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L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa
Pontificia Commissione Biblica
Saint-Siège (1993/04/15)
INTRODUZIONE
L’interpretazione dei testi biblici continua a suscitare ai nostri giorni un vivo interesse provocando vivaci discussioni, che, in questi ultimi anni, hanno anche assunto dimensioni nuove. Data l’importanza fondamentale della Bibbia per la fede cristiana, per la vita della Chiesa e per i rapporti dei cristiani con i fedeli delle altre religioni, la Pontificia Commissione Biblica è stata sollecitata a esprimersi su questo argomento.
A. Problematica attuale
Il problema dell’interpretazione della Bibbia non è un’invenzione moderna, come talvolta si vorrebbe far credere. La Bibbia stessa attesta che la sua interpretazione presenta varie difficoltà. Accanto a testi limpidi contiene passi oscuri. Leggendo certi passi di Geremia, Daniele s’interrogava a lungo sul loro significato (Dn 9, 2). Secondo gli Atti degli Apostoli, un etiope del I secolo si trovava nella stessa situazione a proposito di un passo del libro di Isaia (Is 53 7-8), riconoscendo di aver bisogno di un interprete (At 8, 30-35). La seconda lettera di Pietro dichiara che «nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione» (2Pt 1, 20) e osserva, d’altra parte, che le lettere dell’apostolo Paolo contengono «alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2Pt 3, 16).
Il problema è perciò antico, ma col passar del tempo si è accentuato: venti o trenta secoli separano ormai il lettore dai fatti e detti riferiti nella Bibbia, e questo non manca di sollevare varie difficoltà. D’altra parte, a causa del progresso delle scienze umane, i problemi concernenti l’interpretazione sono divenuti nei tempi moderni più complessi. Sono stati messi a punto metodi scientifici per lo studio di testi dell’antichità. In che misura questi metodi si possono considerare appropriati all’interpretazione della Sacra Scrittura? A questo interrogativo, la prudenza pastorale della Chiesa ha per molto tempo risposto in modo molto reticente, perché spesso i metodi, nonostante i loro elementi positivi, si trovavano legati a opinioni opposte alla fede cristiana. Ma si è prodotta un’evoluzione positiva, segnata da tutta una serie di documenti pontifici, dall’enciclica Providentissimus di Leone XIII (18 novembre 1893) fino all’enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII (30 settembre 1943), ed è stata confermata dalla dichiarazione Sancta Mater Ecclesia (21 aprile 1964) della Pontificia Commissione Biblica e soprattutto dalla Costituzione dogmatica Dei Verbum del concilio Vaticano II (18 novembre 1965). La fecondità di questo atteggiamento costruttivo si è manifestata in una maniera innegabile. Gli studi biblici hanno preso uno slancio notevole nella Chiesa cattolica e il loro valore scientifico è stato sempre più riconosciuto tra gli studiosi e tra i fedeli. Il dialogo ecumenico ne è stato considerevolmente facilitato. L’influenza della Bibbia sulla teologia si è approfondita e ha contribuito al rinnovamento teologico. È aumentato l’interesse per la Bibbia tra i cattolici, favorendo il progresso della vita cristiana. Tutti quelli che hanno acquisito una seria formazione in questo campo ritengono ormai impossibile il ritorno a uno stadio di interpretazione precritica, che considerano, non senza ragione, nettamente insufficiente. Ma, nel momento stesso in cui il metodo scientifico più diffuso, il metodo “storico-critico”, viene applicato in modo corrente in esegesi, ivi compresa l’esegesi cattolica, questo metodo viene rimesso in discussione: da una parte, nello stesso mondo scientifico, per l’apparizione di altri metodi e approcci, e, dall’altra, per le critiche di molti cristiani che lo giudicano insufficiente dal punto di vista della fede. Il metodo storico-critico, particolarmente attento, come indica il suo nome, all’evoluzione storica dei testi o delle tradizioni nel corso del tempo-diacronia, si trova attualmente in concorrenza, in certi ambienti, con i metodi che insistono su una comprensione sincronica dei testi, sia che si tratti della loro lingua, della loro composizione, della loro trama narrativa o del loro sforzo di persuasione. D’altro canto, alla preoccupazione che hanno i metodi diacronici di ricostruire il passato si sostituisce in molti una tendenza a interrogare i testi collocandoli nelle prospettive del tempo presente, di ordine filosofico, psicanalitico, sociologico, politico, ecc. Questo pluralismo di metodi e di approcci è apprezzato dagli uni come un indizio di ricchezza, ma ad altri dà l’impressione di una grande confusione. Reale o apparente che sia, questa confusione offre nuovi argomenti agli avversari dell’esegesi scientifica. Il conflitto delle interpretazioni manifesta, secondo loro, che non c’è alcun vantaggio ne sottoporre i testi biblici alle esigenze dei metodi scientifici, ma che al contrario, vi si perde molto. Essi sottolineano che l’esegesi scientifica ha il risultato di provocare perplessità e dubbi su innumerevoli punti, fino allora pacificamente ammessi e che spinge alcuni esegeti a prendere posizioni contrarie alla fede della Chiesa su questioni di grande importanza, come la concezione verginale di Gesù e i suoi miracoli, e perfino la sua risurrezione e la sua divinità Anche quando non porta a tali negazioni, l’esegesi scientifica si caratterizza, secondo loro, per la sua sterilità in ciò che concerne il progresso della vita cristiana. Invece di permettere un accesso più facile e più sicuro alle fonti vive della Parola di Dio, fa della Bibbia un libro chiuso, la cui interpretazione sempre problematica richiede una competenza tecnica che ne fa un campo riservato a pochi specialisti. A costoro alcuni applicano la frase del vangelo: «Avete tolto la chiave della conoscenza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito» (Lc 11, 52, cf. Mt 23, 13). Di conseguenza, alla paziente fatica dell’esegesi scientifica si ritiene necessario sostituire approcci più semplici, come l’una o l’al tra delle pratiche di lettura sincronica, ritenuta sufficiente, o addirittura, rinunciando a ogni tipo di studio, si raccomanda una lettura della Bibbia cosiddetta “spirituale”, intendendo con essa una lettura guidata unicamente dall’ispirazione personale soggettiva e destinata a nutrire tale ispirazione. Alcuni cercano nella Bibbia soprattutto il Cristo della loro personale concezione e la soddisfazione della loro religiosità spontanea. Altri pretendono di trovarvi risposte dirette a ogni tipo di domanda, personale o collettiva. Numerose sono le sette che propongono come vera soltanto un’interpretazione, di cui affermano di aver avuto la rivelazione.
B. Scopo di questo documento
È perciò opportuno considerare seriamente i diversi aspetti della situazione attuale in materia di interpretazione biblica, essere attenti alle critiche, alle proteste e alle aspirazioni che al riguardo vengono espresse, valutare le possibilità aperte dai nuovi metodi e approcci e cercare, infine, di precisare l’orientamento che meglio corrisponde alla missione dell’esegesi nella Chiesa cattolica. Tale è lo scopo di questo documento. La Pontificia Commissione Biblica vuole indicare le strade da percorrere per arrivare a un’interpretazione della Bibbia la più fedele possibile al suo carattere insieme umano e divino. Non si ha qui la pretesa di prendere posizione su tutte le questioni che riguardano la Bibbia, come ad esempio, la teologia dell’ispirazione. Si propone di esaminare quei metodi che possono contribuire efficacemente a valorizzare tutte le ricchezze contenute nei testi biblici, affinché la Parola di Dio possa diventare sempre di più il nutrimento spirituale dei membri del suo popolo, la fonte, per essi, di una vita di fede, di speranza e d’amore, come pure una luce per tutta l’umanità (cf. Dei Verbum, 21).
Per raggiungere questo scopo, il presente documento:
1. farà una breve descrizione dei diversi metodi e approcci,[1]indicando le loro possibilità e i loro limiti;
2. esaminerà alcune questioni di ermeneutica;
3. proporrà una riflessione sulle dimensioni caratteristiche dell’interpretazione cattolica della Bibbia e sui suoi rapporti con le altre discipline teologiche;
4. considererà infine il posto che occupa l’interpretazione della Bibbia nella vita della Chiesa.
I
METODI E APPROCCI PER L’INTERPRETAZIONE
A. Metodo storico-critico
Il metodo storico-critico è il metodo indispensabile per lo studio scientifico del significato dei testi antichi. Poiché la Sacra Scrittura, in quanto «Parola di Dio in linguaggio umano», è stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti, la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede, l’utilizzazione di questo metodo.
1. Storia del metodo
Per valutare in modo corretto questo metodo nel suo stato attuale, conviene gettare uno sguardo sulla sua storia. Alcuni elementi di questo metodo di interpretazione sono molto antichi. Furono usati nell’antichità da commentatori greci della letteratura classica e, più tardi, nel corso del periodo patristico, da autori come Origene, Girolamo e Agostino. Il metodo era allora meno elaborato. Le sue forme moderne sono il risultato di perfezionamenti, apportati soprattutto a partire dagli umanisti del Rinascimento e dal loro recursus ad fontes. Mentre la critica testuale del Nuovo Testamento si è sviluppata come disciplina scientifica solo a partire dal 1800, quando cioè ci si staccò dal Textus receptus, gli inizi della critica letteraria invece risalgono al XVII secolo, ad opera di Richard Simon, che attirò l’attenzione sui doppioni, sulle divergenze nel contenuto e le differenze di stile osservabili nel Pentateuco, constatazioni difficilmente conciliabili con l’attribuzione di tutto il testo ad un unico autore, Mosè. Nel secolo XVIII, Jean Astruc si limitava ancora a dare per spiegazione che Mosè si era servito di parecchie fonti (soprattutto di due fonti principali) per comporre il libro della Genesi, ma, in seguito, la critica contestò con sempre maggior risolutezza l’attribuzione a Mosè stesso della composizione de Pentateuco. La critica letteraria si identificò a lungo con lo sforzo per discernere le varie fonti dei testi. Si sviluppò così, nel XIX se colo, l’ipotesi “documentaria”, che cercava di spiegare la redazione del Pentateuco. In esso sarebbero stati fusi quattro documenti in parte paralleli tra loro: lo yahvista (J), l’elohista (E), il deuteronomista (D) e il sacerdotale (P: dal tedesco “Priester”); di quest’ultimo si sarebbe servito il redattore finale per strutturare l’insieme. In modo analogo, per spiegare al tempo stesso le convergenze e le divergenze costatate tra i tre vangeli sinottici, si è fatto ricorso all’ipotesi delle “due fonti”, secondo la quale i vangeli di Matteo e di Luca sarebbero stati composti a partire da due fonti principali: il vangelo di Marco, da una parte, e, dall’altra, una raccolta di parole di Gesù (chiamata Q, dal tedesco Quelle, “fonte”) Quanto alla sostanza, queste due ipotesi sono ancora correnti nel l’esegesi scientifica, anche se oggetto di contestazioni.
Nel desiderio di stabilire la cronologia dei testi biblici, questo genere di critica letteraria si limitava a un lavoro di ritaglio e d analisi per distinguere le diverse fonti e non accordava una sufficiente attenzione alla struttura finale del testo biblico e al messaggio che esso esprime nel suo stato attuale (si mostrava poca stima per l’opera dei redattori). Per questo fatto l’esegesi storico-critica poteva apparire sovversiva e distruttrice, tanto più che alcuni esegeti, sotto l’influenza della storia comparata delle religioni, così come si praticava allora, o partendo da concezioni filosofiche, pronunciavano giudizi negativi nei confronti della Bibbia.
Hermann Gunkel fece uscire il metodo dal ghetto della critica letteraria intesa in questo modo. Sebbene egli continuasse a considerare i libri del Pentateuco delle compilazioni, fermò la sua attenzione sulla tessitura particolare dei diversi brani, cercando di definire il genere di ciascuno (per es. “leggenda” o “inno”) e il loro ambiente di origine o Sitz im Leben (per es. situazione giuridica, liturgica, ecc.). A questa ricerca dei generi letterari si collega lo «studio critico delle forme» (Formgeschichte) inaugurata nell’esegesi dei sinottici da Martin Dibelius e Rudolf Bultmann. Quest’ultimo mescolò agli studi di Formgeschichte un’ermeneutica biblica ispirata alla filosofia esistenzialista di Martin Heidegger. La conseguenza fu che la Formgeschichte ha suscitato spesso serie riserve. Ma questo metodo, in se stesso, ha avuto il risultato di manifestare più chiaramente che la tradizione neotestamentaria ha avuto la sua origine e ha preso la sua forma nella comunità cristiana, o Chiesa primitiva, passando dalla predicazione di Gesù stesso alla predicazione che proclama che Gesù è il Cristo Alla Formgeschichte si è aggiunta la Redaktionsgeschichte, «studio critico della redazione», che cerca di mettere in luce contributo personale di ogni evangelista e gli orientamenti teologici che hanno guidato il loro lavoro di redazione. Con l’utilizzazione di quest’ultimo metodo la serie delle diverse tappe del metodo storico-critico è diventata più completa: dalla critica testuale si passa a una critica letteraria che scompone (ricerca delle fonti), poi a uno studio critico delle forme e infine a un’analisi della redazione, che è attenta al testo nella sua composizione. Così è diventata possibile una comprensione più chiara dell’intenzione degli autori e redattori della Bibbia, come pure del messaggio da essi rivolto ai primi destinatari. Il metodo storico-critico ha acquistato perciò un importanza di primo piano.
2. Principi
I principi fondamentali del metodo storico-critico nella sua forma classica sono i seguenti:
Si tratta di un metodo storico, non soltanto perché si applica a testi antichi, nel nostro caso a quelli della Bibbia, e ne studia la portata storica, ma anche e soprattutto perché cerca di chiarire i processi storici di produzione dei testi biblici, processi diacronici talvolta complicati e di lunga durata. Nelle diverse tappe della loro produzione, i testi della Bibbia si rivolgevano a diverse categorie di ascoltatori o di lettori, che si trovavano in situazioni spazio-temporali differenti.
Si tratta di un metodo critico, perché opera con l’aiuto di criteri scientifici il più possibile obiettivi in ciascuna delle sue tappe (dalla critica testuale allo studio critico della redazione), in modo da rendere accessibile al lettore moderno il significato dei testi biblici, spesso difficile da cogliere.
Come metodo analitico, esso studia il testo biblico allo stesso modo di qualsiasi altro testo dell’antichità e lo commenta in quanto linguaggio umano. Tuttavia permette all’esegeta, soprattutto nello studio critico della redazione dei testi, di meglio comprendere il contenuto della rivelazione divina.
3. Descrizione
Allo stadio attuale del suo sviluppo, il metodo storico-critico percorre le tappe seguenti:
La critica testuale, praticata da più lungo tempo, apre la serie delle operazioni scientifiche. Basandosi sulla testimonianza dei manoscritti più antichi e migliori, così come su quella dei papiri, delle traduzioni antiche e della patristica, essa cerca, secondo determinate regole, di stabilire un testo biblico che sia il più vicino possibile al testo originale.
Il testo viene poi sottomesso a un’analisi linguistica (morfologia e sintassi) e semantica, che utilizza le conoscenze ottenute grazie agli studi di filologia storica. La critica letteraria si sforza allora di individuare l’inizio e la fine delle unità testuali, grandi e piccole, e di verificare la coerenza interna dei testi. L’esistenza di doppioni, di divergenze inconciliabili e di altri indizi manifesta il carattere composito di certi testi, che vengono allora divisi in piccole unità, di cui si studia la possibile appartenenza a fonti diverse. La critica dei generi cerca di determinare i generi letterari, il loro ambiente di origine, i loro tratti specifici e la loro evoluzione. La critica delle tradizioni situa i testi nelle correnti di tradizione, di cui essa cerca di precisare l’evoluzione nel corso della storia. Infine, la critica della redazione studia le modifiche subite dai testi prima di essere fissati nel loro stato finale e analizza questo stato finale, sforzandosi di discernere gli orientamenti che gli sono propri. Mentre le tappe precedenti hanno cercato di spiegare il testo con la sua genesi, in una prospettiva diacronica, quest’ultima tappa termina con uno studio sincronico: vi si spiega il testo in se stesso, grazie alle mutue relazioni dei suoi diversi elementi e considerandolo sotto il suo aspetto di messaggio comunicato dall’autore ai suoi contemporanei. Può allora essere presa in considerazione la funzione pragmatica del testo.
Quando i testi studiati appartengono a un genere letterario storico o sono in rapporto con degli eventi della storia, la critica storica completa la critica letteraria, per precisare la loro portata storica, nel senso moderno dell’espressione.
In questo modo vengono messe in luce le diverse tappe dello svolgimento concreto della rivelazione biblica.
4. Valutazione
Quale valore accordare al metodo storico-critico, in particolare allo stadio attuale della sua evoluzione?
È un metodo che, utilizzato in modo obiettivo, non implica per sé alcun a priori. Se il suo uso è accompagnato da tali a priori, ciò non è dovuto al metodo in se stesso, ma a opzioni ermeneutiche che orientano l’interpretazione e possono essere tendenziose.
Orientato, ai suoi inizi, nel senso della critica delle fonti e della storia delle religioni, il metodo ha avuto il risultato di aprire un nuovo accesso alla Bibbia, mostrando che questa è una collezione di scritti che, il più delle volte, soprattutto per l’Antico Testamento, non sono creazione di un unico autore, ma hanno avuto un lunga preistoria, inestricabilmente legata alla storia di Israele o quella della Chiesa primitiva. Prima, l’interpretazione giudaica cristiana della Bibbia non aveva una coscienza chiara delle condizioni storiche concrete e diverse nelle quali la Parola di Dio si è radicata. Ne aveva una conoscenza globale e lontana. Il confronto dell’esegesi tradizionale con un approccio scientifico che, ai suoi inizi, faceva volutamente astrazione dalla fede e talvolta addirittura vi si opponeva, fu certamente doloroso; in seguito, però, si rivela salutare: una volta liberato dai pregiudizi estrinseci, portò a un comprensione più esatta della verità della Sacra Scrittura (cf. Dei Verbum, 12). Secondo la Divino afflante Spiritu, la ricerca del senso letterale della Scrittura è un compito essenziale dell’esegesi e, per adempiere tale compito, è necessario determinare il genere letterario dei testi (cf. Enchiridion Biblicum [=EB] 560); orbene questo si effettua con metodo storico-critico.
Certo, l’uso classico del metodo storico-critico rivela certi limiti poiché si restringe alla ricerca del senso del testo biblico nelle circostanze storiche della sua produzione e non si interessa alle alt potenzialità di significato che si sono manifestate nel corso delle epoche posteriori della rivelazione biblica e della storia della Chiesa. Tuttavia questo metodo ha contribuito alla produzione di opere di esegesi e di teologia biblica di grande valore.
Da molto tempo si è rinunciato a un amalgama di tale metodi con un sistema filosofico. Recentemente una tendenza esegetica ha indirizzato il metodo nel senso di un’insistenza predominante sulla forma del testo con minore attenzione al suo contenuto, ma questa tendenza è stata corretta grazie all’apporto di una semantica differenziata (semantica delle parole, delle frasi, del testo) e allo studio dell’aspetto pragmatico dei testi.
Circa l’inclusione, nel metodo, di un’analisi sincronica dei testi bisogna riconoscere che si tratta di un’operazione legittima perché è il testo nel suo stato finale, che è espressione della Parola di Dio, e non una redazione anteriore. Ma lo studio diacronico rimane in dispensabile per far comprendere il dinamismo storico che anima la Sacra Scrittura e per manifestare la sua ricca complessità: per esempio, il codice dell’Alleanza (Es 21-23) riflette uno stato politico, sociale e religioso della società israelitica diverso da quello che riflettono le altre legislazioni conservate nel Deuteronomio (D 12-26) e nel Levitico (codice di santità, Lv 17-26). Bisogna evitare che alla tendenza storicizzante che si rimproverava all’antica esegesi storico-critica succeda l’eccesso inverso, la dimenticanza della storia, da parte di un’esegesi esclusivamente sincronica.
In definitiva, lo scopo del metodo storico-critico è quello di mettere in luce, in modo soprattutto diacronico, il senso espresso dagli autori e redattori. Con l’aiuto di altri metodi e approcci, essa apre al lettore moderno l’accesso al significato del testo della Bibbia, così come l’abbiamo.
