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La relazione tra cristiani ed altri come una problematica fondamentale “su” e “per” l’ecumenismo
P. G. Innocenzo Gargano
Italie (1997)
L'ecumenismo in senso stretto viene inteso come "azione per promuovere l'unità dei cristiani". Per sè dunque il dialogo ebraico-cristiano non dovrebbe far parte dell'ecumenismo.
Tuttavia sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista teologico è indubbio che la prima incomprensione fra credenti nell'unico Dio di Israele, e perciò di Gesù Cristo, che era, è e sarà ebreo sempre, nonché la radice di ogni altra incomprensione e divisione fra i credenti nell'unico Dio di Gesù Cristo che a partire dalla comunità di Antiochia furono chiamati "cristiani", debbano essere riconosciute in quest'incomprensione e divisione originaria che provocò il distacco della Chiesa dalla Sinagoga.
Il ritorno a quella separazione originaria potrebbe essere inteso allora come una sorta di indagine accurata e approfondita che ogni buon architetto compierebbe con scrupolo per verificare la causa delle lesioni più o meno gravi subite da un qualunque edificio lungo il corso degli anni.
L'immagine della Chiesa come edificio è antica quanto il N.T. Noi cristiani potremmo perciò lasciarci condurre per mano da questa immagine familiare e suggestiva per ispezionare con la massima scrupolosità possibile le fondamenta delle nostre chiese e scoprire dove quanto e perchè si è determinato uno scollamento che, per periodi lunghissimi della nostra storia, ha comportato difficoltà assai serie e perfino tentativi improvvidi di porre fondamenta diverse da quelle poste dallo stesso Gesù di Nazareth, nella pretesa di affermare o sostenere meglio la stabilità delle chiese.
Le conseguenze di questo le conosciamo tutti. Ma proviamo ad elencarne alcune, così potremo capire meglio, forse, in cosa dovrebbe consistere la nostra "teshuvà" dono di Dio e sorgente di vita nuova.
L'incapacità mostrata dai cristiani a restare coerenti a un principio fondamentale della fede da loro stessi coniato quando avevano dichiarato con Tertulliano: "cardo salutis caro", ha prodotto una incomprensione dietro l'altra fino allo spettacolo stranissimo e anticrtistiano offerto al mondo per secoli con la divisione e suddivisione a non finire delle chiese cristiane.
Il richiamo, vorrei dire il "ritorno", a Israele è infatti necessariamente esigito dal "Verbo" che, quando "divenne carne" e pose la sua tenda in mezzo agli uomini, "venne fra la sua gente" (cf. Gv 1,14.11).
Senza questo richiamo essenziale e fondamentale alla carne assunta dal Verbo all'interno di un popolo ben preciso e in una situazione geografica ben determinata, la nostra fede di cristiani si potrebbe ridurre assai presto a pura speculazione astratta disancorata dalla storia e dalla concretezza della carne che il ritorno ad un legame il più stretto possibile con l'Israele di sempre garantisce e assicura non solo per il passato, ma anche per il presente e il futuro dei cristiani.
Già l'Assemblea Ecumenica di Amsterdam aveva dichiarato circa cinquant'anni fa (1948) che "il nostro Dio ci ha vincolati agli ebrei con una speciale forma di solidarietà, unendo strettamente insieme in unico disegno i nostri destini" (cf. Dizionario del movimento ecumenico, EDB, Bologna 1994, p. 632).
Il Concilio Vaticano II aveva aggiunto: "La Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvaggio che sono i Gentili. La Chiesa crede infatti che Cristo, la nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i Gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso" spiegando che "gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento" (Nostra Aetate n. 4).
Alla luce di quanto abbiamo appena ricordato può essere dunque estremamente comprensibile ciò che il famoso teologo evangelico Karl Barth aveva dichiarato qualche anno prima a Roma mentre si teneva il Concilio Vaticano II: "Esiste in ultima analisi, un solo grande problema ecumenico: quello delle nostre relazioni con il popolo ebraico".
