cristo, ma proprio l’insistenza sulla sua singolarità e universalità è quanto ci conduce alla conoscenza del fatto che l’amore unico e onnicomprensivo di Dio si fa incontro in maniera invitante a tutti gli uomini per vie a noi ignote. Così non si fonda alcuna pretesa di superiorità della fede cristiana in un senso erroneo. Piuttosto il cristiano deve chiedersi se ha saputo rendere giustizia alla grande responsabilità che la sua vocazione gli ha donato. Non per nulla Gesù ammonisce continuamente coloro che sono chiamati a non sprecare la loro «preferenza». Questo è anche il terreno genuino in cui si radica il mandato missionario della fede cristiana, mandato che appartiene alla sua essenza fondamentale. Tale struttura, proprio in questa singolarità fatta di particolarità, unicità e universalità, mette in atto la possibilità di una continuità, di un ricezione, di una complementarità, ma anche della concorrenza e della competizione nel dialogo interreligioso. Non ci si deve chiudere troppo facilmente a nessun elemento. Su questo occorrerebbe certo, per quanto riguarda singoli punti, un’esposizione accurata. Non è possibile mostrare in questa sede in che misura questi elementi si possano ritrovare in alcuni abbozzi cristologici. Alla luce di una simile prospettiva, diviene chiara anche la profondità e la forza della filosofia della religione di Hegel che definisce il cristianesimo con la persona di Gesù Cristo come «religione assoluta».47 Ma in compenso vorrei ancora richiamare la vostra attenzione su un importante antecedente che ha precorso queste riflessioni, e cioè sull’opera di Nicola Cusano De pace fidei che s’inserisce nel quadro storico provocato dalla caduta di Costantinopoli (1453). Nicola aveva sperimentato molto concretamente le controversie religiose nell’impero e non ultimo il fallimento di un’unificazione della Chiesa in Oriente e in Occidente. L’islam torna a essere preso in considerazione. Il cardinale ha vissuto e fatto esperienza concreta di come la pace religiosa e la pace del mondo dipendano strettamente l’una dall’altra. Nel suo scritto schizza i contorni di una visione: diciassette rappresentanti di diverse nazioni e religioni in un concilio celeste devono essere condotti all’intelligibilità del fatto che ovunque è presupposta una sola e identica fede, e che questa vive nella Chiesa di Gesù Cristo. Poiché Dio è uno solo, pur con tutta la diversità forme di manifestazione può esistere solo un’unica religione che sta alla base di tutti gli orientamenti di fede ed è al tempo stesso vera: religio una in rituum varietate. Alla fine solo Dio stesso può ricomporre il confronto. È Dio che nelle varie religioni viene cercato in maniera diversa e viene diversamente nominato, poiché egli nella suo vera natura rimane lo sconosciuto e l’inesprimibile per tutti. La religione una e vera per Cusano è il cristianesimo. I popoli possono trovare le verità del cristianesimo nelle enunciazioni delle proprie religioni. Quanto vi è di razionale e ragionevole all’interno di tutte le religioni si ritrova in Gesù Cristo. Ogni religione implica la fede in Gesù Cristo. In questo senso Cristo è colui che porta a compimento tutte le religioni.48 Lo scritto di Cusano non è certo solo una finzione letteraria, ma contiene anche, in una passione addirittura escatologica, l’anticipazione di una speranza che non può essere del tutto estranea alla fede biblica e anche addirittura alla fede cristiana. VI. Le regole fondamentali per il dialogo interreligioso oggi Torniamo alla situazione odierna e al compito del dialogo interreligioso. In questo scenario, il fatto che oggi vi sia una maggiore domanda di dialogo interreligioso non è solo espressione del grande sgomento seguito all’11 settembre 2001 oppure un fenomeno di moda. Ci si è resi conto di quanto questo dialogo appartenga in forma del tutto basilare all’odierno plesso relazionale molteplice soprattutto delle grandi religioni, e anche perché la sfida di tutte le religioni mondiali nel XXI secolo non può essere ignorata. In quest’ultima parte si vuole tentare di indicare alcune linee portanti in tale direzione. 