B. Nuovi metodi di analisi letteraria
Nessun metodo scientifico per lo studio della Bibbia è in grado di far emergere tutta la ricchezza dei testi biblici. Qualunque sia la sua validità, il metodo storico-critico non può avere la pretesa di essere sufficiente per tutto. Esso lascia necessariamente nel l’ombra numerosi aspetti degli scritti che studia. Non ci si meraviglierà allora di costatare come attualmente vengano proposti altri metodi e approcci, per approfondire l’uno o l’altro aspetto degni di attenzione.
In questo paragrafo B presenteremo alcuni metodi di analisi letteraria che si sono sviluppati recentemente. Nei paragrafi seguenti (C, D, E) esamineremo brevemente diversi approcci, di cui alcun sono in rapporto con lo studio della tradizione, altri con le “scienze umane”, altri ancora con situazioni contemporanee particolari. Considereremo infine (F) la lettura fondamentalista della Bibbia, che rifiuta ogni sforzo metodico di interpretazione.
Mettendo a profitto i progressi fatti nel nostro tempo dagli studi linguistici e letterari, l’esegesi biblica utilizza sempre di più nuovi metodi di analisi letteraria, in particolare l’analisi retorica, l’analisi narrativa e l’analisi semiotica.
1. Analisi retorica
A dire il vero, l’analisi retorica non è in se stessa un metodo nuovo. Nuova è, da una parte, la sua utilizzazione sistematica per l’interpretazione della Bibbia e, dall’altra, la nascita e lo sviluppo di una “nuova retorica”.
La retorica è l’arte di comporre discorsi persuasivi. Dato che tutti i testi biblici sono in qualche misura dei testi persuasivi, una certa conoscenza della retorica fa parte del bagaglio normale degli esegeti. L’analisi retorica deve essere condotta in modo critico, perché l’esegesi scientifica è un lavoro che si sottomette necessariamente alle esigenze dello spirito critico.
Molti studi recenti hanno prestato una grande attenzione alla presenza della retorica nella Scrittura. Si possono distinguere tre approcci diversi. Il primo si basa sulla retorica classica greco-latina; il secondo è attento ai procedimenti di composizione semitici; il terzo si ispira alle ricerche moderne, chiamate “nuova retorica”.
Ogni situazione di discorso comporta la presenza di tre elementi: l’oratore (o autore), il discorso (o testo) e l’uditorio (o destinatari). La retorica classica distingue, di conseguenza, tre fattori di persuasione che contribuiscono alla qualità di un discorso: l’autorità dell’oratore, l’argomentazione del discorso e le emozioni che esso suscita nell’uditorio. La diversità delle situazioni e dei destinatari influisce enormemente sul modo di parlare. La retorica classica, a partire da Aristotele, ammette la distinzione di tre generi di eloquenza: il genere giudiziario (davanti ai tribunali), il genere deliberativo (nelle assemblee politiche) e il genere dimostrativo (nelle celebrazioni).
Constatando l’enorme influenza della retorica nella cultura ellenistica, un numero crescente di esegeti utilizza i trattati di retorica classica per meglio analizzare alcuni aspetti degli scritti biblici, soprattutto quelli del Nuovo Testamento.
Altri esegeti concentrano la loro attenzione sui tratti specifici della tradizione letteraria biblica. Radicata nella cultura semitica, questa manifesta un gusto spiccato per le composizioni simmetriche, grazie alle quali vengono stabiliti dei rapporti tra i diversi elementi del testo. Lo studio delle molteplici forme di parallelismo e di altri procedimenti di composizione semitici deve permettere di meglio discernere la struttura letteraria dei testi e di pervenire così a una migliore comprensione del loro messaggio.
Mettendosi da un punto di vista più generale, la “nuova retorica” vuole essere qualcosa di diverso da un inventario delle figure di stile, degli artifici oratori e dei tipi di discorsi. Essa ricerca perché un certo uso del linguaggio è efficace e arriva a comunicare una convinzione; cerca di essere “realista”, rifiutando di limitarsi alla semplice analisi formale; dà alla situazione del dibattito l’attenzione che le è dovuta; studia lo stile e la composizione in quanto strumenti per esercitare un’azione sull’uditorio. A questo scopo mette a profitto i contributi recenti di discipline come la linguistica, la semiotica, l’antropologia e la sociologia.
Applicata alla Bibbia, la “nuova retorica” cerca di penetrare nel cuore del linguaggio della rivelazione in quanto linguaggio religioso persuasivo e valutare il suo impatto nel contesto sociale della comunicazione.
Le analisi retoriche, per l’arricchimento che apportano allo studio critico dei testi, meritano molta stima, soprattutto nei loro approfondimenti recenti. Esse rimediano a una negligenza durata a lungo e fanno scoprire o mettono maggiormente in luce prospettive originali.
La “nuova retorica” ha ragione di attirare l’attenzione sulla capacità persuasiva e convincente del linguaggio. La Bibbia non è semplicemente enunciazione di verità. È un messaggio dotato una funzione di comunicazione in un certo contesto, un messaggio che comporta un dinamismo di argomentazione e una strategia retorica.
Le analisi retoriche hanno tuttavia i loro limiti. Quando si limitano a essere descrittive, i loro risultati hanno spesso un interesse solo stilistico. Fondamentalmen¬te sincroniche, esse non possono pretendere di costituire un metodo indipendente che sarebbe sufficiente a se stesso. La loro applicazione ai testi biblici solleva più di un interrogativo: gli autori di questi testi appartenevano agli ambienti più colti? Fino a che punto hanno seguito le regole della retorica per comporre i loro scritti? Quale retorica è più pertinente per l’analisi di un determinato scritto: quella greco-latina o quel semitica? Non si rischia forse di attribuire a certi testi biblici una struttura retorica troppo elaborata? Questi interrogativi, ed altri ancora, non devono tuttavia dissuadere dall’usare questo gene di analisi; invitano soltanto a farvi ricorso con discernimento.
2. Analisi narrativa
L’esegesi narrativa propone un metodo di comprensione e di comunicazione del messaggio biblico che corrisponde alla forma del racconto e della testimonianza, modalità fondamentale della comunicazione tra persone umane, caratteristica anche della Sacra Scrittura. L’Antico Testamento, infatti, presenta una storia della salvezza il cui racconto efficace diventa sostanza della professione di fede, della liturgia e della catechesi (cf. Sal 78, 3-4; Es 12, 24-27; Dt 6, 20-25; 26, 5-10). Da parte sua, la proclamazione del kerigma cristiano comprende la sequenza narrativa della vita, della morte della risurrezione di Gesù Cristo, eventi di cui i vangeli ci offrono il racconto dettagliato. La catechesi si presenta, anch’essa, sotto forma narrativa (cf. 1Cor 11, 23-25).
Riguardo all’approccio narrativo, è opportuno distinguere metodi di analisi e riflessione teologica.
Attualmente vengono proposti numerosi metodi di analisi. Alcuni partono dallo studio dei modelli narrativi antichi. Altri si basano sull’una o l’altra “narratologia” attuale, che può avere dei punti in comune con la semiotica. Particolarmente attenta agli elementi del testo che riguardano l’intreccio, i personaggi e il punto di vista del narratore, l’analisi narrativa studia il modo in cui la storia viene raccontata così da coinvolgere il lettore nel “mondo del racconto” e nel suo sistema di valori.
Parecchi metodi introducono una distinzione tra “autore reale” e “autore implicito”, “lettore reale” e “lettore implicito”. L’“autore reale” è la persona che ha composto il racconto. Con “autore implicito” si indica l’immagine di autore che il testo genera progressivamente nel corso della lettura (con la sua cultura, il suo temperamento, le sue tendenze, la sua fede, ecc.). Si chiama “lettore reale” ogni persona che ha accesso al testo, dai primi destinatari che l’hanno letto o sentito leggere fino ai lettori o ascoltatori di oggi. Per “lettore implicito” si intende colui che il testo presuppone e produce, colui che è capace di effettuare le operazioni mentali e affettive richieste per entrare nel mondo del racconto e rispondervi nel modo voluto dall’autore reale attraverso l’autore implicito.
Un testo continua a esercitare la sua influenza nella misura in cui i lettori reali (per esempio noi stessi, alla fine del XX secolo) possono identificarsi con il lettore implicito. Uno dei compiti principali dell’esegesi è quello di facilitare questa identificazione.
All’analisi narrativa si collega un modo nuovo di valutare la portata dei testi. Mentre il metodo storico-critico considera piuttosto il testo come una “finestra”, che permette di dedicarsi a varie osservazioni su una determinata epoca (non soltanto sui fatti raccontati, ma anche sulla situazione della comunità per la quale sono stati raccontati), si sottolinea che il testo funziona anche come “specchio”, nel senso che presenta una certa immagine di mondo, il “mondo del racconto”, che esercita la sua influenza sui modi di vedere del lettore e lo porta ad adottare certi valori piuttosto che altri.
A questo genere di studio, tipicamente letterario, si è associata la riflessione teologica, considerando le conseguenze che comporta, per l’adesione di fede, la natura di racconto, e quindi di testimonianza, della Sacra Scrittura e deducendo da esso un’ermeneutica di tipo pratico e pastorale. Si reagisce in questo modo contro la riduzione del testo ispirato a una serie di tesi teologiche formulate spesso secondo delle categorie e un linguaggio non scritturistici. Si richiede all’esegesi narrativa di riabilitare, in contesti storici nuovi, i modi di comunicazione e di significazione propri del racconto biblico, allo scopo di aprire meglio la strada alla sua efficacia per la salvezza. Si insiste sulla necessità di «raccontare la salvezza» (aspetto “informativo” del racconto) e di «raccontare in vista della salvezza» (aspetto “performativo”). Il racconto biblico, infatti, contiene, esplicitamente o implicitamen¬te, secondo i casi, un appello esistenziale rivolto al lettore.
Per l’esegesi della Bibbia, l’analisi narrativa presenta un’evidente utilità, perché corrisponde alla natura narrativa di un gran numero di testi biblici. Può contribuire a facilitare il passaggio, spesso difficile, dal senso del testo nel suo contesto storico, così come il metodo storico-critico cerca di definirlo, al senso che ha per il lettore di oggi. D’altra parte, però, la distinzione tra “autore reale” e “autore implicito” aumenta la complessità dei problemi di interpretazione.
L’analisi narrativa dei testi biblici non può limitarsi ad applicare su di essi dei modelli prestabiliti, ma deve piuttosto sforzarsi di corrispondere alla loro specificità. Il suo approccio sincronico richiede di essere completato da studi diacronici. Deve d’altra parte guardarsi da una possibile tendenza a escludere ogni elaborazione dottrinale dei dati contenuti nei racconti della Bibbia, nel quale caso si troverebbe in disaccordo con la stessa tradizione biblica, che pratica questo genere di elaborazione, e con la tradizione ecclesiale, che ha continuato in questa strada. È opportuno, infine, notare che non è possibile considerare l’efficacia esistenziale soggettiva della Parola di Dio trasmessa narrativamente come un criterio sufficiente della verità della sua comprensione.
3. Analisi semiotica
Tra i metodi detti sincronici, che si concentrano cioè sullo studio del testo biblico così come si presenta nel suo stato finale, si colloca l’analisi semiotica, che, da una ventina d’anni, ha conosciuto in certi ambienti un enorme sviluppo. Dapprima chiamato col termine generico di “strutturalismo”, questo metodo può vantare come antenato il linguista svizzero Ferdinand de Saussure che, all’inizio di questo secolo, ha elaborato la teoria secondo la quale ogni lingua è un sistema di relazioni che obbedisce a regole determinate. Molti linguisti e studiosi di materie letterarie hanno avuto un’influenza notevole nell’evoluzione del metodo. La maggior parte dei biblisti che utilizzano la semiotica per lo studio della Bibbia fanno riferimento a Algirdas J. Greimas e alla Scuola di Parigi di cui egli è il fondatore. Altri approcci o metodi analoghi, fondati sulla linguistica moderna, si sviluppano altrove. Qui presenteremo e analizzeremo brevemente il metodo di Greimas.
La semiotica si basa su tre principi o presupposti principali: Principio di immanenza: ogni testo forma un tutto di significazione; l’analisi considera tutto il testo, ma soltanto il testo; non fa appello a dati “esterni”, quali l’autore, i destinatari, gli eventi raccontati, la storia della redazione.
Principio di struttura del senso: non c’è significato che per la relazione e nella relazione, specialmente quella di differenza; l’analisi di un testo consiste quindi nello stabilire la rete di relazioni (di opposizione, di omologazione...) tra gli elementi, a partire dalla quale costruisce il significato del testo.
Principio della grammatica del testo: ogni testo rispetta una grammatica, cioè un certo numero di regole o strutture; in un insieme di frasi chiamate discorso ci sono diversi livelli aventi ciascuno la loro grammatica.
Il contenuto globale di un testo può essere analizzato a tre livelli differenti:
Livello narrativo. Si studiano, nel racconto, le trasformazione che fanno passare dallo stato iniziale allo stato terminale. All’interno di un percorso narrativo, l’analisi cerca di tracciare le diverse fasi, logicamente legate tra loro, che segnano la trasformazione di uno stato in un altro. In ciascuna di queste fasi vengono precisati rapporti tra i “ruoli” che hanno alcuni “attanti” che determinano gli stati e producono le trasformazioni.
Livello discorsivo. L’analisi consiste in tre operazioni: (a) individuazione e classificazione delle figure, cioè degli elementi di significazione di un testo (attori, tempi e luoghi); (b) determinazione dei percorsi di ogni figura in un testo per stabilire il modo in cui testo l’utilizza; (c) ricerca dei valori tematici delle figure. Quest’ultima operazione consiste nell’individuare «in nome di che cosa» (= valore) le figure seguono, in un testo determinato, un certo percorso.
Livello logico-semantico. È il livello detto profondo. È anche il più astratto. Esso procede dal postulato che alle organizzazioni narrative e discorsive di ogni discorso sono soggiacenti forme logiche e significanti. L’analisi a questo livello consiste nel precisare la logica che regola le articolazioni fondamentali dei percorsi narrativi e figurativi di un testo. Per fare ciò, si usa spesso uno strumento, chiamato il “quadrato semiotico”, figura che utilizza i rapporti tra due termini “contrari” e due termini “contraddittori” (per es. bianco e nero; bianco e non bianco; nero e non nero).
I teorici del metodo semiotico non cessano di apportarvi nuovi sviluppi. Le ricerche attuali vertono soprattutto sull’enunciazione e sull’intertestualità. Applicato dapprima ai testi narrativi della Scrittura, che vi si prestano più facilmente, il metodo viene sempre più utilizzato per altri tipi di discorsi biblici.
Questa descrizione della semiotica e soprattutto l’enunciato dei suoi presupposti lasciano già percepire i contributi e i limiti di questo metodo. Attirando maggiormente l’attenzione sul fatto che ogni testo biblico è un tutto coerente, che obbedisce a meccanismi linguistici precisi, la semiotica contribuisce alla nostra comprensione della Bibbia, Parola di Dio espressa in linguaggio umano.
La semiotica può essere utilizzata per lo studio della Bibbia solo a condizione che si separi questo metodo di analisi da alcuni presupposti sviluppati nella filosofia strutturalista, cioè la negazione dei soggetti e del riferimento extra testuale. La Bibbia è una Parola sul reale, che Dio ha pronunciato in una storia, e che ci rivolge oggi attraverso autori umani. L’approccio semiotico dev’essere aperto alla storia: dapprima a quella degli attori dei testi, e poi a quella dei loro autori e dei loro lettori. Grande è il rischio, in quelli che utilizzano l’analisi semiotica, di fermarsi a uno studio formale del contenuto e di non cogliere il messaggio dei testi.
L’analisi semiotica, se non si perde negli arcani di un linguaggio complicato e viene insegnata in termini semplici nei suoi elementi principali, può risvegliare nei cristiani il gusto di studiare il testo biblico e di scoprire alcune delle sue dimensioni di significato senza possedere tutte le conoscenze storiche che si riferiscono alla produzione del testo e al suo mondo socio-culturale. Può così rivelarsi utile nella stessa pastorale, per una certa appropriazione della Scrittura in ambienti non specializzati.
C. Approcci basati sulla Tradizione
I metodi letterari che abbiamo presentato, anche se si differenziano dal metodo storico-critico per una maggiore attenzione all’unità interna dei testi studiati, rimangono insufficienti per l’interpretazione della Bibbia in quanto considerano ogni scritto isolatamente. Ora, la Bibbia non si presenta come una collezione di testi privi di qualsiasi relazione tra loro, ma come un insieme di testimonianze di una stessa grande Tradizione. Per corrispondere pienamente all’oggetto del suo studio, l’esegesi biblica deve tener conto di questo fatto. Tale è la prospettiva adottata da vari approcci che si sono sviluppati recentemente.
1. Approccio canonico
Partendo dalla constatazione che il metodo storico-critico incontra talvolta delle difficoltà a raggiungere, nelle sue conclusioni, il livello teologico, l’approccio “canonico”, nato una ventina d’anni fa negli Stati Uniti, intende portare proprio al compito teologico dell’interpretazione, partendo dalla cornice esplicita della fede: la Bibbia nel suo insieme.
Per fare ciò interpreta ogni testo biblico alla luce del canone delle Scritture, cioè della Bibbia ricevuta come norma di fede da una comunità di credenti. Cerca di situare ogni testo all’interno dell’unico disegno di Dio, allo scopo di arrivare a un’attualizzazione della Scrittura per il nostro tempo. Non ha la pretesa di sostituirsi al metodo storico-critico, ma si prefigge di completarlo.
Sono stati proposti due punti di vista differenti:
Brevard S. Childs centra il suo interesse sul testo nella sua forma canonica finale (libro o collezione), accettata dalla comunità come un’autorità per esprimere la propria fede e orientare la propria vita.
Più che sulla forma finale e stabilita del testo, James A. Sanders porta la sua attenzione sul “processo canonico” o sviluppo progressivo delle Scritture alle quali la comunità credente ha riconosciuto un’autorità normativa. Lo studio critico di questo processo esamina come le antiche tradizioni sono state riutilizzate in nuovi contesti, prima di costituire un tutto al tempo stesso stabile e adattabile, coerente e unificatore di dati divergenti, nel quale la comunità di fede attinge la sua identità. Nel corso di questo processo sono stati messi in opera certi procedimenti ermeneutici e lo sono ancora dopo la fissazione del canone; sono spesso di genere midrashico, tendenti ad attualizzare il testo biblico, e favoriscono una costante interazione tra la comunità e le sue Scritture, facendo appello a un’interpretazione che mira a rendere contemporanea la tradizione.
L’approccio canonico reagisce giustamente contro la valorizzazione esagerata di ciò che si suppone essere originale e primitivo, come se solo questo fosse autentico. La Scrittura ispirata è quella che la Chiesa ha riconosciuta come regola della propria fede. Si può insistere, a questo proposito, o sulla forma finale in cui si trova attualmente ciascuno dei libri, o sull’insieme che essi costituiscono come canone. Un libro diventa biblico solo alla luce dell’intero canone.
La comunità credente è effettivamente il contesto adeguato per l’interpretazione dei testi canonici. La fede e lo Spirito Santo arricchiscono in essa l’esegesi; l’autorità ecclesiale, esercitata a servizio della comunità, deve vegliare che l’interpretazione resti fedele alla grande Tradizione che ha prodotto i testi (cf. Dei Verbum, 10).
L’approccio canonico si trova alle prese con più di un problema, soprattutto quando cerca di definire il “processo canonico”. A partire da che cosa si può dire che un testo è canonico? Sembra ammissibile dirlo appena la comunità attribuisce a un testo un’autorità normativa, anche prima della fissazione definitiva di questo testo. Si può parlare di un’ermeneutica “canonica” dal momento che la ripetizione delle tradizioni, che si effettua tenendo conto de gli aspetti nuovi della situazione (religiosa, culturale, teologica) mantiene l’identità del messaggio. Ma nasce un interrogativo: il processo d’interpretazione che ha portato alla formazione del canone dev’essere riconosciuto come regola d’interpretazione della Scrittura fino ai nostri giorni?
D’altra parte, i complessi rapporti tra il canone ebraico delle Scritture e il canone cristiano suscitano numerosi problemi per l’interpretazione. La Chiesa cristiana ha ricevuto come “Antico Testamento” gli scritti che avevano autorità nella comunità giudaico ellenistica, ma alcuni di questi sono assenti nella Bibbia ebraica o si presentano in forma diversa. Il corpus è quindi diverso. Perciò l’interpretazione canonica non può essere identica, dal momento che ogni testo dev’essere letto in relazione con l’insieme del corpo, ma, soprattutto, la Chiesa legge l’Antico Testamento alla luce dell’evento pasquale, morte e risurrezione del Cristo Gesù, che apporta una radicale novità e dà, con un’autorità sovrana, un senso decisivo e definitivo alle Scritture (cf. Dei Verbum, 4). Questa nuova determinazione di senso fa parte integrante della fede cristiana. Non deve tuttavia privare di ogni consistenza l’interpretazione canonica anteriore, quella che ha preceduto la Pasqua cristiana, perché è necessario rispettare ogni tappa della storia della salvezza. Svuotare della sua sostanza l’Antico Testamento significherebbe privare il Nuovo Testamento del suo radicamento nella storia.