Se proviamo a ripercorrere storicamente le motivazioni di questo unico grande problema ecumenico per le chiese cristiane siamo costretti a fare i conti con situazioni dolorosissime quali le seguenti:
Siamo costretti ad ammettere una pressoché universale nota cristiana di "disprezzo" nei confronti del popolo ebraico falsamente motivata da un'accusa persistente di "deicidio", parola-chiave che ha giustificato nefandezze di ogni tipo nei confronti degli Ebrei e che è stata certamente una delle componenti che hanno favorito l'insensibilità delle chiese cristiane di tutte le confessioni con pochissime, anche se assai significative, eccezioni quando un potere ateo come quello nazista ha concepito e attuato l'immane tragedia della "Shoà".
Denunciare un peccato così grave e ripetuto per quasi due millenni, impegnandosi ad una sincera e totale "teshuvà" con corrispondente impegno pubblico di tutte le chiese cristiane a percorrere dq qui in poi nei rapporti con Israele il cammino del "rispetto" e dell'amore sincero verso coloro che il Papa Giovanni Paolo II ha definito "nostri fratelli maggiori", dovrebbe costituire allora una delle dichiarazioni più solenni di questa Assemblea di Graz '97.
Le chiese cristiane sembrano qualche volta aver trascurato un più corretto rapporto col corpo, in particolare col sesso, e in genere con tutto ciò che ruota intorno alla cosiddetta morale della famiglia.
Si osserva inoltre la caduta della prospettiva escatologica e di un'attesa credibile di cieli nuovi e terra nuova nel loro giusto rapporto con le aspettative dei singoli e delle comunità rispettate nei loro giusti diritti e nella loro dignità.
Crediamo insomma che le chiese dovrebbero mettere in atto un vero e proprio ressourcement nella riconsiderazione dei punti sopraccennati recuperando finalmente quel rapporto fecondo con l'insegnamento e la prassi dei fratelli ebrei che persino i Padri della Chiesa, pur così restii come sappiamo e polemici fuori misura, non mancarono di assicurare in rappresentanti della statura di un Origene o di un Gerolamo il dalmata.
Nei Sussidi approntati dalla Santa Sede per favorire l'esecuzione delle direttive offerte dal Vaticano secondo nella "Nostra Aetate" si legge: "Sottolineando la dimensione escatologica del cristianesimo, si giungerà ad una maggiore consapevolezza del fatto che quando il popolo di Dio dell'Antica e della Nuova Alleanza considera l'avvenire, esso tende - anche se partendo da due punti diversi - verso fini analoghi: la venuta o il ritorno del Messia. E ci si renderà conto più chiaramente che la persona del Messia, sulla quale il popolo di Dio è diviso, costituisce per questo popolo anche un punto di convergenza" (II, 10).
Questa dichiarazione dei Sussidi sembra suggerire de facto la possibilità di ripensare l'intera visione non solo escatologica, ma anche, e direi soprattutto, "ecclesiologica" che hanno le chiese cristiane. Infatti viste in una più precisa prospettiva escatologica, ottenuta grazie al confronto creativo con Israele e con la sua speranza messianica, tutte le Chiese scoprono di poter e forse di dover ridefinire se stesse proprio a partire dal persistere provvidenziale di Israele e della sua speranza messianica nella storia.
Una simile nuova visione ecclesiologica trarrebbe con sè:
a) una consapevolezza maggiore della natura pellegrinante di tutte le chiese cristiane;
b) un'ottica più unitaria nella visione della historia salutis nel succedersi ordinato di Genti-Israele-Cristo-Chiesa>Genti;
c) la funzione determinante dell'incontro della Chiesa con Israele perchè la salvezza raggiunga il pleroma desiderato;
d) un chiarimento, del quale si sente sempre più insistentemente l'urgenza, sulla natura della elezione intesa finalmente non più come privilegio, che suscita gelosia e dunque disprezzo fino alla persecuzione mortale, ma intesa come missione o testimonianza su cui sia Israele che la Chiesa possano serenamente ritrovarsi.