1. Il dialogo a livello di magistero Vi sono in tale ambito certamente diverse fasi in questo tentativo di incontro e di colloquio con le religioni. Da parte cattolica vorrei qui distinguere quattro fasi osservabili negli ultimi decenni: uno sforzo intenso, soprattutto della teologia anteriore al Concilio Vaticano II, di elaborare una nuova teologia delle religioni; le affermazioni del concilio Vaticano II sul tema, soprattutto nella Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate; gli sforzi postconciliari tesi a comprendere la nuova religiosità extraecclesiale; un nuovo inizio di dialogo interreligioso. Non si dovrebbe perdere di vista in merito anche la situazione diversa in cui si trova il dialogo con i vari interlocutori (nota 49). Il dialogo interreligioso deve essere rigorosamente distinto dall’ecumenismo, che si sforza di arrivare alla riconciliazione delle diverse Chiese e comunità cristiane. Il dialogo con l’ebraismo – da decenni forse non molto intenso, ma costante – deve essere considerato nel suo peso e collocazione specifica, questo sia sulla base dei punti in comune con la rivelazione biblica dell’Antico Testamento sia dinanzi all’antisemitismo e all’atrocità del periodo nazionalsocialista. Il dialogo con l’islam ha anch’esso una sua propria struttura. Insieme all’ebraismo e al cristianesimo, l’islam appartiene alle cosiddette religioni abramitiche, che sotto alcuni aspetti sono legate tra loro da una comunanza ancora non sufficientemente messa in luce. Inoltre, gioca qui un ruolo importante il fatto che la presenza di molti musulmani in Europa e la convivenza con loro nel nostro paese rendono molto più urgente questo dialogo. Davanti a ciò, i dialoghi soprattutto con il buddismo e l’induismo, che certo hanno e trovano anche da noi un numero crescente di rappresentanti, sono ancora agli inizi e finora sono oggetto di minore attenzione. Non in tutti i paesi questo dialogo è stato avviato e condotto in modo più intenso. In linea generale si ha una conoscenza limitata del fatto che durante il concilio Vaticano II, sulla base della sopracitata dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, era stato costituito da papa Paolo VI fin dal 1964 un organismo corrispondente, che allora venne chiamato Segretariato per i non cristiani. Il primo presidente di questa istituzione fu niente meno che l’arcivescovo di Vienna, il card. Franz König rinomato studioso di scienza delle religioni. Dal 1988 ha assunto la denominazione di Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Papa Paolo VI, nella sua grande enciclica Ecclesiam suam del 6 agosto 1964 sul dialogo della Chiesa con il mondo, dichiara di non voler «rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane; vogliamo con esse promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficenza sociale e dell’ordine civile. In ordine a questi comuni ideali un dialogo da parte nostra è possibile; e noi non mancheremo di offrirlo là dove, in reciproco e leale rispetto, sarà benevolmente accettato».50 Su questo sfondo, vorrei solo rimandare al fatto che i documenti che invitano al dialogo interreligioso, e precisamente documenti del concilio, dei papi, nonché quelli delle istituzioni romane che si occupano di questi problemi, riempiono nel loro complesso un volume di quasi 900 pagine. Siamo ancora lontani dall’aver adempiuto a quel compito tante volte descritto.51 Sarebbe auspicabile realizzare una selezione dei testi principali in lingua tedesca – avendo cura di ordinare i singoli testi in riferimento alla situazione della loro origine. 