2. Approccio mediante il ricorso alle tradizioni interpretative giudaiche
L’Antico Testamento ha assunto la sua forma finale nel giudaismo degli ultimi quattro o cinque secoli che hanno preceduto l’era cristiana. Questo giudaismo è stato anche l’ambiente di origine del Nuovo Testamento e della Chiesa nascente. Numerosi studi di storia giudaica antica, e in particolare le ricerche suscitate dalle scoperte di Qumran, hanno messo in rilievo la complessità del mondo giudaico, in terra d’Israele e nella diaspora, nel corso di questo periodo.
L’interpretazione della Bibbia ha avuto origine in questo mondo. Una delle testimonianze più antiche dell’interpretazione giudaica della Bibbia è la traduzione greca dei Settanta. I targumim aramaici costituiscono un’altra testimonianza dello stesso sforzo, proseguito fino ai nostri giorni, accumulando un insieme prodigioso di procedimenti eruditi per la conservazione del testo dell’Antico Testamento e per la spiegazione del senso dei testi biblici. Da sempre i migliori esegeti cristiani, fin da Origene e san Girolamo, hanno cercato di trarre profitto dall’erudizione biblica giudaica pel una migliore comprensione della Scrittura. Numerosi esegeti moderni seguono il loro esempio.
Le tradizioni giudaiche antiche permettono, in particolare, di meglio conoscere i Settanta, Bibbia giudaica, divenuta poi la prima parte della Bibbia cristiana almeno durante i primi quattro secoli della Chiesa e in Oriente fino ai nostri giorni. La letteratura giudaica extra canonica, chiamata apocrifa o intertestamentaria, abbondante e diversificata, è una fonte importante per l’interpretazione del Nuovo Testamento. I vari procedimenti esegetici praticati dal giudaismo delle diverse tendenze si ritrovano nello stesso Antico Testamento, per esempio nei libri delle Cronache in rapporto ai libri dei Re, e nel Nuovo Testamento, per esempio in certi ragionamenti scritturistici di san Paolo. La diversità delle forme (parabole, allegorie, antologie e centoni, riletture, pesher, accostamenti tra testi lontani salmi e inni, visioni, rivelazioni e sogni, composizioni sapienziali) è comune all’Antico e al Nuovo Testamento, come pure alla letteratura di tutti gli ambienti giudaici prima e dopo il tempo di Gesù. I targumim e i midrashim rappresentano l’omiletica e l’interpretazione biblica di ampi settori del giudaismo dei primi secoli.
Numerosi esegeti dell’Antico Testamento fanno ricorso ai commentatori, grammatici e lessicografi ebrei medievali e più recenti per la comprensione di passi oscuri o di parole rare e uniche. Più numerosi di prima appaiono oggi nella discussione esegetica i riferimenti a queste opere giudaiche.
La ricchezza dell’erudizione giudaica messa a servizio della Bibbia, dalle sue origini nell’antichità fino ai nostri giorni, è un aiuto di primaria importanza per l’esegesi dei due Testamenti, a condizione però di usarla con discernimento. Il giudaismo antico era molto vario. La forma farisaica, che ha poi prevalso nel rabbinismo, non era la sola. I testi giudaici antichi abbracciano un periodo di vari secoli; è quindi importante situarli cronologicamente prima di procedere a confronti. Soprattutto è fondamentalmente diverso il contesto d’insieme delle due comunità, ebraica e cristiana: in forme molto varie, la religione ebraica definisce un popolo e una pratica di vita a partire da uno scritto rivelato e da una tradizione orale, mentre a radunare la comunità cristiana è la fede nel Signore Gesù, morto, risorto e ora vivo, Messia e Figlio di Dio. Questi due punti di partenza creano, per l’interpretazione delle Scritture, due contesti che, nonostante molti contatti e similitudini, sono radicalmente diversi.
3. Approccio attraverso la storia degli effetti del testo
Questo approccio si basa su due principi: a) un testo diventa un’opera letteraria solo quando incontra dei lettori che gli danno vita appropriandosene; b) l’appropriazione del testo, che può essere individuale o comunitaria e prendere forma in campi diversi (letterario, artistico, teologico, ascetico e mistico), contribuisce a far meglio comprendere il testo stesso.
Pur senza essere completamente sconosciuto nell’antichità, questo tipo di approccio si è sviluppato tra il 1960 e 1970 negli studi letterari, quando la critica si è interessata ai rapporti tra il testo e i suoi lettori. L’esegesi biblica non poteva che trarre beneficio da questa ricerca, tanto più che l’ermeneutica filosofica affermava da parte sua la necessaria distanza tra l’opera e il suo autore, come pure tra l’opera e i suoi lettori. In questa prospettiva si è cominciato a far entrare nel lavoro di interpretazione la storia dell’effetto provocato da un libro o da un passo della Scrittura (Wirkungsgeschichte). Ci si sforza di misurare l’evoluzione dell’interpre¬tazione nel corso del tempo in funzione delle preoccupazioni dei lettori e di valutare l’importanza del ruolo della tradizione per chiarire il senso dei testi biblici.
Dal confronto di un testo con i suoi lettori scaturisce una dinamica, poiché il testo esercita un’influenza e provoca delle reazioni; fa risuonare un appello, che è sentito dai lettori individualmente o in gruppi. Il lettore non è del resto mai un soggetto isolato, ma appartiene a uno spazio sociale e si situa in una tradizione. Accosta il testo con le sue domande, opera una selezione, propone un’interpretazione e, finalmente, può creare un’altra opera o prendere delle iniziative che si ispirano direttamente alla sua lettura della Scrittura.
Gli esempi di un tale approccio sono già numerosi. La storia della lettura del Cantico dei Cantici ne offre un’eccellente testimonianza; essa mostra come questo libro fu accolto all’epoca dei Padri della Chiesa, nell’ambiente monastico latino nel medioevo o ancora presso un mistico come san Giovanni della Croce, permettendo così di scoprire meglio tutte le dimensioni di significato di questo scritto. Similmente per il Nuovo Testamento, è possibile e utile illuminare il significato di una pericope (per esempio, quella del giovane ricco di Mt 19, 16-26) mostrando la sua fecondità nel corso della storia della Chiesa.
Ma la storia attesta anche l’esistenza di correnti interpretative tendenziose e false, dagli effetti nefasti, che hanno portato, per esempio, all’antisemitismo o ad altre discriminazioni razziali o ad illusioni millenaristiche. Si vede allora come questo approccio non può essere una disciplina autonoma, ma richiede un discernimento. Occorre guardarsi dal privilegiare l’uno o l’altro momento della storia degli effetti di un testo per farne l’unica regola della sua interpretazione.
D. Approcci attraverso le scienze umane
Per comunicarsi, la Parola di Dio ha posto le sue radici nella vita di gruppi umani (cf. Sir 24, 12) e si è aperta una strada attraverso i condizionamenti psicologici delle diverse persone che hanno composto gli scritti biblici. Ne consegue che le scienze umane, in particolare la sociologia, l’antropologia e la psicologia, possono contribuire a una migliore comprensione di certi aspetti dei testi. È opportuno tuttavia notare che esistono varie scuole, con notevoli divergenze sulla natura stessa di queste scienze. Detto ciò un buon numero di esegeti ha recentemente tratto profitto da questo genere di ricerche.
1. Approccio sociologico
I testi religiosi sono legati da un rapporto di reciproca relazione alle società nella quali hanno origine. Questa constatazione vale evidentemente anche per i testi biblici. Di conseguenza lo studio critico della Bibbia richiede la conoscenza più esatta possibile dei comportamenti sociali che caratterizzavano i diversi ambienti nei qual si formarono le tradizioni bibliche. Questo genere di informazione socio-storica va completato con una corretta spiegazione sociologica, che interpreti scientificamente, in ogni caso, la portata delle condizioni sociali di vita.
Nella storia dell’esegesi, già da molto tempo il punto di vista sociologico ha trovato un certo posto; ne è una testimonianza l’attenzione che la Formgeschichte ha accordato all’ambiente di origine dei testi (Sitz im Leben): si riconosce che le tradizioni bibliche portano il segno degli ambienti socio-culturali che li hanno trasmessi. Nei primi trent’anni del XX secolo, la Scuola di Chicago ha studiato la situazione socio-storica del cristianesimo primitivo, dando così alla critica storica un impulso apprezzabile in questa direzione. Nel corso degli ultimi venti anni (1970-1990), l’approccio sociologico dei testi biblici è diventato parte integrante dell’esegesi.
Numerosi sono gli interrogativi che si pongono in questo campo per l’esegesi dell’Antico Testamento. Bisogna domandarsi, ad esempio, quali sono le diverse forme di organizzazione sociale e religiosa conosciute da Israele nel corso della sua storia. Per il periodo anteriore alla formazione di uno stato, è possibile che il modello, etnologico di una società acefala segmentaria fornisca una base di partenza soddisfacente? Come si è passati da una lega di tribù, senza grande coesione, a uno stato organizzato in monarchia e, da lì, a una comunità basata semplicemente su dei legami religiosi e genealogici? Quali trasformazioni economiche, militari e di altro genere furono provocate nella struttura della società dal movimento di centralizzazio¬ne politica e religiosa che portò alla monarchia? Lo studio delle norme di comportamento nell’Antico Oriente e in Israele non contribuisce alla comprensione del Decalogo più efficacemente dei tentativi puramente letterari di ricostruzione di un testo primitivo?
Per l’esegesi del Nuovo Testamento gli interrogativi sono evidentemente differenti. Ne citiamo alcuni: per spiegare il genere di vita adottato prima della Pasqua da Gesù e i suoi discepoli, quale valore si può accordare alla teoria di un movimento carismatico itinerante, che viveva senza un domicilio, né famiglia, né beni? Si è mantenuta una relazione di continuità, basata sull’appello di Gesù a seguirlo, tra l’atteggiamento di radicale distacco adottato da Gesù, e quello del movimento cristiano dopo la Pasqua, negli ambienti più diversi del cristianesimo primitivo? Cosa sappiamo della struttura sociale delle comunità paoline, tenuto conto, in ogni caso, della cultura urbana corrispondente?
In genere, l’approccio sociologico offre una più grande apertura al lavoro esegetico e comporta molti aspetti positivi. La conoscenza dei dati sociologici che contribuiscono a far comprendere il funzionamento economico, culturale e religioso del mondo biblico è indispensabile alla critica storica. Il compito, che incombe all’esegesi, di prestare molta attenzione alla testimonianza di fede della Chiesa apostolica non può essere portato a buon fine in modo rigoroso senza una ricerca scientifica che studi gli stretti rapporti di testi del Nuovo Testamento con il “vissuto” sociale della Chiesa primitiva. L’utilizzazione dei modelli forniti dalla scienza sociologica assicura alle ricerche degli storici sulle epoche bibliche una notevole capacità di rinnovamento, ma è necessario, naturalmente, che i modelli siano modificati in funzione della realtà studiata.
È il caso di segnalare alcuni rischi che l’approccio sociologico fa correre all’esegesi. In effetti, se il lavoro della sociologia consiste nello studiare le società viventi, bisogna aspettarsi certe difficoltà quando si vogliono applicare i suoi metodi ad ambienti storici che appartengono a un passato lontano. I testi biblici ed extra biblici non forniscono necessariamente una documentazione sufficiente per dare una visione d’insieme della società dell’epoca. Inoltre, il metodo sociologico tende ad accordare più attenzione agli aspetti economici e istituzionali dell’esistenza umana che alle sue dimensioni personali e religiose.
2. Approccio attraverso l’antropologia culturale
L’approccio ai testi biblici che utilizza le ricerche di antropologia culturale è in stretto rapporto con quello sociologico. La distinzione dei due si situa al tempo stesso al livello della sensibilità, a quello del metodo e a quello degli aspetti della realtà che attirano l’attenzione. Mentre l’approccio sociologico, come abbiamo appena detto, studia soprattutto gli aspetti economici e istituzionali, quello antropologico si interessa a un vasto insieme di altri aspetti che si riflettono nella lingua, nell’arte, nella religione, ma anche nei vestiti, negli ornamenti, nelle feste, nelle danze, nei miti, nelle leggende e in tutto ciò che concerne l’etnografia.
In genere, l’antropologia culturale cerca di definire le caratteristiche dei diversi tipi di uomini nel loro ambiente sociale, come, per esempio, l’uomo mediterraneo, con tutto ciò che questo implica di studio dell’ambiente rurale o urbano e di attenzione ai valori riconosciuti dalla società (onore e disonore, segreto, fedeltà, tradizione, tipo di educazione e di scuole), al modo in cui si esercita il controllo sociale, alle idee che si ha della famiglia, della casa, della parentela, alla situazione della donna, ai binomi istituzionali (capo-dipendente, proprietario-locatario, benefattore-beneficiario, libero-schiavo), senza dimenticare la concezione del sacro e del profano, i tabù, il rituale del passaggio da una situazione a un’altra, la magia, l’origine delle risorse, del potere, dell’informazione, ecc.
Sulla base di questi diversi elementi si costituiscono delle tipologie e dei modelli, comuni a parecchie culture.
Questo genere di studi può evidentemente essere utile per l’interpretazione dei testi biblici ed è effettivamente utilizzato per lo studio delle concezioni della parentela nell’Antico Testamento, della posizione della donna nella società israelitica, dell’influenza dei riti agrari, ecc. Nei testi che riferiscono l’insegnamento di Gesù, per esempio le parabole, molti dettagli possono essere illuminati grazie a questo approccio. Lo stesso avviene per certe concezioni fondamentali, come quella del Regno di Dio, o per il modo di concepire il tempo nella storia della salvezza, come pure per il processo di agglutinazione delle comunità primitive. Questo approccio permette di distinguere meglio gli elementi permanenti del messaggio biblico che hanno il loro fondamento nella natura umana, e le determinazioni contingenti, dovute a culture particolari. Tuttavia, come altri approcci particolari, anche questo è incapace, in se stesso, di rendere conto dei contributi specifici della Rivelazione. È opportuno esserne consapevoli al momento di valutare la portata dei suoi risultati.
3. Approcci psicologici e psicanalitici
Psicologia e teologia non hanno mai cessato di essere in dialogo tra loro. L’estensione moderna delle ricerche psicologiche allo studio delle strutture dinamiche dell’inconscio ha suscitato nuovi tentativi di interpretazione dei testi antichi, e quindi anche della Bibbia. Intere opere sono state dedicate all’interpretazione psicanalitica di testi biblici. Ne sono seguite vivaci discussioni: in che misura e a quali condizioni le ricerche psicologiche e psicanalitiche possono contribuire a una più profonda comprensione della Sacra Scrittura?
Gli studi di psicologia e di psicanalisi apportano all’esegesi biblica un arricchimento, poiché, grazie ad essi, i testi della Bibbia possono essere meglio compresi in quanto esperienze di vita e regole di comportamento. La religione, come è noto, è sempre in una situazione di dibattito con l’inconscio. Partecipa, in misura molto ampia, al corretto orientamento delle pulsioni umane. Le tappe che la critica storica percorre metodicamente hanno bisogno di essere completate da una studio dei diversi livelli della realtà espressa nei testi. La psicologia e la psicanalisi si sforzano di avanzare in questa direzione. Aprono la strada a una comprensione pluridimensionale della Scrittura e aiutano a decifrare il linguaggio umano della Rivelazione.
La psicologia e, in altro modo, la psicanalisi hanno portato, in particolare, una nuova comprensione del simbolo. Il linguaggio simbolico permette di esprimere zone dell’esperienza religiosa che non sono accessibili al ragionamento puramente concettuale, ma hanno nondimeno un valore per il problema della verità. Perciò uno studio interdisciplinare, condotto in comune da esegeti e psicologi o psicanalisti, presenta indubbi vantaggi, fondati oggettivamente e confermati nella pastorale.
Si potrebbero citare numerosi esempi che mostrano la necessità di uno sforzo comune degli esegeti e degli psicologi: per comprendere meglio il significato dei riti del culto, dei sacrifici, dei divieti, per spiegare il linguaggio immaginoso della Bibbia, la portata metaforica dei racconti di miracoli, la forza drammatica delle visioni o dei messaggi apocalittici. Non si tratta semplicemente di descrivere il linguaggio simbolico della Bibbia, ma di comprendere la sua funzione di rivelazione e di interpellazione: la realtà “numinosa” di Dio entra lì in contatto con l’uomo.
Il dialogo tra esegesi e psicologia o psicanalisi in vista di una migliore comprensio¬ne della Bibbia deve evidentemente essere critico e rispettare le frontiere di ogni disciplina. In ogni caso, una psicologia o una psicanalisi che fosse atea sarebbe incapace di rendere conto dei dati della fede. Psicologia e psicanalisi, utili per precisare l’estensione della responsabilità umana, non devono eliminare la realtà del peccato e della salvezza. Bisogna d’altra parte guardarsi dal confondere religiosità spontanea e rivelazione biblica o dal dimenticare il carattere storico del messaggio della Bibbia, che assicura ad esso valore di evento unico.
Osserviamo, inoltre, che non si può parlare di “esegesi psicanalitica” come se non ce ne fosse che una sola. Esiste in realtà, proveniente da diversi campi della psicologia e da diverse scuole, una moltitudine di conoscenze che possono fornire contributi preziosi per l’interpretazione umana e teologica della Bibbia. Assolutizzare l’una o l’altra posizione di una data scuola non favorisce la fecondità dello sforzo comune, ma piuttosto la danneggia.
Le scienze umane non si riducono alla sociologia, all’antropologia culturale e alla psicologia. Altre discipline possono essere ugualmente utili per l’interpretazione della Bibbia. In tutti questi campi è necessario rispettare le competenze e riconoscere che è poco frequente che una stessa persona sia al tempo stesso qualificata in esegesi e in una o l’altra delle scienze umane.
E. Approcci contestuali
L’interpretazione di un testo è sempre dipendente dalla mentalità e dalle preoccupazioni dei suoi lettori. Questi accordano un’attenzione privilegiata ad alcuni aspetti e, senza nemmeno rendersene conto, ne trascurano altri. È perciò inevitabile che vari esegeti adottino, nei loro lavori, punti di vista nuovi corrispondenti a certe correnti di pensiero contemporanee che non hanno avuto, finora, un posto sufficiente. È opportuno che lo facciano con discernimento critico. Attualmente attirano particolarmente l’attenzione i movimenti di liberazione e il femminismo.
1. Approccio liberazionista
La teologia della liberazione è un fenomeno complesso che non va indebitamente semplificato. Come movimento teologico, esso si consolida verso gli inizi degli anni settanta. Suo punto di partenza, oltre alle circostanze economiche, sociali e politiche dei paesi dell’America Latina, si trova in due grandi avvenimenti ecclesiali: il concilio Vaticano II, con la sua dichiarata volontà di aggiornamento e di orientazione del lavoro pastorale della Chiesa verso i bisogni del mondo attuale, e la II Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-Americano a Medellin nel 1968, che ha applicato gli insegnamenti del Concilio ai bisogni dell’America Latina. Il movimento si è propagato anche in altre parti del mondo (Africa, Asia, popolazione nera degli Stati Uniti).
È difficile discernere se esista “una” teologia della liberazione e definirne il metodo. Altrettanto difficile è determinare in maniera adeguata il suo modo di leggere la Bibbia per indicarne poi gli apporti e i limiti. Si può dire che essa non adotta un metodo speciale, ma, partendo da punti di vista socio-culturali e politici propri, pratica una lettura biblica orientata in funzione dei bisogni del popolo, che cerca nella Bibbia il nutrimento per la propria fede e la propria vita.
Invece di limitarsi a un’interpretazione oggettivante, che si concentri su ciò che dice il testo situato nel suo contesto di origine, si cerca una lettura che nasca dalla situazione vissuta dal popolo. Se questo vive in circostanze di oppressione, si ricorre alla Bibbia per cercarvi il nutrimento capace di sostenerlo nelle sue lotte e nelle sue speranze. La realtà presente non dev’essere ignorata, ma al contrario affrontata, allo scopo di illuminarla alla luce della Parola. Da questa lotta scaturirà la prassi cristiana autentica, tendente alla trasformazione della società per mezzo della giustizia e dell’amore. Nella fede, la Scrittura si trasforma in fattore di dinamismo di liberazione integrale.