La permanenza dell'elezione di Israele è un altro dei punti sui quali pensiamo che le chiese cristiane siano chiamate a riflettere più ampiamente per correggere e riformulare una dottrina niente affatto rispettosa di Dio e della fedeltà di Lui alla parola data.
Un ripensamento sereno, all'interno di un dialogo fraterno fra ebrei e cristiani, permetterebbe forse di osservare l'elezione da una parte come garanzia sicura dell'autenticità della testimonianza e dall'altra come necessaria apertura di quest'ultima all'universalità.
La permanenza delle'elezione di Israele, anche dopo la nascita della Chiesa, testimonia in realtà, col semplice "esserci" di un popolo storicamente determinato, la volontà bene-dicente di Dio in favore di tutte le genti mentre permette nello stesso tempo alle chiese cristiane di essere a loro volta testimonianza, di fronte a Israele, della fecondità costante della sua elezione fino alla fine dei tempi, nella misura in cui accetti di considerare la Chiesa come una sorta di caparra e di anticipo di quella bene-dizione di tutti i popoli promessa in Abramo e in tutta la sua discendenza e dunque anche in Israele.
In questo modo le due realtà uscite dai lombi di Abramo, e rese possibili grazie al Mediatore Gesù di Nazareth, non sarebbero né conflittuali, né tanto meno escludenti l'una dell'altra, ma sarebbero l'una misteriosamente inserita nell'altra.
La Nuova Alleanza sarebbe a questo punto, se l'aggiunta di "Eterna" viene intesa rettamente e cioè in continuità indissolubile con l'Antica Alleanza eliminando fin dalla radice ogni tentazione e tentativo di sostituzione dell'una in favore dell'altra mentre verrebbe simultaneamente salvato uno dei principi fondamentali dell'insegnamento patristico cristiano dell'Unità dei due Testamenti che comporta fra l'altro l'indispensabile coaffermazione dell'unità indivisibile del Popolo di Dio, pur nella distinzione dell'identità di ciascuna parte di esso, senza alcuna confusione e soprattutta senza alcuno spazio per la sopraffazione dell'uno nei confronti dell'altro.
I cristiani, resi familiari a questo tipo di linguaggio grazie alla dottrina cristologica calcedonense non dovrebbero fare troppo fatica a comprendere anche i rapporti Israele-Chiesa, o se si preferisce, Israele-Genti all'interno di questa misteriosa affermazione di una unità che non toglie, ma anzi ne esalta la distinzione sensa favorire in alcun modo né contrapposizioni, nè concorrenze improprie né, tanto meno, divisioni o separazioni.
A questo punto assume una particolare importanza, almeno agli occhi dei cristiani, la provvidenzialità non solo di quella parte di Israele che riconobbe e riconosce in Gesù di Nazareth il Messia promesso, ma anche la misteriosa provvidenzialità di quella parte di Israele che col suo "rifiuto" "ha segnato la riconciliazione (katallaghé) del mondo" (Rom 11,15).
Riflettere con occhi diversi sul no provvidenziale di questo Israele che appartiene a Dio, è forse in realtà una delle sfide più urgenti da affrontare all'interno delle chiese cristiane per un corretto rapporto con l'Israele di oggi.
Infatti finchè questo Israele nostro contemporaneo non sarà stato liberato agli occhi dei cristiani dalla pesante valutazione negativa del "rifiuto" per lasciare uno spazio più rasserenato alla considerazione della sua misteriosa provvidenzialità perchè si adempiano le promesse di Dio in favore di tutti i popoli della terra, non sarà affatto facile passare davvero dal presupposto del disprezzo a quello del rispetto e dell'apprezzamento del popolo ebraico da parte dei cristiani.
Graz '97 potrebbe essere, proprio su questo punto, è un auspicio che facciamo, pietra miliare determinante del dialogo fra Ebrei e Cristiani.