2. Le esigenze basilari per un dialogo attuale Analoghe considerazione potrebbero essere fatte per altre Chiese e religioni. La Chiesa cattolica ha sempre dovuto riprendere in modo accentuato questo problema del dialogo con le chiese non cristiane, poiché essa, come Chiesa universale presente localmente, ha sempre vissuto nell’incontro e nel confronto con le altre religioni. Dinanzi a questo scenario generale vorrei ora formulare, in forma di tesi, alcune riflessioni con un’accentuazione precipua in linea di principio: 1. Il dialogo e l’incontro fra le religioni presuppongono un orizzonte universale umano. Si deve avere ben presente ciò che è comune gli uomini e li conduce verso una comunione senza confini. Questo comporta anche il riconoscersi e l’accettarsi allo stesso modo come uomini, che trova espressione nell’uguale dignità umana e nei diritti umani per tutti. Nessuna religione può e deve allontanarsi da questa base. Un dialogo è possibile solo se – ferme restando tutte le differenze – ci si accetta innanzitutto come persone alla pari (par cum pari loquitur). Il dialogo non deve essere distorto da pretese di potere di qualsiasi tipo. Il fondamento di questa comunanza non è solo nell’unico genere umano che abita su tutta terra e rappresenta una comunità unica. Le religioni vedono in Dio l’origine e il fine dell’umanità. La bontà e l’amore di Dio si riferiscono a tutti gli uomini, che Dio desidera unire in pace e libertà nel banchetto comune dei popoli. 2. Proprio oggi le religioni, nel modo loro proprio, ma pur tuttavia in uno sforzo comune rispetto alle domande e alle sfide, dinanzi ai bisogni e alle sofferenze degli uomini, devono rendere testimonianza del motivo per cui esiste la religione e della sua utilità per l’uomo. Le risposte basilari alla domanda «Per che cosa e perché la religione?» devono essere di volta in volta convincenti nelle parole e nei fatti. Queste sfide hanno un nucleo senz’altro filosofico, che potrebbe essere ritrascritto nel modo seguente: Da dove viene l’uomo? Verso dove conduce la sua via? Vi è un senso della anche al di là della morte? Ho già richiamato l’attenzione su queste domande della Nostra aetate (art. 1). Da sempre gli uomini pongono queste domande. Nella loro articolazione di fondo esse non cambiano, anche quando mutano l’orizzonte storico e la posizione delle problematiche concrete. Anche nel nostro tempo gli uomini si pongono queste domande. Francamente queste domande sono meno presenti di un tempo a livello di opinione pubblica, sono escluse dal dibattito sociale e ancor più dall’ambito statale e lasciate all’atteggiarsi e alla risposta privata-personale. Tutto ciò vale quantomeno in maniera molto forte per le persone e le religioni che vivono in paesi caratterizzati da un alto grado di civilizzazione tecnico-scientifico. Alla lunga, però, anche qui non è semplicemente possibile rimuovere la religione, come risulta più chiaramente non da ultimo dopo l’atto terroristico dell’11 settembre 2001 e anche in occasione di diverse catastrofi. Questa problematica si acuisce per i paesi caratterizzati da un alto grado di civilizzazione tecnico-scientifica. Ma anche qui vi sono domande di fondo essenziali. Infatti, contro tutta la critica alla religione e le voci che ne profetizzavano la fine, la religione, proprio nella società secolarizzata, è rimasta un fattore di influenza incommensurabile. Ciò vale anche per la domanda se il processo di secolarizzazione sia assolutamente irreversibile, come spesso si suppone senza riflettere.52 È stato spesso mostrato, dal punto di vista della sociologia della religione e della filosofia della religione, che proprio la sfida da parte della «gestione della contingenza» (H. Lübbe) rispetto alla critica illuministica non ha recato danni profondi alla religione e che, in stagioni di catastrofi di vario tipo, una ricerca religiosa e anche una risposta religiosa sono rimaste resistenti. Si è visto anche che, proprio nell’epoca delle differenziazioni, delle specializzazioni e di una crescente conoscenza specialistica, non è stato possibile sostituire facilmente la capacità di integrazione della religione nell’ambito del mondo della vita (J. Habermas). La trasformazione del contingente nel senso della riduzione di prestazioni da parte della religione è indispensabile proprio anche nell’orizzonte del mondo e mantiene evidentemente la sua funzione sociale (N. Luhmann).53 Le religioni devono fare in modo che questo motivo della loro esistenza divenga intelligibile anche agli uomini di oggi. Questo non deve attuarsi solo in maniera apologetica, ma deve essere attuato offensivamente e spiritualmente per il presente e per il futuro. 