I principi sono i seguenti:
Dio è presente nella storia del suo popolo per salvarlo. Egli è il Dio dei poveri, che non può tollerare l’oppressione né l’ingiustizia. Questa è la ragione per cui l’esegesi non può essere neutra, ma deve schierarsi, al seguito di Dio, dalla parte dei poveri e impegnarsi nella lotta per la liberazione degli oppressi. La partecipazione a questa lotta permette di far apparire dei significati che si scoprono solo quando i testi biblici vengono letti in un contesto di solidarietà effettiva con gli oppressi.
Poiché la liberazione degli oppressi è un processo collettivo, la comunità dei poveri è il migliore destinatario per ricevere la Bibbia come parola di liberazione. Inoltre, poiché i testi biblici sono stati scritti per comunità, la lettura della Bibbia è affidata in primo luogo proprio a comunità. La Parola di Dio è pienamente attuale, grazie soprattutto alla capacità che possiedono alcuni “eventi fondatori” (l’uscita dall’Egitto, la passione e la risurrezione di Gesù) di suscitare nuove realizzazioni nel corso della storia.
La teologia della liberazione comprende elementi il cui valore è indiscusso: il senso profondo della presenza di Dio che salva; l’insistenza sulla dimensione comunitaria della fede; l’urgenza di una prassi liberatrice radicata nella giustizia e nell’amore; una rilettura della Bibbia che cerca di fare della Parola di Dio la luce e il nutrimento del popolo di Dio in mezzo alle sue lotte e alle sue speranze. Viene così sottolineata la piena attualità del testo ispirato.
Ma una lettura così impegnata della Bibbia comporta certi rischi. Essendo legata a un movimento in piena evoluzione, le osservazioni che seguono non possono che essere provvisorie.
Questo tipo di lettura si concentra su testi narrativi e profetici che illuminano situazioni di oppressione e ispirano una prassi che tende a un cambiamento sociale; è possibile che sia, qua o là, parziale, non prestando altrettanta attenzione ad altri testi della Bibbia. È esatto che l’esegesi non può essere neutra, ma deve anche guardarsi dall’essere unilaterale. D’altra parte, l’impegno sociale e politico non è compito diretto dell’esegeta.
Alcuni teologi ed esegeti, volendo inserire il messaggio biblico nel contesto socio-politico, sono stati portati a ricorrere a vari strumenti di analisi della realtà sociale. In questa prospettiva alcune correnti della teologia della liberazione hanno fatto un’analisi ispirata a dottrine materialiste e hanno letto la Bibbia anche in questa cornice, il che non ha mancato di suscitare problemi, specialmente per ciò che concerne il principio marxista della lotta di classe.
Sotto la spinta di enormi problemi sociali, l’accento è stato messo di più su un’escatologia terrena, talvolta a detrimento della dimensione escatologica trascendente della Scrittura. I cambiamenti sociali e politici conducono questo approccio a porsi nuovi interrogativi e a cercare nuovi orientamenti. Per il suo sviluppo ulteriore e la sua fecondità nella Chiesa, un fattore decisivo sarà la precisazione dei suoi presupposti ermeneutici, dei suoi metodi e della sua coerenza con la fede e la Tradizione di tutta la Chiesa.
2. Approccio femminista
L’ermeneutica biblica femminista è nata verso la fine del XIX secolo negli Stati Uniti, nel contesto socio-culturale della lotta per diritti della donna, con il comitato di revisione della Bibbia, che produsse The Woman’s Bible in due volumi (New York 1885, 1898). Questa corrente si è manifestata con un nuovo vigore ed ha avuto un enorme sviluppo a partire dagli anni settanta, in stretto legame con il movimento della liberazione della donna, soprattutto nell’America del nord. Propriamente parlando, è necessario distinguere diverse ermeneutiche bibliche femministe, perché gli approcci utilizzati sono molto differenti. La loro unità proviene dal tema comune, la donna, e dallo scopo perseguito: la liberazione della donna e la conquista di diritti uguali a quelli dell’uomo.
È il caso di menzionare qui tre forme principali dell’ermeneutica biblica femminista: la forma radicale, la forma neo-ortodossa e la forma critica. La forma radicale rifiuta completamente l’autorità della Bibbia, sostenendo che essa è stata prodotta da uomini allo scopo di assicurare il dominio dell’uomo sulla donna (androcentri¬smo).
La forma neo-ortodossa accetta la Bibbia come profetica e suscettibile di essere utile, nella misura in cui essa si schiera dalla parte dei deboli e quindi anche della donna; questo orientamento è adottato come «canone nel canone», per mettere in luce tutto ciò che è in favore della liberazione della donna e dei suoi diritti.
La forma critica utilizza una metodologia sottile e cerca di riscoprire la posizione e il ruolo della donna cristiana nel movimento di Gesù e nelle chiese paoline. In quell’epoca si sarebbe adottato l’egualitarismo. Ma questa situazione sarebbe stata mascherata, in gran parte, negli scritti del Nuovo Testamento e ancora di più in seguito, essendo progressivamente prevalso il patriarcato e l’androcentrismo.
L’ermeneutica femminista non ha elaborato un metodo nuovo. Si serve dei metodi correnti in esegesi, specialmente di quello storico-critico. Ma aggiunge due criteri di ricerca.
Il primo è il criterio femminista, che si ispira al movimento di liberazione della donna, sulla scia del più generale movimento della teologia della liberazione. Esso utilizza un’ermeneutica del sospetto: siccome la storia è stata regolarmente scritta dai vincitori, è opportuno, per scoprire la verità, non fidarsi dei testi ma cercare in essi degli indizi che rivelino qualcosa di diverso.
Il secondo criterio è sociologico; si basa sullo studio delle società dei tempi biblici, della loro stratificazione sociale e della posizione che occupava in esse la donna.
Per quanto concerne gli scritti neotestamentari, l’oggetto dello studio non è, in definitiva, la concezione della donna espressa nel Nuovo Testamento, ma la ricostruzione storica di due situazioni diverse della donna nel I secolo: quella abituale nella società ebraica e greco-romana e quella, innovatrice, istituita nel movimento di Gesù e nelle chiese paoline, dove si sarebbe formata «una comunità di discepoli di Gesù, tutti uguali». Uno dei testi invocati a fondamento di questa visione delle cose è Gal 3, 28. L’obiettivo è quello di riscoprire per il presente la storia dimenticata del ruolo della donna nella Chiesa delle origini.
Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi femminista. Le donne hanno preso così una parte più attiva nella ricerca esegetica; sono riuscite a percepire, spesso meglio degli uomini, la presenza, il significato e il ruolo della donna nella Bibbia, nella storia delle origini cristiane e nella Chiesa. L’orizzonte culturale moderno, grazie alla sua più grande attenzione alla dignità della donna e al suo ruolo nella società e nella Chiesa, fa sì che si pongano al testo biblico nuovi interrogativi, occasioni di nuove scoperte. La sensibilità femminile porta a svelare e a correggere alcune interpretazioni correnti, che erano tendenziose e miravano a giustificare il dominio dell’uomo sulla donna.
Per quanto concerne l’Antico Testamento, molti studi si sono sforzati di arrivare a una migliore comprensione dell’immagine di Dio. Il Dio della Bibbia non è la proiezione di una mentalità patriarcale. È Padre, ma è anche Dio di tenerezza e di amore materni.
Nella misura in cui l’esegesi femminista si basa su un partito preso, corre il rischio di interpretare i testi biblici in modo tendenzioso e quindi impugnabile. Per provare le sue tesi deve ricorrere spesso, in mancanza di meglio, ad argomenti ex silentio. Questi, com’è noto, sono poco attendibili e non possono mai essere sufficienti a stabilire solidamente una conclusione. D’altra parte, il tentativo fatto per ricostruire, grazie a labili indizi individuati nei testi, una situazione storica che si ritiene questi stessi testi abbiano voluto nascondere, non corrisponde più a un lavoro di esegesi propriamente detto, poiché porta al rifiuto del contenuto dei testi ispirati per preferire loro una ricostruzione ipotetica diversa.
L’esegesi femminista solleva spesso il problema del potere nella Chiesa, che, com’è noto, è oggetto di discussioni e anche di scontri. In questo campo, l’esegesi femminista potrà essere utile alla Chiesa solo nella misura in cui non cadrà nelle stesse trappole che essa denuncia e non perderà di vista l’insegnamento evangelico sul potere come servizio, insegnamento rivolto da Gesù a tutti i discepoli, uomini e donne.[2]
F. Lettura fondamentalista
La lettura fondamentalista parte dal principio che la Bibbia, essendo Parola di Dio ispirata ed esente da errore, dev’essere letta e interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. Ma per “interpretazione letterale” essa intende un’interpretazione primaria, letteralista, che esclude cioè ogni sforzo di comprensione della Bibbia che tenga conto della sua crescita nel corso della storia e de suo sviluppo. Si oppone perciò all’utilizzazione del metodo storico-critico per l’interpretazione della Scrittura, così come ad ogni altro metodo scientifico.
La lettura fondamentalista ha avuto la sua origine, all’epoca della Riforma, da una preoccupazione di fedeltà al senso letterale della Scrittura. Dopo il secolo dei lumi, essa si è presentata, nel protestantesimo, come una salvaguardia contro l’esegesi liberale. Il termine “fondamentalista” si ricollega direttamente al Congresso Biblico Americano tenutosi a Niagara, nello stato di New York ne 1895. Gli esegeti protestanti conservatori definirono allora «cinque punti del fondamentalismo»: l’inerranza verbale della Scrittura, la divinità di Cristo, la sua nascita verginale, la dottrina dell’espiazione vicaria e la risurrezione corporale in occasione della seconda venuta di Cristo. Quando la lettura fondamentalista si propagò in altre parti del mondo, diede vita ad altri tipi di lettura ugualmente “letteralisti”, in Europa, Asia, Africa e America Latina. Questo genere di lettura trova sempre più numerosi aderenti nel corso dell’ultima parte del XX secolo, in alcuni gruppi religiosi e sette e anche tra i cattolici.
Benché il fondamentalismo abbia ragione di insistere sull’ispirazione divina della Bibbia, sull’inerranza della Parola di Dio e sulle altre verità bibliche incluse nei cinque punti fondamentali, il suo modo di presentare queste verità si radica in una ideologia che non è biblica, checché ne dicano i suoi rappresentanti. Infatti essa esige una adesione ferma e sicura ad atteggiamenti dottrinali rigidi e impone, come fonte unica d’insegnamento riguardo alla vita cristiana e alla salvezza, una lettura della Bibbia che rifiuti ogni tipo di atteggiamento o ricerca critici.
Il problema di base di questa lettura fondamentalista è che rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione. Il fondamentalismo evita la stretta relazione del divino e dell’umano nei rapporti con Dio. Rifiuta di ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta, sotto l’ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per questa ragione, tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da una data epoca. Non accorda nessuna attenzione alle forme letterarie e ai modi umani di pensare presenti nei testi biblici, molti dei quali sono frutto di una elaborazione che si è estesa su lunghi periodi di tempo e porta il segno di situazioni storiche molto diverse.
Il fondamentalismo insiste anche in modo indebito sull’inerranza dei dettagli nei testi biblici, specialmente in materia di fatti storici o di pretese verità scientifiche. Spesso storicizza ciò che non aveva alcuna pretesa di storicità, poiché considera come storico tutto ciò che è riferito o raccontato con verbi al passato, senza la necessaria attenzione alla possibilità di un significato simbolico o figurativo.
Il fondamentalismo tende spesso a ignorare o a negare i problemi che il testo biblico comporta nella sua formulazione ebraica aramaica o greca. È spesso strettamente legato a una determinata traduzione, antica o moderna. Omette ugualmente di considerare le “riletture” di alcuni passi all’interno stesso della Bibbia.
Per ciò che concerne i vangeli, il fondamentalismo non tiene conto della crescita della tradizione evangelica, ma confonde ingenuamente lo stadio finale di questa tradizione (ciò che gli evangelisti hanno scritto) con lo stadio iniziale (le azioni e le parole del Gesù della storia). Viene trascurato nello stesso tempo un dato importante: il modo in cui le stesse prime comunità cristiane compresero l’impatto prodotto da Gesù di Nazaret e dal suo messaggio. Invece abbiamo lì una testimonianza dell’origine apostolica della fede cristiana e la sua diretta espressione.
Il fondamentalismo snatura così l’appello lanciato dal vangelo stesso. Il fondamenta¬lismo porta inoltre a una grande ristrettezza di vedute: ritiene infatti come conforme alla realtà, perché la si trova espressa nella Bibbia, una cosmologia antica superata, il che impedisce il dialogo con una concezione più aperta dei rapporti tra cultura e fede. Si basa su una lettura non critica di alcuni testi della Bibbia per confermare idee politiche e atteggiamenti sociali segnati da pregiudizi, per esempio razzisti, del tutto contrari al vangelo cristiano.
Infine, nel suo attaccamento al principio del “sola Scrittura”, il fondamentalismo separa l’interpretazione della Bibbia dalla Tradizione guidata dallo Spirito, che si sviluppa in modo autentico in unione con la Scrittura in seno alla comunità di fede. Gli manca la consapevolezza che il Nuovo Testamento si è formato all’interno della Chiesa cristiana e che è Sacra Scrittura di questa Chiesa, la cui esistenza ha preceduto la composizione dei suoi testi. Per questa ragione, il fondamentalismo è spesso antiecclesiale, ritenendo come trascurabili i credo, i dogmi e le pratiche liturgiche che sono diventate parte della tradizione ecclesiastica, così come la funzione di insegnamento della Chiesa stessa. Si presenta come una forma di interpretazione privata, la quale non riconosce che la Chiesa è fondata sulla Bibbia e attinge la sua vita e la sua ispirazione nelle Scritture.
L’approccio fondamentalista è pericoloso, perché attira le persone che cercano risposte bibliche ai loro problemi di vita. Tale approccio può includerle offrendo interpretazioni pie ma illusorie, invece di dire loro che la Bibbia non contiene necessariamente una risposta immediata a ciascuno di questi problemi. Il fondamentalismo invita, senza dirlo, a una forma di suicidio del pensiero. Mette nella vita una falsa certezza, poiché confonde inconsciamente i limiti umani del messaggio biblico con la sostanza divina dello stesso messaggio.
II
QUESTIONI DI ERMENEUTICA
A. Ermeneutiche filosofiche
Il cammino dell’esegesi è chiamato a essere ripensato tenendo conto dell’ermeneutica filosofica contemporanea, che ha messo in evidenza l’implicazione della soggettività nella conoscenza, specialmente nella conoscenza storica. La riflessione ermeneutica ha acquistato nuovo slancio con la pubblicazione dei lavori di Friedrich Schleiermacher, Wilhelm Dilthey e, soprattutto, Martin Heidegger. Sulla scia di queste filosofie, ma anche allontanandosi da esse, diversi autori hanno approfondito la teoria ermeneutica contemporanea e le sue applicazioni alla Scrittura. Tra essi menzioneremo in particolare Rudolf Bultmann, Hans Georg Gadamer e Paul Ricoeur. Non è possibile riassumere qui il loro pensiero; sarà sufficiente indicare alcune idee centrali della loro filosofia che hanno un’incidenza sull’interpretazione dei testi biblici.[3]
1. Prospettive moderne
Costatando la distanza culturale tra il mondo del I secolo e quello del ventesimo, e preoccupato di far sì che la realtà di cui parla la Scrittura parli all’uomo contemporaneo, Bultmann ha insistito sulla precomprensione necessaria a ogni comprensione e ha elaborato la teoria dell’interpretazione esistenziale degli scritti del Nuovo Testamento. Basandosi sul pensiero di Heidegger, egli afferma che l’esegesi di un testo biblico non è possibile senza alcuni presupposti che ne guidino la comprensione. La precomprensione (Vorverstandnis) è fondata su un rapporto vitale (Leben verhaltnis) dell’interprete con la cosa di cui parla il testo. Per evitare il soggettivismo, è tuttavia necessario che la precomprensione si lasci approfondire e arricchire, e perfino modificare e correggere, da ciò di cui parla il testo.
Interrogandosi sulla corretta concettualità che definirebbe le domande a partire dalle quali i testi della Scrittura potrebbero essere compresi dall’uomo di oggi, Bultmann pretende di trovare la risposta nell’analitica esistenziale di Heidegger. Gli esistenziali heideggeriani avrebbero una portata universale e offrirebbero le strutture e i concetti più appropriati per la comprensione dell’esistenza umana rivelata nel messaggio del Nuovo Testamento.
Gadamer sottolinea ugualmente la distanza storica tra il testo e il suo interprete. Egli riprende e sviluppa la teoria del circolo ermeneutico. Le anticipazioni e i preconcetti che segnano la nostra comprensione provengono dalla tradizione che ci sostiene. Questo consiste in un insieme di dati storici e culturali, che costituiscono il nostro contesto vitale, il nostro orizzonte di comprensione. L’interprete ha il dovere di entrare in dialogo con la realtà di cui si parla nel testo. La comprensione si opera nella fusione degli orizzonti differenti del testo e del suo lettore (Horizon¬tverschmelzung) ed è possibile solo se c’è un’appartenenza (Zugehörigkeit) cioè un’affinità fondamentale tra l’interprete e il suo oggetto. L’ermeneutica è un processo dialettico: la comprensione di un testo sempre una comprensione più ampia di sé.
Del pensiero ermeneutico di Ricoeur, bisogna innanzi tutto sottolineare il risalto dato alla funzione di distanziamento come preliminare necessario a una giusta appropriazione del testo. Una prima distanza esiste tra il testo e il suo autore, poiché, una volta prodotto, il testo acquista una certa autonomia in rapporto al suo autore; inizia un percorso di significato. Un’altra distanza esiste tra il testo e i suoi lettori successivi; questi devono rispettare il mondo del testo nella sua alterità. I metodi di analisi letteraria e storica sono perciò necessari all’interpretazione. Tuttavia il significato di un testo può essere dato pienamente solo se viene attualizzato nel vissuto dei lettori che se ne appropriano. A partire dalla loro situazione, questi sono chiamati a far emergere significati nuovi, in linea con il senso fondamentale indicato dal testo. La conoscenza biblica non deve fermarsi al linguaggio, ma cerca di raggiungere la realtà di cui parla il testo. Il linguaggio religioso della Bibbia è un linguaggio che “fa pensare”, un linguaggio di cui non si cessa di scoprire le ricchezze di significato, un linguaggio che ha di mira una realtà trascendente e che, nello stesso tempo, rende la persona umana conscia della dimensione profonda del suo essere.
2. Utilità per l’esegesi
Che dire di queste teorie contemporanee dell’interpretazione dei testi? La Bibbia è Parola di Dio per tutte le epoche che si succedono nella storia. Di conseguenza non si può ignorare una teoria ermeneutica che permette di incorporare i metodi di critica letteraria e storica in un modello di interpretazione più ampia. Si tratta di superare la distanza tra il tempo degli autori e dei primi destinatari dei testi biblici e la nostra epoca contemporanea, in modo da attualizzare correttamente il messaggio dei testi per nutrire la vita di fede dei cristiani. Ogni esegesi dei testi è chiamata a essere completata da un’“ermeneutica”, nel senso recente del termine.
La necessità di un’ermeneutica, cioè di un’interpretazione nell’oggi del nostro mondo, trova un fondamento nella Bibbia stessa e nella storia della sua interpreta¬zione. L’insieme degli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento si presenta come il prodotto di un lungo processo di reinterpretazione degli eventi fondatori, in stretto legame con la vita delle comunità dei credenti. Nella tradizione ecclesiale, i primi interpreti della Scrittura, i padri della Chiesa, pensavano che la loro esegesi dei testi fosse completa solo se ne facevano emergere il significato per i cristiani del loro tempo nella loro situazione. Si è fedeli all’intenzionalità dei testi biblici solo nella misura in cui si cerca di ritrovare, nel cuore della loro formulazione, la realtà di fede che essi esprimono e se si collega questa realtà con l’esperienza credente del nostro mondo.