3. Tutte le religioni forniscono un orientamento nella non dominabilità e nella mutevolezza dei fatti della vita umana. Questo oggi deve certo partire dall’esperienza degli uomini, ma deve anche essere reso intelligibile con l’ausilio di argomentazioni il più possibile razionali. Ma non si tratta soltanto di formulare sistemi di orientamento cognitivi: nella religione si tratta sempre anche della verità pratica, precisamente della dar prova di sé della convinzione religiosa nell’agire della vita. Nel Vangelo di Giovanni si dice semplicemente: «Fare la verità» (Gv 3,21). Perciò la religione è sempre anche un’unità di teoria e prassi, di conoscere e agire, di spiritualità e amore del prossimo. Per la stragrande maggioranza degli uomini una religione è persuasiva solo se entrambe dimensioni giungono a una sovrapposizione fra loro e in questo modo ottengono un’evidenza rafforzata. La religione si rivolge anche al cuore e ai sensi. 4. Se la pretesa della religione e la realizzazione fattuale divergono in linea di principio, se la parola e l’azione non giungono a coincidenza, o addirittura si contraddicono, ciò è profondamente dannoso per ogni religione. Essa, dipendendo dalla forza di convinzione nella parola e nell’azione, nella teoria e nella pratica, accusa una pesante perdita di credibilità se la frattura fra pretesa e adempimento è troppo grande. Allora emerge necessariamente la critica alla religione, sia essa in generale o nel senso moderno. E si può giungere fino all’accusa di ipocrisia. A ciò possono collegarsi altri interessi che non sono religiosi – ad esempio il potere di natura politica o finanziaria –, così che nei confronti della religione può sorgere un sospetto pesante e, sovente, anche una grande diffidenza. È frequente che nascostamente s’accompagnino anche grossi interessi. Perciò ogni religione deve rimanere attenta a se stessa, affinché nella sua pretesa essi da ultimo non slittino in posizione predominante, oppure si mettano all’opera in maniera latente. Per questo alla religione appartiene la già richiamata necessaria distinzione fra essenza e alienazione di ogni religione. In ragione è proprio della religione a partire dalla sua stessa base ultima un costante rinnovamento (riforma), che in primo luogo deve avere un convincente motivo spirituale, ma anche effetti concreti per l’organizzazione e l’istituzione. Altrimenti una religione oggi non è in grado di contrastare a sufficienza il sospetto di essere ultimamente un’ideologia e di mascherare un ampio ventaglio di concreti interessi. A mio giudizio questo è vero sostanzialmente per tutte le religioni. Per questo in ogni religione vi sono sempre nuovi tentativi di rinnovamento e movimenti di riforma provenienti dall’interno. Certamente sono importanti anche il clima spirituale e l’impronta culturale di un paese e di una società, come è importante in quale forma una religione viene messa in discussione sotto questo aspetto – e se, e come, essa vi reagisce. La via più convincente è la testimonianza vissuta degli appartenenti a una religione, non ultimo anche quello degli autentici movimenti di riforma (si pensi alle diverse forme della mistica e del monachesimo). 5. Questo orizzonte è determinante anche per il modo in cui le religioni si rapportano reciprocamente. Esse devono pure osservarsi vicendevolmente in modo critico a fronte della negazione della religione e de modi molteplici in cui essa viene messa in discussione. Non si tratta solo di un’astratta comunanza di alcuni elementi religiosi, ma anche di come una religione viene compresa come una totalità dalle altre religioni e come essa entri socialmente in scena. 3. Criteri nel dialogo interreligioso Vi sono su questo punto, a mio avviso, alcuni criteri che proprio oggi mi sembrano essere importanti: – In ogni religione deve essere riconoscibile il fatto che essa si riferisce a Dio come fondamento e fine della nostra vita. A lui solo spettano onore e adorazione. Egli non deve essere scambiato con l’assolutizzazione di cose finite, che sarebbero solo idoli e dei. Con questo si afferma anche che il nome di Dio non deve essere strumentalizzato per altri interessi, palesi o camuffati. Tutti coloro che parlano per una religione e si impegnano per essa devono dare testimonianza di ciò. – Nessuna vera fede è semplicemente priva di riferimento al mondo. Essa vuole realizzare le sue convinzioni, pur con tutta la provvisorietà e imperfezione, in questo mondo e in questo tempo. Senza dubbio, deve anche diventare sempre più evidente che la religione non si esaurisce negli interessi racchiusi nel tempo e nello spazio, ma è alla ricerca di un senso della vita affidabile e incrollabile che vada al di là della morte. Una religione soddisfa le attese degli uomini solo se essa si occupa realmente delle domande esistenziali sopracitate e le dà una risposta persuasiva. Per questo deve esistere anche una rigorosa distinzione fra tempo ed eternità, fra storia e trascendenza, fra dominio dell’uomo e dominio di Dio, che aiuta a proteggere la religione da una strumentalizzazione. – Una religione che viola l’uguale dignità degli uomini e giudica ed assolutizza il rango e il valore delle persone secondo la razza e la classe, l’origine e lo stato sociale, la cultura e la ricchezza, secondo l’appartenenza a una determinata religione, mette fondamentalmente in pericolo se stessa e distrugge anche altre religioni dentro quel mondo marcatamente più unitario all’interno del nel mondo in cui sempre più viviamo. – Ogni religione deve promuovere la libertà degli uomini correttamente intesa. Certo ogni religione conosce un proprio ordine e vincolo a norme etiche e indicativi religiosi. Sono parte di ogni religione anche l’obbedienza e il dovere verso la comunità. Ma un motivo determinante per ogni religione sta nel superamento di un atteggiamento di tutela infantile e nella promozione della vera libertà verso una vita buona. Per questo la religione vuole sempre anche liberare gli uomini dalle false autorità, dalla magia e dalla superstizione; e condurre l’uomo alla sua responsabilità propria. Al tempo stesso si deve esercitare l’uso corretto della libertà, che nella sfrenatezza e nell’arbitrio può diventare dannosa per tutti. Ferma restando la necessità di un orientamento e di un’istruzione, di una guida e di un’autorità, l’esercizio di esse non può portare all’immaturità e alla perdita della responsabilità personale. La capacità autonoma di critica e di pensiero deve essere favorita e approfondita. All’interno di una religione, quindi, l’entusiasmo, che la condurrebbero al dissolvimento, e un cieco fanatismo possono diventare anche forme estremamente ambigue. – Ogni religione vuole aiutare il singolo uomo e le comunità religiose a trovare un senso imperdibile per la vita e anche una protezione ultima. Essa vuole anche permettere l’accettazione e il superamento dei rischi fondamentali della vita umana, cui l’uomo va incontro nella povertà e nell’indigenza, nella malattia e nella sofferenza così come nella morte. Di fronte a questi pericoli, spesso radicali, la religione deve custodire l’uomo da ogni disperazione. Per questo essa non induce gli uomini a fuggire dal mondo, ma li aiuta a superare i pericoli di questa vita e a non soccombere di fronte ad essi. Tanto la religione aiuta la singola persona e le comunità unite nella fede, tanto essa deve essere tesa a trasmettere anche ad altri uomini questo senso della vita, con le parole e con i fatti. La religione è così fondamentalmente a servizio dell’uomo e non può tirarsi indietro rispetto alla cura dei propri interessi e obiettivi – a questo appartiene la missione e il servizio. Ma il suo orientamento missionario non deve portarla a mettere in pericolo o violare la libertà di credere o di non credere. La missione appartiene a una religione se, e fintantoché, essa è convinta di trasmettere anche ad altri, a loro vantaggio, il suo orientamento, che è prezioso per i suoi membri e appartenenti. Ma nel momento in cui questa missione in qualche modo è connessa con la violenza, viene distrutta non solo la dignità e la libertà dell’uomo ma anche la religione.54 Il problema della violenza in ogni religione