L’ermeneutica contemporanea è una sana reazione al positivismo storico e alla tentazione di applicare allo studio della Bibbia i criteri di oggettività utilizzati nelle scienze naturali. Da una parte, gli eventi riportati nella Bibbia sono eventi interpretati; dall’altra, ogni esegesi dei racconti di questi eventi implica necessariamente la soggettività dell’esegeta. La giusta conoscenza del testo biblico è accessibile solo a colui che ha un’affinità vissuta con ciò di cui parla il testo. La domanda che si pone a ogni interprete è la seguente: quale teoria ermeneutica rende possibile una corretta comprensione della realtà profonda di cui parla la Scrittura e una sua espressione che abbia significato per l’uomo di oggi?
Bisogna riconoscere, in effetti, che alcune teorie ermeneutiche sono inadeguate per interpretare la Scrittura. Per esempio, l’interpretazione esistenziale di Bultmann porta a racchiudere il messaggio cristiano nei limiti di una filosofia particolare. Inoltre, in virtù dei presupposti che sono alla base di questa ermeneutica, il messaggio religioso della Bibbia è svuotato in gran parte della sua realtà oggettiva (a causa di una eccessiva “demitizzazione”) e tende a subordinarsi a un messaggio antropologi¬co. La filosofia diventa norma di interpretazione piuttosto che strumento di comprensione di ciò che è l’oggetto centrale di ogni interpretazione: la persona di Gesù Cristo e gli eventi di salvezza compiuti nella nostra storia. Un’autentica interpretazione della Scrittura è quindi prima di tutto accoglienza di un significato dato in alcuni eventi e, in modo eminente, nella persona di Gesù Cristo.
Tale significato è espresso nei testi. Per evitare il soggettivismo, è perciò necessario che una buona attualizzazione sia fondata sullo studio del testo e i presupposti di lettura siano costantemente verificati sul testo.
L’ermeneutica biblica, anche se fa parte dell’ermeneutica generale di ogni testo letterario e storico, è al contempo un caso unico di questa ermeneutica. I suoi caratteri specifici le vengono dal suo oggetto. Gli eventi di salvezza e il loro compimento nella persona di Gesù Cristo danno senso a tutta la storia umana. Le interpretazioni storiche nuove potranno essere solo uno svelamento o una esposizione di queste ricchezze di significato. Il racconto biblico di questi eventi non può essere compreso pienamente dalla sola ragione. La sua interpretazione dev’essere guidata da alcuni presupposti particolari, quali la fede vissuta in comunità ecclesiale e la luce dello Spirito. Con la crescita della vita nello Spirito cresce anche, nel lettore, la comprensione delle realtà di cui parla il testo biblico.
B. Sensi della Scrittura ispirata
Il contributo moderno delle ermeneutiche filosofiche e gli sviluppi recenti dello studio scientifico delle letterature permettono all’esegesi biblica di approfondire la comprensione del suo compito, la cui complessità è diventata più evidente. L’esegesi antica, che non poteva evidentemente prendere in considerazione le esigenze scientifiche moderne, attribuiva a ogni testo della Scrittura diversi livelli di significato. La distinzione più corrente era quella tra senso letterale e senso spirituale. L’esegesi medievale distinse nel senso spirituale tre aspetti differenti, in rapporto, rispettivamente, con la verità rivelata, il comportamento da seguire e il compimento finale. Da lì il celebre distico di Agostino di Danimarca (XIII sec.): «Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quid speres anagogia».
Come reazione contro questa molteplicità di significati, l’esegesi storico-critica ha adottato, più o meno apertamente, la tesi dell’unicità di significato, secondo la quale un testo non può avere simultaneamente diversi significati. Tutto lo sforzo dell’esegesi storico-critica è quello di definire il significato preciso di un dato testo biblico nelle circostanze in cui fu composto. Ma questa tesi si scontra ora con le conclusioni delle scienze del linguaggio e delle ermeneutiche filosofiche, che affermano la polisemia dei testi scritti.
Il problema non è semplice e non si pone allo stesso modo per tutti i generi di testi: racconti storici, parabole, oracoli, leggi, proverbi, preghiere, inni, ecc. È tuttavia possibile presentare alcun principi, sempre tenendo conto della diversità delle opinioni.
1. Senso letterale
Non è solo legittimo, ma indispensabile cercare di definire il significato preciso dei testi come sono stati composti dai loro autori significato che è chiamato “letterale”. Già san Tommaso d’Aquino ne affermava l’importanza fondamentale (S. Th., I, q. 1, a. 10, ad 1).
Il senso letterale non è da confondere col senso “letteralistico”, sul quale si basano i fondamentalisti. Non è sufficiente tradurre il testo parola per parola per ottenere il suo senso letterale. È necessario comprenderlo secondo le convenzioni letterarie del tempo. Quando un testo è metaforico, il suo senso letterale non è quello che risulta dal significato immediato delle parole (per esempio: «Abbiate la cintura ai fianchi», Lc 12, 35), ma quello che corrisponde all’uso metaforico dei termini («Abbiate un atteggiamento di disponibilità»). Quando si tratta di un racconto, il senso letterale non comporta necessariamente l’affermazione che i fatti raccontati siano effettivamente accaduti; infatti un racconto può non appartenere al genere storico, ma essere frutto di immaginazione.
Il senso letterale della Scrittura è quello espresso direttamente dagli autori umani ispirati. Essendo frutto dell’ispirazione, questo senso è voluto anche da Dio, autore principale. Lo si discerne grazie a un’analisi precisa del testo, situato nel suo contesto letterario e storico. Il compito principale dell’esegesi è proprio quello di condurre a questa analisi, utilizzando tutte le possibilità delle ricerche letterarie e storiche, al fine di definire il senso, letterale dei testi biblici con la maggiore esattezza possibile (Divino afflante Spiritu, EB 550). Per tale scopo, lo studio dei generi letterari antichi è particolarmente necessario (ibid. 560).
Il senso letterale di un testo è unico? In generale, sì; ma non si tratta di un principio assoluto, e questo per due ragioni. Da una parte, un autore umano può voler riferirsi nello stesso tempo a più livelli di realtà. Il caso è corrente in poesia. L’ispirazione biblica non disdegna questa possibilità della psicologia e del linguaggio umani; il quarto vangelo ne fornisce numerosi esempi. D’altra parte, anche quando un’espressione umana sembra avere un solo significato, l’ispirazione divina può guidare l’espressione in modo da produrre un’ambivalenza. Tale è il caso dell’espressione di Caifa in Gv 11, 50. Essa esprime al tempo stesso un calcolo politico immorale e una rivelazione divina. Questi due aspetti appartengono l’uno e l’altro al senso letterale, perché sono entrambi messi in evidenza dal contesto. Anche se estremo, questo caso è significativo e deve mettere in guardia contro una concezione troppo ristretta del senso letterale dei testi ispirati.
Conviene, in particolare, essere attenti all’aspetto dinamico di molti testi. Il senso dei salmi regali, per esempio, non dev’essere limitato strettamente alle circostanze storiche della loro produzione Parlando del re, il salmista evocava al tempo stesso un’istituzione reale e una visione ideale della monarchia, conforme al disegno di Dio, in modo che il suo testo andava al di là dell’istituzione monarchica come si era manifestata nella storia. L’esegesi storico-critica ha avuto troppo spesso la tendenza a limitare il senso de testi, collegandolo esclusivamente a precise circostanze storiche. Essa deve piuttosto cercare di precisare la direzione di pensiero espressa dal testo, direzione che, invece di invitare l’esegeta a limitare il senso, gli suggerisce al contrario di percepirne i prolungamenti più o meno prevedibili.
Una corrente dell’ermeneutica moderna ha sottolineato la differenza di situazione che colpisce la parola umana quando viene messa per iscritto. Un testo scritto ha la capacità di essere collocato in nuove circostanze, che lo illuminano in modi diversi, aggiungendo al suo significato nuove determinazioni. Questa capacità del testo scritto è effettiva specialmente nel caso dei testi biblici, riconosciuti come Parola di Dio. In effetti, ciò che ha spinto la comunità credente a conservarli è stata la convinzione che avrebbero continuato a essere portatori di luce e di vita per le generazioni future. Il senso letterale è, fin dall’inizio, aperto a sviluppi ulteriori, che si producono grazie a “riletture” in contesti nuovi.
Non ne consegue che è possibile attribuire a un testo biblico qualsiasi significato, interpretandolo in modo soggettivo. Al contrario, è necessario respingere come inautentica ogni interpretazione che fosse eterogenea rispetto al senso espresso dagli autori umani nel loro testo scritto. Ammettere dei significati eterogenei equivarrebbe a togliere al messaggio biblico le sue radici, che sono la Parola di Dio comunicata storicamente, e ad aprire la porta a un soggettivismo incontrollabile.
2. Senso spirituale
Non è il caso, tuttavia, di prendere “eterogeneo” nel senso stretto, contrario a ogni possibilità di compimento superiore. L’evento pasquale, morte e risurrezione di Gesù, ha fissato un contesto storico radicalmente nuovo, che illumina in modo nuovo i testi antichi e fa subire loro un cambiamento di significato. In particolare, alcuni testi che, nelle circostanze antiche, dovevano essere considerati come delle iperbole (per es., l’oracolo in cui Dio, parlando di un figlio di Davide, prometteva di rendere stabile per sempre il suo trono: 2Sam 7, 12-13; 1Cr 17, 11-14), questi testi devono ora essere presi alla lettera, perché «il Cristo, essendo risorto dai morti, non muore più» (Rm 6, 9). Gli esegeti che hanno una nozione limitata, “storicistica”, del senso letterale riterranno che ci sia qui eterogeneità. Quelli che sono aperti all’aspetto dinamico dei testi riconosceranno una continuità profonda e nello stesso tempo il passaggio a un livello differente: il Cristo regna per sempre, ma non sul trono terreno di Davide (cf. anche Sal 2, 7-8; 110, 1.4).
In casi di questo genere si parla di “senso spirituale”. Come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. È perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito.
Dalla definizione data si possono trarre parecchie precisazioni utili sul rapporto tra senso spirituale e senso letterale. Contrariamente a un’opinione corrente, non c’è necessariamente distinzione tra questi due sensi. Quando un testo biblico si riferisce direttamente al mistero pasquale di Cristo o alla vita nuova che ne risulta, il suo senso letterale è un senso spirituale. Ed è il caso abituale nel Nuovo Testamento. Ne consegue che l’esegesi cristiana parla il più delle volte di senso spirituale a proposito dell’Antico Testamento. Ma già nell’Antico Testamento i testi hanno in molti casi come senso letterale un senso religioso e spirituale. La fede cristiana vi riconosce un rapporto anticipato con la vita nuova apportata da Cristo.
Quando c’è una distinzione, il senso spirituale non può mai essere privato dei rapporti con il senso letterale che ne rimane la base indispensabile; diversamente, non si potrebbe parlare di “compimento” della Scrittura. In effetti, perché si possa parlare di compimento è essenziale un rapporto di continuità e di conformità. Ma è anche necessario che ci sia un passaggio a un livello superiore di realtà.
Il senso spirituale non è da confondere con le interpretazioni soggettive dettate dall’immaginazione o dalla speculazione intellettuale. Esso scaturisce dalla relazione del testo con certi dati reali che non gli sono estranei, l’evento pasquale e la sua inesauribile fecondità, che costituiscono il vertice dell’intervento divino nella storia di Israele, a vantaggio di tutta l’umanità.
La lettura spirituale, fatta comunitariamente o individualmente, scopre un senso spirituale autentico solo se si mantiene in queste prospettive. Vengono allora messi in relazione tre livelli di realtà: il testo biblico, il mistero pasquale e le circostanze presenti di vita nello Spirito.
L’esegesi antica, persuasa che il mistero del Cristo costituisca la chiave interpretativa di tutte le Scritture, si è sforzata di trovare un senso spirituale nei più piccoli dettagli dei testi biblici, per esempio, in ogni prescrizione delle leggi rituali, servendosi di metodi rabbinici o ispirandosi all’allegorismo ellenistico. L’esegesi moderna non può accordare un vero valore d’interpretazione a questo genere di tentativi, qualunque possa essere stata, nel passato, la loro utilità pastorale (cf. Divino afflante Spiritu, EB 553).
Uno degli aspetti possibili del senso spirituale è quello tipologico, di cui si dice abitualmente che non appartiene alla Scrittura stessa, ma alle realtà espresse dalla Scrittura: Adamo figura del Cristo (cf. Rm 5, 14), il diluvio figura del battesimo (1 Pt 3, 20-21), ecc. In effetti, il rapporto di tipologia è ordinariamente basato sul modo in cui la Scrittura descrive la realtà antica (cf. la voce di Abele: Gn 4, 10; Eb 11, 4; 12, 24) e non semplicemente su questa realtà. Di conseguenza, si tratta allora proprio di un senso della Scrittura.
3. Senso pieno
Relativamente recente, l’appellativo “senso pieno” (sensus plenior) suscita delle discussioni. Si definisce il senso pieno come un senso più profondo del testo, voluto da Dio, ma non chiaramente espresso dall’autore umano. Se ne scopre l’esistenza in un test biblico quando viene studiato alla luce di altri testi biblici che lo utilizzano o nel suo rapporto con lo sviluppo interno della rivelazione.
Si tratta allora o del significato che un autore biblico attribuisce a un testo biblico a lui anteriore, quando lo riprende in un contesto che gli conferisce un senso letterale nuovo, o del significato che una tradizione dottrinale autentica o una definizione conciliare da a un testo della Bibbia. Per esempio, il contesto di Mt 1, 23 dà il senso pieno all’oracolo di Is 7, 14 sulla almah che concepirà un figlio, utilizzando la traduzione dei Settanta (parthenos): «La vergine concepirà». L’insegnamento patristico e conciliare sulla Trinità esprime il senso pieno dell’insegnamento del Nuovo Testamento su Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito. La definizione del peccato originale da parte del Concilio di Trento fornisce il senso pieno, dell’insegnamento di Paolo in Rm 5, 12-21 circa le conseguenze del peccato di Adamo per l’umanità. Ma quando manca un controllo di questo genere, da parte di un testo biblico esplicito o di una tradizione dottrinale autentica, il ricorso a un preteso senso pieno potrebbe portare a interpretazioni soggettive prive di ogni validità.
In definitiva, si potrebbe considerare il “senso pieno” come un altro modo di designare il senso spirituale di un testo biblico, nel caso in cui il senso spirituale si distingua dal senso letterale. Suo fondamento è il fatto che lo Spirito Santo, autore principale della Bibbia, può guidare l’autore umano nella scelta delle sue espressioni in modo tale che queste esprimano una verità di cui egli non percepisce tutta la profondità. Questa viene rivelata in modo più completo nel corso del tempo, grazie, da una parte, a ulteriori realizzazioni divine che manifestano meglio la portata dei testi, e grazie anche, d’altra parte, all’inserimento dei testi nel canone delle Scritture. In questo modo viene creato un nuovo contesto, che fa apparire delle potenzialità di significato che il contesto primitivo lasciava nell’ombra.
III
DIMENSIONI CARATTERISTICHE DELL’INTERPRETAZIONE CATTOLICA
L’esegesi cattolica non cerca di distinguersi usando un metodo scientifico particolare. Essa riconosce che uno degli aspetti dei testi biblici è di essere opera di autori umani, che si sono serviti delle proprie capacità e degli strumenti che il loro tempo e il loro ambiente mettevano a loro disposizione. Di conseguenza, utilizza senza secondo fine, tutti i metodi e approcci scientifici che permettono di meglio comprendere il significato dei testi nel loro contesto linguistico, letterario, socio-culturale, religioso e storico, illuminandoli anche con lo studio delle loro fonti e tenendo conto della personalità di ogni autore (cf. Divino afflante Spiritu, EB 557). In tal modo essa contribuisce attivamente allo sviluppo dei metodi e al progresso della ricerca.
Ciò che la caratterizza è il suo situarsi consapevolmente nella tradizione vivente della Chiesa, la cui prima preoccupazione è la fedeltà alla rivelazione attestata dalla Bibbia. Le ermeneutiche moderne hanno messo in luce, come abbiamo ricordato, l’impossibilità di interpretare un testo senza partire da una “precomprensione” di un genere o dell’altro. L’esegesi cattolica si avvicina agli scritti biblici con una precomprensione che unisce strettamente la moderna cultura scientifica e la tradizione religiosa proveniente da Israele e dalla comunità cristiana primitiva. La sua interpretazione si trova così in continuità con il dinamismo ermeneutico che si manifesta all’interno stesso della Bibbia e che si prolunga poi nella vita della Chiesa. Corrisponde all’esigenza di affinità vitale tra l’interprete e il suo oggetto, affinità che costituisce una delle condizioni di possibilità del lavoro esegetico.
Ogni precomprensione comporta tuttavia i suoi pericoli. Nel caso dell’esegesi cattolica, esiste il rischio di attribuire ad alcuni testi biblici un significato che non esprimono, ma che è frutto di uno sviluppo ulteriore della tradizione. L’esegeta deve guardarsi da questo pericolo.
A. Interpretazione nella Tradizione biblica
I testi della Bibbia sono l’espressione di tradizioni religiose che esistevano prima di essi. Il modo in cui si collegano a queste tradizioni è differente secondo i casi, dato che la creatività degli autori si manifesta in gradi diversi. Nel corso del tempo tradizioni molteplici sono confluite per formare una grande tradizione comune. La Bibbia è una manifestazione privilegiata di questo processo, che essa ha contribuito a realizzare e di cui continua a essere regolatrice.
«L’interpretazione nella Tradizione biblica» comporta una grande varietà di aspetti. Con questa espressione si può intendere il modo in cui la Bibbia interpreta le esperienze umane fondamentali o gli avvenimenti particolari della storia di Israele, o ancora il modo in cui i testi biblici utilizzano varie fonti, scritte od orali, alcune delle quali possono provenire anche da altre religioni o culture, interpretandole. Ma essendo il nostro soggetto l’interpretazione della Bibbia, non vogliamo trattare qui queste grandi problematiche, ma semplicemente proporre alcune osservazioni sull’interpretazione dei testi biblici all’interno della Bibbia stessa.
1. Riletture
Ciò che contribuisce a dare alla Bibbia la sua unità interna, unica nel suo genere, è il fatto che gli scritti biblici posteriori si basano spesso sugli scritti anteriori. Fanno allusione ad essi, ne propongono delle “riletture” che sviluppano nuovi aspetti di significato, talvolta molto diversi dal senso primitivo, o ancora vi si riferiscono esplicitamente, o per approfondirne il significato o per affermarne il compimento.
Così l’eredità di una terra, promessa da Dio ad Abramo per la sua discendenza (Gn 15, 7.18), diventa l’entrata nel santuario di Dio (Es 15, 17), una partecipazione al riposo di Dio (Sal 132, 7-8) riservato ai veri credenti (Sal 95, 8-11; Eb 3, 7-4, 11) e, infine, l’ingresso nel santuario celeste (Eb 6, 12.18-20), «eredità eterna» (Eb 9, 15).
L’oracolo del profeta Natan, che promette a Davide una «casa», cioè una successione dinastica, «stabile per sempre» (2San 7, 12-16), viene ricordato a più riprese (2Sam 23, 5; 1Re 2, 4; 3, 6; 1Cr 17, 11-14), specialmente nei tempi difficili (Sal 89, 20-38), non senza variazioni significative, ed è prolungato da altri oracoli (Sal 2, 7-8; 110, 1.4; Am 9, 11; Is 7, 13-14; Ger 23, 5-6; ecc.), alcuni dei quali annunciano il ritorno del regno di Davide stesso (Os 3, 5; Ger 30, 9; Ez 34, 24; 37, 24-25; cf. Mc 11, 10). Il regno promesso diventa universale (Sal 2, 8; Dn 2, 25.44; 7, 14; cf. Mt 28, 18). Realizza in pienezza la vocazione dell’uomo (Gn 1, 28; Sal 8, 6-9; Sap 9, 2-3; 10, 2).
L’oracolo di Geremia sui settant’anni di castigo meritati da Gerusalemme e Giuda (Ger 25, 11-12; 29, 10) è ricordato in 2Cr 25, 20-23, che ne verifica la realizzazione, ma riceve un’ulteriore elaborazione, dopo molto tempo, dall’autore di Daniele, nella convinzione che questa parola di Dio custodisca ancora un significato nascosto, che deve gettare la sua luce sulla situazione presente (Dn 9, 24-27).
L’affermazione fondamentale della giustizia retributiva di Dio, che ricompensa i buoni e punisce i malvagi (Sal 1, 1-6; 112, 1-10; Lc 26, 3-33; ecc.), si scontra con l’esperienza immediata che spesso non corrisponde ad essa. La Scrittura lascia allora che si esprima con vigore la protesta e la contestazione (Sal 44; Gb 10, 1-7; 13, 3-28; 23-24) e approfondisce progressivamente il mistero (Sal 37; Gb 38-42; Is 53; Sap 3-5).