è di importanza assolutamente fondamentale. Chi vuole imporre le proprie convinzioni con il potere e la violenza, taglia fuori se stesso da ogni dialogo pienamente responsabile delle religioni fra di loro. Su questo punto ogni religione deve anche verificare in quale misura la sua immagine di Dio si accompagna all’ideale di un’imposizione violenta di convinzioni di fede o interessi. Questo può talvolta avvenire in modi assai sottili ed è anche strettamente correlato al modo in cui una religione vede il rapporto della sofferenza e del dolore rispetto a Dio. – Nel dialogo vi è un elemento decisivo, che forse appartiene piuttosto ai presupposti stessi del dialogo.55 Si tratta della questione, teorica e pratica, della libertà religiosa, e questo nel senso della libertà religiosa negativa e positiva. Secondo il mio modo di comprendere, la difesa di una libertà religiosa generale e la realizzazione pratica di questa libertà religiosa rappresentano un criterio essenziale e centrale per ogni dialogo interreligioso. Il concilio Vaticano II, dopo lunghi e accesissimi dibattiti, nella Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae ha assunto una posizione inequivocabile. Il documento tratta dei diritti inviolabili della persona umana, ma anche del giusto ordine giuridico della società. Il riconoscimento della libertà religiosa come diritto umano è un banco di prova della disponibilità di una religione ad accettare e sottomettersi alle regole della convivenza umana nelle condizioni attuali. D’altronde è importante ribadire che il dovere morale del singolo di cercare e accogliere la vera fede non viene affatto superato o relativizzato dalla riconoscimento della libertà religiosa (cf. DH 2 e 3), ma soltanto categoricamente separato e protetto dalle possibilità di intervento pervasivo da parte del potere statale. In questo senso la libertà religiosa ha un ruolo centrale e critico anche per gli altri diritti umani. Non da ultimo per questo motivo molti politici, che personalmente hanno un rapporto con la religione non marcatamente contrassegnato, si sono impegnati a favore del ruolo esemplare della libertà religiosa nel confronto con i sistemi totalitari.56 Questo include la rinuncia all’utilizzo storicamente tramandato di mezzi di potere statali per imporre le proprie pretese di verità e i propri interessi così come la disponibilità a lavorare per convincere altri nello spirito della tolleranza con i mezzi di una migliore argomentazione, di una prassi più persuasiva, di motivazioni più stimolanti, di una comunione sociale più attraente e dell’efficace difesa dei poveri e di quanti sono sospinti ai margini della società. Ciò presuppone una visione autocritica delle religioni rispetto a determinate pratiche di imposizione della verità (per le Chiese cristiane: eresia, inquisizione, missioni). 4. Ampiezza e forma di ciò che è comune A partire da questi presupposti, il dialogo interreligioso è oggi irrinunciabile. Questo dialogo non dovrebbe limitarsi semplicemente a una comunanza minimale sulla quale ci si può accordare. Infatti, ci troveremmo così a fare astrazione della ricchezza delle diverse forme in cui la fede si dispiega nelle singole religioni. Saremmo tutti effettivamente più poveri. V’è un’interpretazione erronea, come se il processo di chiarificazione intellettuale potesse consentire il rinvenimento di un resto astratto e annacquato di religiosità, sul quale basarsi insieme. Tutto ciò sarebbe, alla fin fine, la morte del dialogo interreligioso. Non dobbiamo temere di occuparci, in questo dialogo, anche e proprio di ciò che è radicalmente altro ed estraneo. Il dialogo e il confronto così ci aprono gli occhi, allargano l’orizzonte e ci fanno comprendere meglio l’altro che è uomo come noi.57 Mi sembra essere un’ottima massima quella che il concilio Vaticano II raccomanda per il dialogo interreligioso, innanzitutto certo per la Chiesa. Per questo è doveroso richiamare nuovamente nella sua interezza il passo conciliare già riportato, poiché esso, nonostante la sua brevità, contiene in forma condensata gli elementi essenziali: «La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto in queste religioni è vero e santo. Essa con sincero rispetto considera quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini. Essa però annuncia, ed è tenuta ad annunziare, incessantemente Cristo che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose. Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo di dialoghi e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire quei beni spirituali e morali, come pure quei valori socio-culturali che si trovano presso di loro» (Nostra aetate, n. 2; EV 1/857-858) A questo proposito viene di nuovo decisamente condannata con tutta chiarezza ogni violazione della dignità dell’uomo nonché quanto favorisce la discriminazione e violenza (cf. DH 5). Ma si deve anche ritenere dannoso un dialogo fra le religioni che in fondo metta fra parentesi la domanda religiosa e affronti solo temi di rilevanza sociale e politica. Sarebbe addirittura paradossale se il dialogo interreligioso si preoccupasse di tutto quello che c’è fra cielo e terra fuorché della ricerca della verità e del compimento di questa ricerca nella fede in Dio. Il dialogo interreligioso ha bisogno anche di questa sfida specifica, poiché non può lasciarsi strumentalizzare né socio-politicamente né culturalmente. A tale scopo è cosa buona che in tale dialogo si sia consapevoli dell’indispensabilità della domanda su Dio e la si professi. Per il cristianesimo cattolico è irrinunciabile porre la questione della salvezza di cui ne va nelle religioni, della verità e della sua pretesa di invio e, rispettivamente, sulla sua testimonianza missionaria.58 A questi presupposti di contenuto non si può in nessun caso sfuggire, neppure se si preferisse un modello più pragmatico, che si ponesse i problemi etici e politico-sociali nell’orizzonte mondiale. Ciò non significa certamente che i problemi circa il modo in cui viene plasmata la società, e soprattutto l’etica, siano indifferenti. Piuttosto per la maggior parte delle religioni essi sono un aspetto costitutivo della loro dottrina e della loro prassi di vita. Dato questo presupposto si deve certamente riconoscere che le religioni devono appunto occuparsi di promuovere un ethos unificante che eviti i gravi conflitti e, anzi, contribuisca a risolverli creando solidarietà fra gli uomini. A questo proposito è assolutamente fuori discussione che tutte le questioni circa i modi di contrastare, o perlomeno ridurre, la violenza, porre fine a condizioni di guerra, assicurare la pace, rispettare i diritti umani ecc. devono rientrare fra i temi di assoluta priorità del dialogo interreligioso. Hans Küng ha cercato, da molti anni, e con il sostegno di una fondazione, di ricondurre ad un denominatore comune un simile «ethos mondiale». In questa sede non è possibile riferirne in maniera più estesa. Sarebbe necessario un contributo appositamente dedicato a questo scopo.59 I cinque imperativi centrali di Küng sono noti. Li richiameremo ancora una volta brevemente alla mente: 1. Nessuna convivenza sulla terra senza un ethos globale! 2. Nessuna pace fra le nazioni senza la pace fra le religioni! 3. Nessuna pace fra le religioni senza dialogo fra le religioni! 4. Nessun dialogo fra le religioni e le culture senza ricerca degli elementi basilari! 5. Nessun ethos globale senza cambiamento della consapevolezza del religioso e non-religioso! Si rimanda anche alla Dichiarazione del Parlamento delle religioni mondiali del 4 settembre 1993,60 dove si trovano numerose brevi formule che sintetizzano il pensiero di Küng. Si può certo partire da questo «ethos mondiale» cui Hans Küng ha dato forma in molte pubblicazioni – e questo in mezzo a tutte le diversità culturali. Forse si deve anche, particolarmente all’inizio di un colloquio, cominciare con più vigore un dialogo bilaterale, prima di tentarne uno multilaterale. I due aspetti non si escludono. Ma si può imparare, prima e meglio, nel confronto fra due interlocutori, ognuno sempre con il suo proprio profilo. La polifonia ha maggiormente bisogno del direttore d’orchestra. Le esperienze ecumeniche consigliano un simile modo di