2. Rapporti tra Antico Testamento e Nuovo Testamento
I rapporti intertestuali acquistano una densità estrema negli scritti del Nuovo Testamento, pieni di allusioni all’Antico Testamento e di citazioni esplicite. Gli autori del Nuovo Testamento riconoscono all’Antico Testamento valore di rivelazione divina. Essi proclamano che questa rivelazione ha trovato il suo compimento nella vita, nell’insegnamento e soprattutto nella morte e risurrezione di Gesù, fonte di perdono e di vita eterna. «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e apparve…» (1Cor 15, 3-5): questo è il nucleo centrale della predicazione apostolica (1Cor 15, 11).
Come sempre, tra le Scritture e gli eventi che le compiono, i rapporti non sono di semplice corrispondenza materiale, ma di reciproca illuminazione e di progresso dialettico: ci si accorge al tempo stesso che le Scritture rivelano il senso degli eventi e che gli eventi rivelano il senso delle Scritture, obbligano cioè a rinunciare a certi aspetti dell’interpretazione ricevuta, per adottare un’interpretazione nuova.
Fin dal tempo del suo ministero pubblico, Gesù aveva preso una posizione personale originale, diversa dall’interpretazione ricevuta al suo tempo, che era quella «degli scribi e dei farisei» (Mt 5, 20). Numerose ne sono le testimonianze: le antitesi del discorso della montagna (Mt 5, 21-48), la libertà sovrana di Gesù nell’osservanza del sabato (Mc 2, 27-28 e par.), il suo modo di relativizzare i precetti di purezza rituale (Mc 7, 1-23 e par.), la sua esigenza radicale, al contrario, in altri campi (Mt 10, 2-12; 10, 17-27 e par.) e soprattutto il suo atteggiamento di accoglienza verso «i pubblicani e i peccatori» (Mc 2, 15-17 e par.). Non si trattava da parte sua di capriccio da contestatore, ma, al contrario, di fedeltà più profonda alla volontà di Dio espressa nelle Scritture (cf. Mt 5, 17; 9, 13; Mc 7, 8-13 e par.; 10, 5-9 e par.).
La morte e la risurrezione di Gesù spinsero all’estremo l’evoluzione cominciata, provocando, su certi punti, una completa rottura e nello stesso tempo un’apertura inattesa. La morte del Messia, «re dei Giudei» (Mc 15, 26 e par.), provocò una trasformazione dell’interpretazione terrena dei salmi regali e degli oracoli messianici. La sua risurrezione e la sua glorificazione celeste come Figlio di Dio diedero a questi stessi testi una pienezza di significato prima inconcepibile. Alcune espressioni che sembravano iperboliche dovevano d’ora in poi essere prese alla lettera. Apparivano come preparate da Dio per esprimere la gloria del Cristo Gesù, perché Gesù è veramente «Signore» (Sal 110, 1) nel senso più forte del termine (At 2, 36; Fil 2, 10-11; Eb 1, 10-12); è il Figlio di Dio (Sal 2, 7; Mc 14, 62; Rm 1, 3-4), Dio con Dio (Sal 45, 7; Eb 1, 8; Gv 1, 1; 20, 28); «il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33; cf. 1Cr 17, 11-14; Sal 45, 7; Eb 1, 8); egli è nello stesso tempo «sacerdote in eterno» (Sal 110, 2; Eb 5, 6-10; 7, 23-24).
Alla luce degli eventi della Pasqua gli autori del Nuovo Testamento rilessero l’Antico Testamento. Lo Spirito Santo inviato dal Cristo glorificato (cf. Gv 15, 26; 16, 7) ne fece scoprire loro il senso spirituale. Essi furono così portati ad affermare più che mai il valore profetico dell’Antico Testamento, ma anche a relativizzare fortemente il suo valore di istituzione salvifica. Questo secondo punto di vista, che appare già nei vangeli (cf. Mt 11, 11-13 e par.; 12, 41-42 e par.; Gv 4, 12-14; 5, 37; 6, 32), si manifesta con tutta la sua forza in alcune lettere paoline e nella lettera agli Ebrei. Paolo e l’autore della lettera agli Ebrei dimostrano che la Torah, in quanto rivelazione, annuncia essa stessa la sua fine come sistema legislativo (cf. Gal 2, 15-5, 1; Rm 3, 20-21; 6, 14; Eb 7, 11-19; 10, 8-9). Ne consegue che i pagani che aderiscono alla fede in Cristo non devono essere sottomessi a tutti i precetti della legislazione biblica, ormai ridotta, nel suo insieme, allo statuto di istituzione legale di un popolo particolare, ma devono nutrirsi all’Antico Testamento come Parola di Dio, che permette loro di scoprire meglio tutte le dimensioni del mistero pasquale di cui essi vivono (cf. Lc 24, 25-27.44-45; Rm 1, 1-2).
All’interno della Bibbia cristiana, i rapporti tra Nuovo Testamento e Antico Testamento non sono quindi privi di complessità. Quando si tratta dell’uso di testi particolari, gli autori del Nuovo Testamento fanno naturalmente ricorso alle conoscenze e ai procedimenti di interpretazione del loro tempo. Esigere da essi che si conformino ai metodi scientifici moderni sarebbe un anacronismo L’esegeta deve piuttosto acquisire la conoscenza dei procedimenti antichi per poter interpretare correttamente l’uso che ne viene fatto. Rimane vero, d’altra parte, che egli non deve accordare un valore assoluto a ciò che è conoscenza umana limitata.
Infine conviene aggiungere che all’interno del Nuovo Testamento, come già all’interno dell’Antico Testamento, si scopre la giustapposizione di prospettive differenti e talvolta in tensione le une con le altre, per esempio sulla situazione di Gesù (Gv 8, 29; 16, 32 e Mc 15, 34) o sul valore della legge mosaica (Mt 5, 17-19 e Rm 6, 14) o sulla necessità delle opere per essere giustificati (Gc 2, 24 e Rm 3, 28; Ef 2, 8-9). Una delle caratteristiche della Bibbia è proprio l’assenza di spirito di sistematizzazione e la presenza al contrario, di tensioni dinamiche. La Bibbia ha accolto parecchi modi di interpretare gli stessi avvenimenti o di considerare gli stessi problemi, invitando così a rifiutare il semplicismo e la ristrettezza di spirito.
3. Alcune conclusioni
Da quanto abbiamo detto si può concludere che la Bibbia contiene numerose indicazioni e suggerimenti sull’arte di interpretarla. La Bibbia è infatti, fin dall’inizio, essa stessa interpretazione. I suoi testi sono stati riconosciuti dalle comunità dell’antica Alleanza e del tempo apostolico come valida espressione della loro fede. È secondo l’interpretazione delle comunità e in relazione con essa che questi testi sono stati riconosciuti come Sacra Scrittura (così, per es., il Cantico dei Cantici fu riconosciuto come Scrittura Sacra in quanto applicato alla relazione tra Dio e Israele). Nel corso della formazione della Bibbia, gli scritti che la compongono sono stati, in molti casi, rielaborati e reinterpretati, per rispondere a situazioni nuove, prima sconosciute.
Il modo di interpretare i testi che si manifesta nella Sacra Scrittura suggerisce le seguenti osservazioni:
Dato che la Sacra Scrittura è venuta alla luce sulla base di un consenso di comunità credenti che hanno riconosciuto nel suo testo l’espressione della fede rivelata, la sua stessa interpretazione dev’essere, per la fede viva delle comunità ecclesiali, fonte di consenso sui punti essenziali.
Dato che l’espressione della fede, come la si trovava nella Sacra Scrittura riconosciuta di tutti, dovette essere continuamente rinnovata per far fronte a situazioni nuove, il che spiega le “riletture” di molti testi biblici, l’interpretazione della Bibbia deve ugualmente avere un aspetto di creatività e affrontare le questioni nuove, per rispondervi partendo dalla Bibbia.
Dato che i testi della Scrittura hanno talvolta rapporti di tensione tra loro, l’interpretazione deve necessariamente essere pluralistica. Nessuna interpretazione particolare può esaurire il significato dell’insieme, che è una sinfonia a più voci. L’interpretazione di un testo particolare deve quindi evitare di essere esclusivista.
La Sacra Scrittura è in dialogo con le comunità credenti: è scaturita dalle loro tradizioni di fede. I suoi testi si sono sviluppati in rapporto con queste tradizioni e hanno contribuito, reciprocamente, al loro sviluppo. Ne consegue che l’interpretazione della Scrittura si fa in seno alla Chiesa nella sua pluralità e nella sua unità e nella sua tradizione di fede.
Le tradizioni di fede formavano l’ambiente vitale in cui si è inserita l’attività letteraria degli autori della Sacra Scrittura. Questo inserimento comprendeva anche la partecipazione alla vita liturgica e all’attività esterna delle comunità, al loro mondo spirituale, alla loro cultura e alle peripezie del loro destino storico. L’interpretazione della Sacra Scrittura esige perciò, in modo simile, la partecipazio¬ne degli esegeti a tutta la vita e a tutta la fede della comunità credente del loro tempo.
Il dialogo con la Sacra Scrittura nel suo insieme, e quindi con la comprensione della fede propria delle epoche anteriori, dev’essere necessariamente accompagnato da un dialogo con la generazione presente. Questo comporta l’allacciamento di un rapporto di continuità, ma anche la constatazione di differenze. Ne consegue che l’interpreta¬zione della Scrittura comporta un lavoro di verifica e di selezione; essa rimane in continuità con le tradizioni esegetiche anteriori, di cui conserva e fa propri molti elementi, ma su altri punti se ne stacca, per poter progredire.
B. Interpretazione nella Tradizione della Chiesa
La Chiesa, popolo di Dio, è cosciente di essere aiutata dallo Spirito Santo nella sua comprensione e interpretazione della Scrittura. I primi discepoli di Gesù sapevano di non essere in grado di comprendere immediatamente in tutti i suoi aspetti la pienezza che avevano ricevuto. Essi facevano l’esperienza, nella loro vita di comunità condotta con perseveranza, di un approfondimento e di una progressiva esplicitazione della rivelazione ricevuta. Riconoscevano in questo l’influenza e l’azione dello «Spirito di verità», che il Cristo aveva loro promesso per guidarli verso la pienezza della verità (Gv 16, 12-13). È così anche che la Chiesa continua il suo cammino, sostenuta dalla promessa del Cristo: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14, 26).
1. Formazione del Canone
Guidata dallo Spirito Santo e alla luce della Tradizione vivente che ha ricevuto, la Chiesa ha identificato gli scritti che devono essere considerati come Sacra Scrittura nel senso che, «scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» (Dei Verbum, 11) e contengono «la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre lettere» (ibid.).
La fissazione di un “canone” delle Sacre Scritture fu la conclusione di un lungo processo. Le comunità dell’antica Alleanza (da gruppi particolari, come i circoli profetici o l’ambiente sacerdotale, fino all’insieme del popolo) riconobbero in un certo numero di testi la Parola di Dio che suscitava la loro fede e le guidava nella vita; essi ricevettero questi testi come un patrimonio da custodire e da trasmettere. Così questi testi cessavano di essere semplicemente l’espressione dell’ispirazione di autori particolari, diventando proprietà comune del popolo di Dio. Il Nuovo Testamento attesta la sua venerazione per questi testi sacri, che riceve come una preziosa eredità trasmessa dal popolo ebraico. Li considera come «Sacre Scritture» (Rm 1, 2), «ispirate» dallo Spirito di Dio (2 Tm 3, 16; cf. 2Pt 1, 20-21), che «non possono essere abolite» (Gv 10, 35).
A questi testi che formano l’“Antico Testamento” (cf. 2Cor 3, 14), la Chiesa ha unito strettamente gli scritti in cui ha riconosciuto, da una parte, la testimonianza autentica, proveniente dagli apostoli (cf. Lc 1, 2; 1 Gv 1, 1-3) e garantita dallo Spirito Santo (cf. 1Pt 1, 12), su «tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio» (At 1, 1) e, dall’altra, le istruzioni date dagli stessi apostoli e da altri discepoli per costituire la comunità dei credenti. Questa duplice serie di scritti ha ricevuto, in seguito, il nome di “Nuovo Testamento”.
In questo processo hanno influito numerosi fattori: la certezza che Gesù, e gli apostoli con lui, avevano riconosciuto l’Antico Testamento come Scrittura ispirata e che il suo mistero pasquale ne costituiva il compimento; la convinzione che gli scritti del Nuovo Testamento provengono in modo autentico dalla predicazione apostolica (il che non implica che siano stati composti tutti dagli apostoli stessi); la constatazione del loro uso nella liturgia cristiana e della loro conformità con la regola della fede; l’esperienza, infine, del loro accordo con la vita ecclesiale delle comunità e della loro capacità di nutrire questa vita.
Fissando il canone delle Scritture, la Chiesa fissava anche e de finiva la sua stessa identità, cosicché le Scritture sono ormai uno specchio nel quale la Chiesa può costantemente riscoprire la su identità e verificare, secolo dopo secolo, il modo in cui essa risponde continuamente al vangelo e dispone se stessa a esserne lo strumento di trasmissione (cf. Dei Verbum, 7). Questo conferisce agli scritti canonici un valore salvifico e teologico completamente diverso da quello di altri testi antichi. Se questi ultimi possono gettare molta luce sulle origini della fede, non possono mai sostituirsi all’autorità degli scritti considerati canonici e quindi fondamentali per la comprensione della fede cristiana.
2. Esegesi patristica
Fin dai primi tempi è stata forte la convinzione che lo stesso Spirito Santo, che ha spinto gli autori del Nuovo Testamento a mettere per iscritto il messaggio della salvezza (cf. Dei Verbum 7; 18),offre ugualmente alla Chiesa un’assistenza continua per l’interpretazione dei suoi scritti ispirati (cf. Ireneo, Adv. Haer. 3.24.1; cf. 3.1.1; 4.33.8; Origene, De Princ., 2.7.2; Tertulliano De Praescr., 22).
I padri della Chiesa, che hanno avuto un ruolo particolare ne processo di formazione del canone, hanno similmente un ruolo fondatore in rapporto alla tradizione vivente che accompagna senza interruzione e guida la lettura e l’interpretazione che la Chiesa fa delle Scritture (cf. Providentissimus, EB 110-111; Divino afflante Spiritu, 28-30, EB 554; Dei Verbum, 23; PCB, Instr. de Evang histor., 1). Nella corrente della grande tradizione, il contributo particolare dell’esegesi patristica consiste in questo: essa ha tratto dal l’insieme della Scrittura gli orientamenti di base che hanno dato forma alla tradizione dottrinale della Chiesa e ha fornito un ricco insegnamento teologico per l’istruzione e il nutrimento spirituali dei fedeli.
Presso i padri della Chiesa, la lettura della Scrittura e la sua interpretazione occupano un posto considerevole. Ne sono una testimonianza innanzi tutto le opere direttamente legate alla comprensione delle Scritture, cioè le omelie e i commentari, ma anche le opere di controversia e di teologia, in cui il riferimento alla Scrittura serve da argomento principale.
Il luogo abituale della lettura biblica è la chiesa, durante la liturgia. Questa è la ragione per cui l’interpretazione proposta è sempre di natura teologica, pastorale e teologale, a servizio delle comunità e dei singoli credenti.
I padri considerano la Bibbia innanzi tutto come il Libro di Dio, opera unica di un autore unico; ma non per questo riducono gli autori umani al ruolo di meri strumenti passivi; sanno attribuire all’uno o all’altro libro, preso individualmente, uno scopo particolare. Ma il loro tipo di approccio presta scarsa attenzione allo sviluppo storico della rivelazione. Numerosi padri della Chiesa presentano il Logos, Verbo di Dio, come l’autore dell’Antico Testamento e affermano così che tutta la Scrittura ha una portata cristologica.
Fatta eccezione di alcuni esegeti della scuola antiochena (in particolare Teodoro di Mopsuestia), i padri si sentono autorizzati prendere una frase al di fuori del suo contesto per riconoscervi una verità rivelata da Dio. Nelle controversie con i Giudei o in quelle dogmatiche con altri teologi, non esitano ad appoggiarsi su interpretazio¬ni di questo genere.
Spinti soprattutto dalla preoccupazione di vivere della Bibbia il comunione con i loro fratelli, i padri si limitano spesso a usare il testo biblico corrente nel loro ambiente. Interessandosi metodicamente alla Bibbia ebraica, Origene era animato soprattutto dalla preoccupazione di trovare argomenti da opporre ai Giudei a partire da testi per essi accettabili. Esaltando la veritas hebraica, san Girolamo prende una posizione marginale.
I padri applicano in modo più o meno frequente il metodo allegorico, allo scopo di dissipare lo scandalo che potrebbero provare alcuni cristiani e gli avversari pagani del cristianesimo nel leggere certi passi della Bibbia. Ma molto raramente vengono annullate la letteralità e la storicità dei testi.
Il ricorso dei padri all’allegoria va generalmente al di là del fenomeno dell’adatta¬mento al metodo allegorico usato dagli autori pagani. Il ricorso all’allegoria deriva anche dalla convinzione che la Bibbia, libro di Dio, è stata da Lui data al suo popolo, la Chiesa. In linea di massima niente dev’essere lasciato da parte come desueto o definitivamente caduco. Nelle loro spiegazioni della Bibbia i padri mescolano e intrecciano le interpretazioni tipologiche e allegoriche in un modo quasi inestricabile, sempre con una finalità pastorale e pedagogica. Tutto quanto è scritto, è stato scritto per la nostra istruzione (cf. 1Cor 10, 11).
Persuasi che si tratti del libro di Dio, quindi inesauribile, i padri credono di poter interpretare un determinato passo secondo un determinato schema allegorico, ma ritengono che ognuno è libero di proporre qualcosa di diverso, purché si rispetti l’analogia della fede.
L’interpretazione allegorica delle Scritture che caratterizza l’esegesi patristica rischia di disorientare l’uomo moderno, ma l’esperienza di Chiesa che questa esegesi esprime offre un contributo sempre utile (cf. Divino afflante Spiritu, 31-32; Dei Verbum, 23). I padri insegnano a leggere teologicamente la Bibbia in seno a una Tradizione vivente con un autentico spirito cristiano.
3. Ruolo dei diversi membri della Chiesa nell’interpretazione
In quanto date alla Chiesa, le Scritture sono il tesoro comune di tutto il corpo dei credenti: «La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un unico deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi pastori, resta assiduamente fedele all’insegnamento degli apostoli…» (Dei Verbum, 10; cf. anche 21). È vero che la familiarità con il testo delle Scritture è stato, tra i fedeli, più marcato in certe epoche della storia della Chiesa che in altre. Ma le Scritture hanno occupato un posto di primo piano in tutti i momenti importanti del rinnovamento nella vita della Chiesa, dal movimento monastico dei primi secoli fino all’epoca recente del concilio Vaticano II.
Questo stesso concilio insegna che tutti i battezzati, quando partecipano, nella fede in Cristo, alla celebrazione dell’eucaristia, riconoscono la presenza di Cristo anche nella sua parola, «giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la Sacra Scrittura» (Sacrosanctum Concilium, 7). A questo ascolto della parola essi vengono con a il senso della fede (sensus fidei) che caratterizza tutto il popolo di Dio. «Grazie a questo senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente si conforma, accoglie non una parola umana ma, qual è in realtà, la parola di Dio (cf. 1Ts 2, 13); aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi (cf. Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita» (Lumen Gentium, 12).
Così, dunque, tutti i membri della Chiesa hanno un ruolo nell’interpretazione delle Scritture. Nell’esercizio del loro ministero pastorale, i vescovi, in quanto successori degli apostoli, sono i primi testimoni e garanti della tradizione vivente nella quale le Scritture sono interpretate in ogni epoca. «Questi, illuminati dallo Spirito di verità, devono custodire fedelmente la Parola di Dio, spiegarla e diffonderla con la loro predicazione» (Dei Verbum 9; cf. Lumen Gentium, 25). In quanto collaboratori dei vescovi, i sacerdoti hanno come primo dovere la proclamazione della Parola (Presbyterorum ordinis, 4). Essi sono dotati di un carisma particolare per l’interpretazione della Scrittura quando, trasmettendo, non le loro idee personali, ma la parola di Dio, applicano la verità eterna del vangelo alle circostanze concrete della vita (ibid.). È compito dei sacerdoti e dei diaconi, soprattutto quando amministrano i sacramenti, mettere in luce l’unità che Parola e Sacramento formano nel ministero della Chiesa.