procedere. Per il resto si rimanda alla intensa discussione sull’idea di «ethos mondiale» che, a prescindere da tutte le controversie di politica ecclesiastica, ha trovato sempre più attenzione e che non può essere trascurato nel dialogo interreligioso. A questo proposito tralascio la domanda circa il grado in cui anche celebrazioni di feste multireligiose rientrino nel dialogo interreligioso, perlomeno limitatamente a cristiani, ebrei e musulmani. L’Assemblea plenaria autunnale della Conferenza episcopale tedesca discuterà a fondo una relativa bozza, sulla quale poi si richiamerà l’attenzione in modo specifico. Queste linee guida sono importanti per le feste multiculturali, in particolare per ebrei, cristiani e musulmani nel nostro contesto culturale. Vi sono effettivamente veri dati comuni etici. Alla fine deve essere ricordato almeno un esempio concreto. La «regola aurea»61 è un esempio importante che si trova in molte culture, religioni e progetti di vita etici: non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te. Con questo è dato almeno un elemento col quale si può cominciare. Forse a questo proposito non si dovrebbe dimenticare di dire che dapprima si può anche essere d’accordo su ciò che si rigetta comunemente dal punto di vista etico. Ciò vive segretamente del termine di un controprogetto positivo, che – e questo è l’altro aspetto – parimenti formula la regola aurea: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa è infatti la Legge e i Profeti» (Mt 7,12). Il dialogo interreligioso deve anche portare a conoscere meglio la propria religione e a testimoniarla in maniera più decisa nella vita. A questo proposito, in merito alla definizione del rapporto fra religione e fede nel cristianesimo indicata da K. Barth, J. Ratzinger afferma che «egli aveva torto, quando voleva separarle completamente, vedendo solo la fede come positiva, e la religione invece come negativa. La fede senza la religione è irreale, la religione è parte di essa, e la fede cristiana deve vivere come religione, secondo la sua natura. Ma aveva ragione nel sostenere che anche nel cristiano la religione può essere inguaribilmente affetta e diventare superstizione, e che dunque la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere sempre purificata continuamente dalla verità che si mostra nella fede e che, d’altra parte, nel dialogo fa conoscere in modo nuovo il suo mistero e la sua infinitezza».62 Karl card. Lehmann 1 Cf. E. Troeltsch, Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte, Gütersloh 1969, Siebenstern-Taschenbuch 138, Lizenz-Ausgabe des Verlages Mohr, Tübingen 1929 (L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, Morano, Napoli, 1968). Un'edizione critica è stata pubblicata nel contesto della riedizione dell'opera omnia: E. Troeltsch, Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (1902-1912): mit Thesen von 1901 und den handschriftlichen Zusätzen, (a cura di T. Rendtorff in Zusammenrabeit mit S. Pautler), Berlino 1998 (=Kritische Gesamtausgabe Bd. 5). 2 Su questo processo cf. V. Krech, Wissenschaft und Religion. Studien zur Geschichte der Religionsforschung in Deutschland 1871 bis 1933, Tübingen 2002 (=Religion und Aufklärung 8); importanti testi si trovano in A. Michaels (a cura di) Klassiker der Religionswissenschaft, München 1997. 3 Cf la presentazione fatta da J. Splett, Die Rede vom Heiligen, Freiburg 1973 (zweite Auflage 1985); R. Schaeffler, Religion und kritisches Bewusstsein, Freiburg 1973; B. Casper u.a. (a cura di) Besinnung auf das Heilige, Freiburg 1966; C. Colpe (a cura di), Die Diskussion um das Heilige, Darmstadt 1977; C. Colpe, Über das Heilige, Frankfurt a.M. 1990; cf. anche le numerose ricerche di M. Eliade, Das Heilige und das Profane, Frankfurt 1984 (Il sacro e il profano, Einaudi, Torino 1969); K. Hübner u.a. (a cura di), Wissenschaftliche und nicht-wissenschaftliche Rationalität, Stuttgart 1983. In questo contesto rientrano anche i più recenti studi sul mito e il discorso mitico; cf. K. Hübner, Kritik der wissenschaftlichen Vernunft, Freiburg 1993
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