In quanto presidenti della comunità eucaristica ed educatore della fede, i ministri della Parola hanno come compito principale non semplicemente quello di fornire un insegnamento, ma di aiutare i fedeli a comprendere e discernere ciò che la Parola di Dio dice nei loro cuori quando ascoltano e meditano le Scritture. Così tutta la chiesa locale, secondo il modello di Israele, popolo di Dio (Es 19, 5-6), diventa una comunità che sa che Dio le parla (cf. G 6, 45) e fa di tutto per ascoltarlo con fede, amore e docilità verso la Parola (Dt 6, 4-6). Tali comunità, che ascoltano veramente, diventano nel loro ambiente, purché restino sempre unite a tutta la Chiesa nella fede e nell’amore, ardenti focolai di evangelizzazione e di dialogo, e anche agenti di trasformazione sociale (Evangelii Nuntiandi, 57-58; CDF, Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione, 69-70).
Lo Spirito è anche dato, certamente, ai cristiani individualmente cosicché i loro cuori possano diventare «ardenti» (cf. Lc 24, 32: quando pregano e fanno uno studio orante delle Scritture nel contesto della loro vita personale. Questa è la ragione per cui il concilio Vaticano II ha chiesto con insistenza che l’accesso alle Scritture sia facilitato in tutti i modi possibili (Dei Verbum, 22; 25). Questo genere di lettura, conviene notarlo, non è mai completamente privato, perché il credente legge e interpreta sempre la Scrittura nella fede della Chiesa e porta poi alla comunità il frutto della sua lettura, allo scopo di arricchire la fede comune.
Tutta la tradizione biblica e, in modo più considerevole, l’insegnamento di Gesù nei vangeli indicano come ascoltatori privilegiati della Parola di Dio quelli che il mondo considera gente di umile condizione. Gesù ha riconosciuto che certe cose tenute nascoste ai sapienti e agli intelligenti sono state rivelate ai semplici (Mt 11, 25; Lc 10, 21) e che il Regno di Dio appartiene a quelli che sono come bambini (Mc 10, 14 e par.).
Nella stessa linea, Gesù ha proclamato: «Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno di Dio» (Lc 6, 21; cf. Mt 5, 3). Tra i segni dei tempi messianici si trova la proclamazione della buona novella ai poveri (Lc 4, 18; 7, 22; Mt 11, 5; cf. CDF, Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione, 47-48). Quelli che, nella loro impotenza nella loro privazione di risorse umane, si trovano spinti a porre la loro unica speranza in Dio e nella sua giustizia, hanno una capacità di ascoltare e di interpretare la Parola di Dio, che dev’essere presa in considerazione da tutta la Chiesa e richiede anche una risposta livello sociale.
Riconoscendo la diversità dei doni e delle funzioni che lo Spirito mette a servizio della comunità, in particolare il dono di insegnare (1Cor 12, 28-30; Rm 12, 6-7; Ef 4, 11-16), la Chiesa accorda la sua stima a coloro che manifestano una particolare capacità di contribuire alla costruzione del Corpo di Cristo per la loro competenza nell’interpretazione della Scrittura (Divino afflante Spiritu, 46-4, EB 564-565; Dei Verbum, 23; PCB, Istruzione sulla storicità dei vangeli; Introd.). Benché i loro studi possano non aver sempre ricevuto gli incoraggiamenti che ottengono ora, gli esegeti che mettono il loro sapere al servizio della Chiesa si trovano situati in una ricca tradizione che si estende dai primi secoli, con Origene e Girolamo fino ai tempi più recenti, con Padre Lagrange e altri, e si prolunga fino ai nostri giorni. In particolare, la ricerca del senso letterale della Scrittura, sul quale ora si insiste tanto, richiede gli sforzi congiunti di coloro che hanno competenza nel campo delle lingue antiche, della storia e della cultura, della critica testuale e dell’analisi delle forme letterarie, e che sanno usare i metodi della critica scientifica. Oltre a questa attenzione al testo nel suo contesto storico originale, la Chiesa conta su esegeti animati dallo stesso Spirito che ha ispirato la Scrittura, per assicurare che «il più gran numero possibile di ministri della Parola di Dio siano in grado di procurare effettivamente al popolo di Dio l’alimento delle Scritture» (Divino afflante Spiritu, 24; 53-55; EB 551, 567; Dei Verbum, 23; Paolo VI, Sedula Cura [1971]). Un motivo di soddisfazione è fornito nel nostro tempo dal numero crescente di donne esegete, che offrono spesso, nell’interpretazione della Scrittura, nuovi e penetranti punti di vista e mettono in luce aspetti che erano stati dimenticati.
Se le Scritture, come abbiamo ricordato sopra, sono un bene di tutta la Chiesa e fanno parte dell’«eredità della fede» che tutti, pastori e fedeli, «conservano, professano e mettono in pratica in uno sforzo comune», rimane tuttavia vero che «l’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo» (Dei Verbum, 10). Pertanto, in ultima istanza, è il magistero ad avere il compito di garantire l’autenticità dell’interpretazione e di indicare, se il caso lo richiede, che l’una o l’altra interpretazione particolare è incompatibile con l’autenticità del vangelo. Adempie questo compito all’interno della koinonia del Corpo, esprimendo ufficialmente la fede della Chiesa per servire la Chiesa; consulta a questo scopo teologi, esegeti e altri esperti, di cui riconosce la legittima libertà e con i quali resta legato da una relazione reciproca nello scopo comune di «conservare il popolo di Dio nella verità che rende liberi» (CDF, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, 21).
C. Compito dell’esegeta
Il compito dell’esegeta cattolico ha molteplici aspetti. È un compito di Chiesa, perché consiste nello studiare e spiegare la Sacra Scrittura in modo da metterne tutta la ricchezza a disposizione dei pastori e dei fedeli. Ma è nello stesso tempo un compito scientifico, che mette l’esegeta cattolico in rapporto con i suoi colleghi non cattolici e con molti settori della ricerca scientifica. D’altra parte, questo compito comprende al tempo stesso il lavoro di ricerca e quello di insegnamento. Sia l’uno che l’altro portano normalmente alla produzione di pubblicazioni.
1. Orientamenti principali
Impegnandosi nel loro compito, gli esegeti cattolici devono prendere in seria considerazione il carattere storico della rivelazione biblica. Infatti i due Testamenti esprimono in parole umane, che portano il segno del loro tempo, la rivelazione storica che Dio ha fatto, in diversi modi, di se stesso e del suo disegno di salvezza. Di conseguenza, gli esegeti devono far uso del metodo storico-critico senza però attribuire ad esso l’esclusività. Tutti i metodi pertinenti di interpretazione dei testi sono abilitati ad apportare il loro contributo all’esegesi della Bibbia.
Nel loro lavoro di interpretazione, gli esegeti cattolici non devono mai dimenticare che ciò che interpretano è la Parola di Dio. Il loro compito non finisce una volta che hanno distinto le fonti, definito le forme o spiegato i procedimenti letterari. Lo scopo del loro lavoro è raggiunto solo quando hanno chiarito il significato del testo biblico come Parola attuale di Dio. A tale scopo, devono prendere in considerazione le diverse prospettive ermeneutiche che aiutano a cogliere l’attualità del messaggio biblico e gli permettono di rispondere ai bisogni dei lettori moderni delle Scritture.
Compito degli esegeti è anche spiegare la portata cristologica canonica ed ecclesiale degli scritti biblici.
La portata cristologica dei testi biblici non è sempre evidente; deve essere messa in luce ogni qualvolta sia possibile. Anche se il Cristo ha stabilito la Nuova Alleanza nel suo sangue, i libri della Prima Alleanza non hanno perso il loro valore. Assunti nella proclamazione del vangelo, essi acquistano e manifestano il loro pieno significato nel «mistero del Cristo» (Ef 3, 4), di cui illuminano i molteplici aspetti, venendo nello stesso tempo illuminati da esso. Questi libri, infatti, preparavano il popolo di Dio alla sua venuta (cf. Dei Verbum, 14-16).
Ogni libro della Bibbia, sebbene sia stato scritto con uno scopo distinto e abbia un suo specifico significato, si manifesta portatore di un significato ulteriore quando diventa parte dell’insieme canonico. Il compito degli esegeti include perciò la spiegazione dell’affermazione agostiniana: «Novum Testamentum in Vetere latet, et in Novo Vetus patet» (cf. S. Agostino, Quaest. in Hept., 2, 73, CSEL 28, III, 3, p. 141).
Gli esegeti devono anche spiegare la relazione che esiste tra la Bibbia e la Chiesa. La Bibbia ha visto la luce in comunità credenti. Esprime la fede d’Israele, e poi quella delle comunità cristiane primitive. Unita alla Tradizione vivente che l’ha preceduta, l’accompagna ed è da essa nutrita (cf. Dei Verbum, 21), la Bibbia è lo strumento privilegiato di cui Dio si serve per guidare, anche ora, la costruzione e la crescita della Chiesa in quanto popolo di Dio. Inseparabile dalla dimensione ecclesiale è l’apertura ecumenica. Giacché la Bibbia esprime un’offerta di salvezza presentata da Dio a tutti gli uomini, il compito degli esegeti comporta una dimensione universale che richiede un’attenzione alle altre religioni e alle aspettative del mondo attuale.
2. Ricerca
Il compito esegetico è troppo vasto per poter essere portato a buon fine nella sua interezza da un solo individuo. È necessaria una divisione del lavoro, specialmente per la ricerca, che richiede specialisti in diversi campi. I possibili inconvenienti della specializzazione saranno evitati grazie agli sforzi interdisciplinari.
È molto importante per il bene di tutta la Chiesa e per la sua influenza nel mondo moderno che un numero sufficiente di persone ben preparate si dedichino alla ricerca nei vari settori della scienza esegetica. Preoccupati dei bisogni più immediati del ministero, i vescovi e i superiori religiosi sono spesso tentati di non prendere abbastanza sul serio la responsabilità che incombe loro di provvedere a questa necessità fondamentale. Ma una carenza su questo punto espone la Chiesa a gravi inconvenienti, perché pastori e fedeli rischiano allora di essere soggetti a una scienza esegetica estranea alla Chiesa e priva di rapporti con la vita della fede. Affermando che «lo studio della Sacra Scrittura» dev’essere «come l’anima della teologia» (Dei Verbum, 24), il concilio Vaticano II ha mostrato tutta l’importanza della ricerca esegetica e, nello stessa tempo, ha ricordato implicitamente agli esegeti cattolici che le loro ricerche hanno con la teologia un rapporto essenziale, di cui devo no mostrarsi consapevoli.
3. Insegnamento
L’affermazione del concilio fa anche comprendere il ruolo fondamentale che assume l’insegnamento dell’esegesi nelle facoltà di teologia, nei seminari e negli studentati. È ovvio che il livello degli studi non sarà uniforme in questi diversi istituti. È auspicabile che l’insegnamento dell’esegesi sia impartito da uomini e donne. Sarà più tecnico nelle facoltà, mentre conserverà un orientamento più direttamente pastorale nei seminari; ma non potrà mai essere privato di una seria dimensione intellettuale. Procedere diversamente significherebbe mancare di rispetto verso la Parola di Dio.
I professori di esegesi devono comunicare agli studenti una stima profonda per la Sacra Scrittura, mostrando come essa meriti uno studio attento e oggettivo, che permetta di apprezzare meglio il suo valore letterario, storico, sociale e teologico. Non possono limitarsi a trasmettere una serie di conoscenze da registrare passivamente ma devono fornire un’iniziazione ai metodi esegetici, spiegandone le principali operazioni per rendere gli studenti capaci di giudizio personale. Dato il tempo limitato di cui si dispone, è opportuno utilizzare alternativamente due modi di insegnare: da una parte, mediante esposizioni sintetiche che introducano allo studio di interi libri biblici e non lascino da parte alcun settore importante dell’Antico Testamento né del Nuovo; dall’altra, mediante analisi approfondite di testi accuratamente scelti, che siano nello stesso tempo un’iniziazione alla pratica esegetica. In entrambi i casi bisogna stare attenti a non essere unilaterali, cioè a non limitarsi né a un commento spirituale privo di base storico-critica, né a un commento storico-critico privo di contenuto dottrinale e spirituale (cf. Divino afflante Spiritu, EB 551-552; PCB, De Sacra Scrittura recte docenda, EB 598). L’insegnamento deve mostrare al tempo stesso il radicamento storico degli scritti biblici, il loro aspetto di parola personale del Padre celeste che si rivolge con amore ai suoi figli (cf. Dei Verbum, 21) e il loro ruolo indispensabile nel ministero pastorale (cf. 2Tm 3, 16).
4. Pubblicazioni
Come frutto della ricerca e complemento dell’insegnamento, le pubblicazioni hanno una funzione di grande importanza per il progresso e la diffusione dell’esegesi. Ai nostri giorni la pubblicazione non avviene solo attraverso i testi stampati, ma anche con altri mezzi, più rapidi e più potenti (radio, televisione, strumenti elettronici), di cui è opportuno imparare a servirsi.
Le pubblicazioni di alto livello scientifico sono lo strumento principale di dialogo, di discussione e di cooperazione tra i ricercatori. Grazie ad esse, l’esegesi cattolica può mantenersi in relazione reciproca con gli altri ambienti della ricerca esegetica, come con il mondo scientifico in generale.
Ci sono poi altre pubblicazioni che rendono un grandissimo servizio adattandosi a diverse categorie di lettori, dal pubblico colto fino ai ragazzi del catechismo, passando per i gruppi biblici, i movimenti apostolici e le congregazioni religiose. Gli esegeti capaci di compiere una corretta divulgazione fanno un’opera estremamente utile e feconda, indispensabile per assicurare agli studi esegetici l’influsso che devono avere. In questo settore la necessità dell’attualizzazione del messaggio biblico si fa sentire in modo più pressante. Questo implica che gli esegeti prendano in considerazione le legittime esigenze delle persone istruite e colte del nostro tempo e distinguano chiaramente per loro ciò che dev’essere considerato come dettaglio secondario condizionato dal tempo, ciò che va interpretato come linguaggio mitico e ciò che bisogna valutare come senso proprio, storico e ispirato. Gli scritti biblici non sono stati composti in una lingua moderna, né nello stile del XX secolo. Le forme di espressione e i generi letterari che usano nel loro testo ebraico, aramaico o greco devono essere resi intelligibili agli uomini e alle donne di oggi, che, diversamente, sarebbero tentati o di disinteressarsi della Bibbia, o di interpretarla in maniera semplicistica: letteralistica o fantasiosa.
In tutta la diversità dei suoi compiti, l’esegeta cattolico non ha altro scopo che il servizio della Parola di Dio. La sua ambizione non è quella di sostituire ai testi biblici i risultati del suo lavoro, sia che si tratti della ricostruzione di documenti antichi usati dagli autori ispirati oppure della presentazione moderna delle ultime conclusioni della scienza esegetica. Al contrario, la sua ambizione è di mettere maggiormente in luce gli stessi testi biblici, aiutando ad apprezzarli meglio e a comprenderli con sempre maggior esattezza storica e profondità spirituale.
D. Rapporti con le altre discipline teologiche
L’esegesi, essendo essa stessa una disciplina teologica, «fides quaerens intellectum», intrattiene con le altre discipline teologiche relazioni strette e complesse. Da una parte, infatti, la teologia sistematica ha un influsso sulla precomprensione con la quale gli esegeti affrontano i testi biblici. Ma, d’altra parte, l’esegesi offre alle altre discipline teologiche dati che sono per esse fondamentali. Pertanto tra l’esegesi e le altre discipline si stabiliscono rapporti di dialogo nel mutuo rispetto della loro specificità.
1. Teologia e precomprensione dei testi biblici
Quando affrontano i testi biblici, gli esegeti hanno necessariamente una precomprensione. Nel caso dell’esegesi cattolica, si tratta di una precomprensione basata su certezze di fede: la Bibbia è un testo ispirato da Dio e affidato alla Chiesa per suscitare la fede e guidare la vita cristiana. Queste certezze di fede non arrivano agli esegeti allo stato bruto, ma dopo essere state elaborate nella comunità ecclesiale dalla riflessione teologica. Gli esegeti sono quindi orientati nella loro ricerca dalla riflessione dei teologi dogmatici sull’ispirazione della Scrittura e sulla funzione di questa nella vita ecclesiale.
Ma, reciprocamente, il lavoro degli esegeti sui testi ispirati apporta loro un’esperienza di cui i teologi dogmatici devono tenere conto per meglio chiarire la teologia dell’ispirazione scritturistica dell’interpretazione ecclesiale della Bibbia. L’esegesi suscita, in particolare, una coscienza più viva e più precisa del carattere storico dell’ispirazione biblica. Essa mostra che il processo dell’ispirazione è storico, non soltanto perché ha avuto luogo nel corso della storia d’Israele e della Chiesa primitiva, ma anche perché si è realizzata con la mediazione di persone umane segnate ciascuna dalla sua epoca e che, sotto la guida dello Spirito, hanno avuto una funzione attiva nella vita del popolo di Dio.
D’altronde, l’affermazione teologica dello stretto rapporto tra Scrittura ispirata e Tradizione della Chiesa è stata confermata e precisata grazie allo sviluppo degli studi esegetici, che ha portato gli esegeti a prestare un’attenzione crescente all’influsso del contesto vitale in cui i testi si sono formati (Sitz im Leben).
2. Esegesi e teologia dogmatica
La Sacra Scrittura, senza essere l’unico locus theologicus, costituisce la base privilegiata degli studi teologici. Per interpretare la Scrittura con esattezza scientifica e precisione, i teologi hanno bisogno del lavoro degli esegeti. Da parte loro, gli esegeti devono orientare le loro ricerche in modo tale che «lo studio della Sacra Scrittura» possa effettivamente essere «come l’anima della teologia» (Dei Verbum, 24). A tale scopo è necessario accordare un’attenzione particolare al contenuto religioso degli scritti biblici.
Gli esegeti possono aiutare i teologi dogmatici a evitare due estremi: da una parte, il dualismo, che separa completamente una verità dottrinale dalla sua espressione linguistica, considerata priva di importanza; dall’altra, il fondamentalismo, che, confondendo l’umano col divino, considera come verità rivelata anche gli aspetti contingenti delle espressioni umane.
Per evitare questi due estremi, è necessario distinguere senza separare, e accettare perciò una tensione persistente. La Parola di Dio si è espressa nell’opera di autori umani. Pensiero e parole sono nello stesso tempo di Dio e dell’uomo, così che tutto nella Bibbia proviene contemporaneamente da Dio e dall’autore ispirato. Non ne consegue, tuttavia, che Dio abbia dato un valore assoluto al condizionamento storico del suo messaggio. Questo è suscettibile di essere interpretato e attualizzato, cioè di essere staccato, almeno parzialmente, dal suo condizionamento storico passato per essere trapiantato nel condizionamento storico presente. L’esegeta stabilisce le basi di questa operazione, che il teologo dogmatico continua, prendendo in considerazio¬ne gli altri loci theologici che contribuiscono allo sviluppo del dogma.
3. Esegesi e teologia morale
Osservazioni analoghe possono essere fatte sui rapporti tra esegesi e teologia morale. Ai racconti concernenti la storia della salvezza la Bibbia unisce strettamente molteplici istruzioni sulla condotta da tenere: comandamenti, divieti, prescrizioni giuridiche, esortazioni e invettive profetiche, consigli dei sapienti. Uno dei compiti dell’esegesi consiste nel precisare la portata di questo abbondante materiale e preparare così il lavoro dei teologi moralisti.
Questo compito non è semplice perché spesso i testi biblici non si preoccupano di distinguere precetti morali universali, prescrizioni di purità rituale e ordinamenti giuridici particolari. Tutto viene messo insieme. D’altra parte, la Bibbia riflette un’evoluzione morale considerevole, che trova il suo compimento nel Nuovo Testamento. Non basta perciò che una certa posizione in materia di morale sia attestata nell’Antico Testamento (per es. la pratica della schiavitù o del divorzio, o quello dello sterminio in caso di guerra) perché essa continui a essere valida. È necessario un discernimento che tenga conto del necessario progresso della coscienza morale. Gli scritti dell’Antico Testamento contengono elementi «imperfetti e caduchi» (Dei Verbum, 15), che la pedagogia divina non poteva eliminare subito. Lo stesso Nuovo Testamento non è di facile interpretazione nel campo della morale in quanto si esprime spesso in modo immaginifico o paradossale, o perfino provocatorio, e il rapporto dei cristiani con la legge giudaica è oggetto di aspre controversie.
I moralisti hanno quindi buone ragioni di porre agli esegeti molti e importanti interrogativi, che stimoleranno la loro ricerca. In più di un caso è possibile che la risposta sia che nessun testo biblico tratta esplicitamente il problema posto. Ma anche allora la testimonianza della Bibbia, compresa nel suo vigoroso dinamismo d’insieme, non può mancare di aiutare a definire un orientamento profondo. Sui punti più importanti resta fondamentale la morale del decalogo. L’Antico Testamento contiene già i principi e i valori che guidano un agire pienamente conforme alla dignità della persona umana, creata «a immagine di Dio» (Gn 1, 27). Il Nuovo Testamento dà maggior luce a questi principi e valori, grazie alla rivelazione dell’amore di Dio nel Cristo.
4. Punti di vista diversi e necessaria interazione
Nel suo documento del 1988 sull’interpretazione dei dogmi, la Commissione Teologica Internazionale ha ricordato che, nei tempi moderni, è scoppiato un conflitto tra esegesi e teologia dogmatica; essa considera poi i contributi positivi dell’esegesi moderna per la teologia sistematica (L’interpretazione dei dogmi; 1988, C. I, 2). Per maggiore precisione è utile aggiungere che il conflitto è stato causato dall’esegesi liberale. Tra l’esegesi cattolica e la teologia dogmatica non c’è stato un conflitto generalizzato, ma soltanto dei momenti di forte tensione. È vero però che la tensione può degenerare in conflitto se, da una parte o dall’altra, si inaspriscono legittime differenze di punti di vista, fino a trasformarle in irriducibili opposizioni.
Infatti, i punti di vista sono differenti, e devono esserlo. Il compito primario dell’esegesi è quello di discernere con precisione il significato dei testi biblici nel loro contesto proprio, cioè nel loro contesto letterario e storico particolare e poi nel contesto del canone delle Scritture. Adempiendo questo compito, l’esegeta mette in luce il senso teologico dei testi, quando essi hanno una portata di questa natura. Una relazione di continuità è così resa possibile tra l’esegesi e la riflessione teologica posteriore. Ma il punto di vista non è lo stesso, perché il compito dell’esegeta è fondamentalmente storico e descrittivo e si limita all’interpretazione della Bibbia.
Il teologo dogmatico, invece, compie un’opera speculativa e più sistematica. Per questa ragione egli si interessa veramente solo ad alcuni testi e ad alcuni aspetti della Bibbia e, inoltre, prende in considerazione molti altri dati che non sono biblici, scritti patristici, definizioni conciliari, altri documenti del magistero, liturgia, come pure i sistemi filosofici e la situazione culturale, sociale e politica contemporanea. Il suo compito non è semplicemente quello di interpretare la Bibbia, ma di tendere a una comprensione pienamente ponderata della fede cristiana in tutte le sue dimensioni specialmente nei suoi rapporti decisivi con l’esistenza umana.
A causa del suo orientamento speculativo e sistematico, la teologia ha spesso ceduto alla tentazione di considerare la Bibbia una riserva di dicta probantia destinati a confermare tesi dottrinali. Ai nostri giorni i teologi dogmatici hanno acquisito una coscienza più viva dell’importanza del contesto letterario e storico per l’interpreta¬zione corretta dei testi antichi e ricorrono con più frequenza alla collaborazione degli esegeti.
In quanto Parola di Dio messa per iscritto, la Bibbia ha una ricchezza di significato che non può essere pienamente colta né imprigionata in nessuna teologia sistematica. Una delle funzioni principali della Bibbia è quella di lanciare serie sfide ai sistemi teologi e di ricordare continuamente l’esistenza di importanti aspetti del rivelazione divina e della realtà umana che sono stati talora dimenticati o trascurati negli sforzi della riflessione sistematica. Il rinnovamento della metodologia esegetica può contribuire a questa presa di coscienza.
Reciprocamente, l’esegesi deve lasciarsi illuminare dalla ricerca teologica. Questa la stimolerà a porre ai testi importanti interrogativi e a meglio scoprire tutta la loro portata e la loro fecondità. Lo studio scientifico della Bibbia non può prescindere dalla ricerca teologica, né dall’esperienza spirituale e dal discernimento della Chiesa. L’esegesi produce i suoi migliori frutti quando si effettua nel contesto della fede viva della comunità cristiana, orientata verso la salvezza del mondo intero.
IV
INTERPRETAZIONE DELLA BIBBIA NELLA VITA DELLA CHIESA
L’interpretazione della Bibbia, anche se compito particolare degli esegeti, non è tuttavia loro monopolio poiché essa comporta nella Chiesa, degli aspetti che vanno al di là dell’analisi scientifica dei testi. La Chiesa, infatti, non considera la Bibbia semplicemente un insieme di documenti storici concernenti le sue origini; l’accoglie come Parola di Dio che si rivolge ad essa, e al mondo intero nel tempo presente. Questa convinzione di fede ha come conseguenza uno sforzo di attualizzazione e di inculturazione del messaggio biblico, come pure l’elaborazione di diversi modi di uso di testi ispirati, nella liturgia, nella lectio divina, nel ministero pastorale e nel movimento ecumenico.
A. Attualizzazione
Già all’interno stesso della Bibbia, come abbiamo osservato nel capitolo precedente, si può notare la pratica dell’attualizzazione: i testi più antichi sono stati riletti alla luce di circostanze nuove e applicati alla situazione presente del popolo di Dio. L’attualizzazione, basata sulle stesse convinzioni, continua necessariamente a essere praticata nelle comunità credenti.
1. Principi
I principi che fondano la pratica dell’attualizzazione sono i seguenti:
L’attualizzazione è possibile, perché il testo biblico, per la su pienezza di significato, ha valore per tutte le epoche e tutte le culture (cf. Is 40, 8; 66, 18-21; Mt 28, 19-20). Il messaggio biblico può al tempo stesso relativizzare e fecondare i sistemi di valori e le norme di comportamento di ogni generazione.
L’attualizzazione è necessaria, perché, anche se il loro messaggio ha valore duraturo, i testi della Bibbia sono stati redatti in funzione di circostanze passate e in un linguaggio condizionato da epoche diverse. Per manifestare la portata che hanno per gli uomini e le donne di oggi, è necessario applicare il loro messaggio alle circostanze presenti ed esprimerlo in un linguaggio adattato al tempo attuale. Ciò presuppone uno sforzo ermeneutico che miri a discernere attraverso il condizionamento storico i punti essenziali del messaggio.
L’attualizzazione deve costantemente tener conto dei complessi rapporti che esistono, nella Bibbia cristiana, tra il Nuovo Testamento e l’Antico, per il fatto che il Nuovo si presenta al tempo stesso come compimento e superamento dell’Antico. L’attualizzazione si effettua in conformità con l’unità dinamica così costituita.
L’attualizzazione si realizza grazie al dinamismo della tradizione vivente della comunità di fede. Questa si situa esplicitamente nel prolungamento delle comunità in cui la Scrittura è nata, è stata conservata e trasmessa. Nell’attualizzazione la tradizione adempie un duplice ruolo: procura, da una parte, una protezione contro le interpretazioni aberranti e assicura, dall’altra, la trasmissione del dinamismo originale.
Attualizzazione non significa dunque manipolazione dei testi. Non si tratta di proiettare sugli scritti biblici opinioni o ideologie nuove, ma di ricercare con sincerità la luce che essi contengono per il tempo presente. Il testo della Bibbia ha autorità in tutti i tempi sulla Chiesa cristiana e, anche se sono passati parecchi secoli dal tempo della sua composizione, conserva il suo ruolo di guida privilegiata che non può essere manipolata. Il magistero della Chiesa «non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone» (Dei Verbum, 10).
2. Metodi
Partendo da questi principi, si possono utilizzare diversi metodi di attualizzazione.
L’attualizzazione, praticata già all’interno della Bibbia, è proseguita poi nella Tradizione giudaica per mezzo di procedimenti che si possono osservare nei targumim e nei midrashim: ricerca di passi paralleli (gezerah shawah), modifiche nella lettura del testo (‘al tiqrey), adozione di un secondo significato (tartey mishma’), ecc.
Da parte loro, i Padri della Chiesa hanno fatto ricorso alla tipologia e all’allegoria per attualizzare i testi biblici in modo adatto alla situazione dei cristiani del loro tempo. Nel nostro tempo l’attualizzazione deve tener conto dell’evoluzione della mentalità e dello sviluppo dei metodi di interpretazione.
L’attualizzazione presuppone una corretta esegesi del testo, che ne determini il senso letterale. Se la persona che attualizza non ha personalmente una formazione esegetica, deve ricorrere a buone guide di lettura che permettano di ben orientare l’interpretazione.
Per portare a buon fine l’attualizzazione, l’interpretazione della Scrittura mediante la Scrittura è il metodo più sicuro e più fecondo, specialmente nel caso dei testi dell’Antico Testamento che sono stati riletti nell’Antico Testamento stesso (per es. la manna di Es 16 in Sap 16, 20-29) e/o nel Nuovo Testamento (Gv 6). L’attualizzazione di un testo biblico nell’esistenza cristiana non può realizzarsi correttamente se manca la relazione con il mistero di Cristo e della Chiesa. Non sarebbe normale, per esempio, proporre ai cristiani, come modelli per una lotta di liberazione, unicamente episodi dell’Antico Testamento (Esodo, 1-2; Maccabei).
L’operazione ermeneutica, ispirata da filosofie ermeneutiche, comporta quindi tre tappe: 1) ascoltare la Parola a partire dalla situazione presente; 2) discernere gli aspetti della situazione presente che il testo biblico illumina o mette in discussione; 3) trarre dalla pienezza di significato del testo biblico gli elementi suscettibili di far evolvere la situazione presente in maniera feconda, conforme alla volontà salvifica di Dio in Cristo.
Grazie all’attualizzazione, la Bibbia chiarisce molti problemi attuali, per esempio: la questione dei ministeri, la dimensione comunitaria della Chiesa, l’opzione preferenziale per i poveri, la teologi della liberazione, la condizione della donna. L’attualizzazione può anche essere attenta ai valori sempre più sentiti dalla coscienza moderna, come i diritti della persona, la protezione della vita umana la preservazione dell’ambiente naturale, l’aspirazione alla pace universale.
3. Limiti
Per restare in accordo con la verità salvifica espressa nella Bibbia, l’attualizzazione deve rispettare certi limiti e guardarsi da possibili deviazioni.
Benché ogni lettura della Bibbia sia necessariamente selettive sono da evitare le letture tendenziose, cioè quelle che, invece di essere docili al testo, non fanno che utilizzarlo per i loro fini limitati (come nel caso dell’attualizzazione fatta da alcune sette, per esempio i Testimoni di Geova).
L’attualizzazione perde ogni validità se si basa su principi teorici che sono in disaccordo con gli orientamenti fondamentali della Bibbia, come, ad esempio, il razionalismo opposto alla fede o materialismo ateo.
Va evidentemente condannata anche ogni attualizzazione orientata in senso contrario alla giustizia e alla carità evangelica; ad esempio quelle che vorrebbero basare sui testi biblici la segregazione razziale, l’antisemitismo o il sessismo, sia esso maschile o femminile. Un’attenzione particolare è necessaria, secondo lo spirito del concilio Vaticano II (Nostra aetate, 4), per evitare assolutamente attualizzare alcuni testi del Nuovo Testamento in un senso che potrebbe provocare o rafforzare atteggiamenti ostili nei riguardi de ebrei. Gli eventi tragici del passato devono, al contrario, spingere a ricordare senza posa che, secondo il Nuovo Testamento, gli ebrei restano «amati» da Dio, «perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11, 28-29).
Le deviazioni saranno evitate se l’attualizzazione parte da una corretta interpretazio¬ne del testo e si effettua nella corrente Tradizione vivente, sotto la guida del magistero della Chiesa.
Ad ogni modo, i rischi di deviazione non possono costituire un’obiezione valida contro l’adempimento di un compito necessario, quello di far pervenire il messaggio della Bibbia fino alle chiese al cuore delle nostre generazioni.
B. Inculturazione
Allo sforzo di attualizzazione, che consente alla Bibbia di conservare la sua fecondità anche attraverso i mutamenti dei tempi corrisponde, per la diversità dei luoghi, lo sforzo di inculturazione che assicura il radicamento del messaggio biblico nei terreni più diversi. Questa diversità non è del resto mai totale. Ogni autentica cultura, infatti, è portatrice, a suo modo, di valori universali fondati da Dio.
Il fondamento teologico dell’inculturazione è la convinzione fede che la Parola di Dio trascende le culture nelle quali è stata espressa e ha la capacità di propagarsi nelle altre culture, in modo da raggiungere tutte le persone umane nel contesto culturale cui vivono. Questa convinzione deriva dalla Bibbia stessa, che, fin dal libro della Genesi, assume un orientamento universale (Gn 1, 27-28), lo mantiene poi nella benedizione promessa a tutti i popoli grazie ad Abramo e alla sua discendenza (Gn 12.3; Gv 18, 18) e lo conferma definitivamente estendendo a «tutte le nazioni» l’evangelizzazione cristiana (Mt 28, 18-20; Rm 4, 16-17; Ef 3, 6).
La prima tappa dell’inculturazione consiste nel tradurre in un’altra lingua la Scrittura ispirata. Questa tappa ha avuto inizio fin dai tempi dell’Antico Testamento quando il testo ebraico della Bibbia fu tradotto oralmente in aramaico (Ne 8, 8.12) e, più tardi, per iscritto in greco. Una traduzione infatti è sempre qualcosa di più di una semplice trascrizione del testo originale. Il passaggio da una lingua a un’altra comporta necessariamente un cambiamento di contesto culturale: i concetti non sono identici e la portata dei simboli è differente, perché mettono in rapporto con altre tradizioni di pensiero e altri modi di vivere.
Il Nuovo Testamento, scritto in greco, è segnato tutto quanto da un dinamismo di inculturazione, perché traspone nella cultura giudaico-ellenistica il messaggio palestinese di Gesù, manifestando con ciò una chiara volontà di superare i limiti di un ambiente culturale unico.
La traduzione dei testi biblici, tappa fondamentale, non può però essere sufficiente ad assicurare una vera inculturazione. Questa deve costituirsi grazie a un’interpreta¬zione che metta il messaggio biblico in rapporto più esplicito con i modi di sentire, di pensare, di vivere e di esprimersi propri della cultura locale. Dall’interpretazione si passa poi ad altre tappe dell’inculturazione, che portano alla formazione di una cultura locale cristiana, che si estende a tutte le dimensioni dell’esistenza (preghiera, lavoro, vita sociale, costumi, legislazione, scienza e arte, riflessione filosofica e teologica). La Parola di Dio è infatti un seme che trae dalla terra in cui si trova gli elementi utili alla sua crescita e alla sua fecondità (cf. Ad Gentes, 22). Di conseguenza, i cristiani devono cercare di discernere «quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ma nello stesso tempo devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del vangelo, di liberarle e di riferirle al dominio di Dio salvatore» (Ad Gentes, 11).
Non si tratta, come si vede, di un processo a senso unico, ma di una «reciproca fecondazione». Da una parte le ricchezze contenute nelle diverse culture permettono alla Parola di Dio di produrre nuovi frutti e, dall’altra, la luce della Parola di Dio permette di operare una scelta in ciò che le culture apportano, per rigettare gli elementi nocivi e favorire lo sviluppo di quelli validi. La piena fedeltà alla persona di Cristo, al dinamismo del suo mistero pasquale e al suo amore per la Chiesa fa evitare due false soluzioni: quella dell’“adattamento” superficiale del messaggio e quella della confusione sincretista (cf. Ad Gentes, 22).
Nell’Oriente e nell’Occidente cristiano l’inculturazione della Bibbia si è effettuata fin dai primi secoli e ha manifestato una grande fecondità. Non può, tuttavia, mai essere considerata conclusa; al contrario, deve essere ripresa costantemente, in rapporto con la continua evoluzione delle culture. Nei paesi di più recente evangelizzazione il problema si pone in termini diversi. I missionari, infatti, portano inevitabilmente la Parola di Dio nella forma in cui si è inculturata nel loro paese di origine. È necessario che le nuove chiese locali compiano sforzi enormi per passare da questa forma straniera di inculturazione della Bibbia a un’altra forma, che corrisponda alla cultura del proprio paese.
C. Uso della Bibbia
1. Nella liturgia
Fin dagli inizi della Chiesa, la lettura delle Scritture è stata considerata parte integrante della liturgia cristiana, erede in parte della liturgia sinagogale. Ancora oggi i cristiani entrano in contatto con le Scritture soprattutto attraverso la liturgia, in particolare in occasione della celebrazione eucaristica della domenica.
In linea di massima, la liturgia, e specialmente la liturgia sacramentale, di cui la celebrazione eucaristica è il vertice, realizza l’attualizzazione perfetta dei testi biblici, perché ne situa la proclamazione in seno alla comunità dei credenti riuniti intorno a Cristo per avvicinarsi a Dio. Cristo è allora «presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura» (Sacrosanctum Concilium, 7). Il testo scritto diventa così nuovamente parola viva.
La riforma liturgica decisa dal concilio Vaticano II si è sforzata di presentare ai cattolici un più ricco nutrimento biblico. I tre cicli di letture delle messe domenicali accordano un posto privilegiato ai vangeli, in modo da mettere bene in evidenza il mistero del Cristo come principio della nostra salvezza. Mettendo regolarmente un testo dell’Antico Testamento in rapporto con il testo del vangelo, questo ciclo suggerisce spesso per l’interpretazione scritturistica le vie della tipologia. Questa, si sa, non è la sola lettura possibile.
L’omelia, che attualizza più esplicitamente la Parola di Dio, fa parte integrante della liturgia. Ne riparleremo più avanti, a proposito del ministero pastorale.
Il lezionario, nato dalle direttive del concilio (Sacrosanctum Concilium, 35), doveva permettere una lettura della Sacra Scritture «più abbondante, più varia e più adatta». Nel suo stato attuale esso risponde solo in parte a questo orientamento. Tuttavia la sua esistenza ha avuto felici effetti ecumenici. In alcuni paesi ha fatto anche misurare la mancanza di familiarità dei cattolici con la Scrittura.
La liturgia della Parola è un elemento decisivo nella celebrazione di ciascun sacramento della Chiesa. Non consiste solo in un semplice successione di letture, ma deve comportare anche dei tempi di silenzio e di preghiera. Questa liturgia, in particolare la liturgia delle ore, attinge dal libro dei Salmi per far pregare la comunità cristiana. Inni e preghiere sono tutte impregnate del linguaggio biblico e del suo simbolismo. Ciò dimostra quanto sia necessario che la partecipazione alla liturgia sia preparata e accompagnata da una pratica della lettura della Bibbia.
Se nelle letture «Dio rivolge la parola al suo popolo» (Missale Romanum, n. 35), la liturgia della Parola esige una grande cura sia per la proclamazione delle letture che per la loro interpretazione. È quindi auspicabile che la formazione dei futuri presidenti di assemblee e dei loro collaboratori tenga conto delle esigenze di una liturgia della Parola di Dio fortemente rinnovata. Così, grazie agli sforzi di tutti, la Chiesa proseguirà la missione che le è stata affidata «di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum, 21).
2. Lectio divina
La lectio divina è una lettura, individuale o comunitaria, di un passo più o meno lungo della Scrittura accolta come Parola di Dio e che si sviluppa sotto lo stimolo dello Spirito in meditazione, preghiera e contemplazione.
La preoccupazione di una lettura regolare, anche quotidiana, della Scrittura corrisponde a una pratica antica della Chiesa. Come pratica collettiva, è attestata nel III secolo, all’epoca di Origene; questi faceva l’omelia a partire da un testo della Scrittura letto in modo continuato durante la settimana. Esistevano allora assemblee quotidiane dedicate alla lettura e alla spiegazione della Scrittura. Questa pratica, in seguito abbandonata, non incontrava sempre un grande successo presso i cristiani (cf. Origene, Hom. Gen., X, 1).
La lectio divina come pratica soprattutto individuale è attestata nell’ambiente monastico dei primi tempi. Nel nostro tempo un’Istruzione della Commissione Biblica approvata dal papa Pio XII l’ha raccomandata a tutti i chierici, secolari e religiosi (De Scriptura Sacra, 1950; EB 592). L’insistenza sulla lectio divina sotto il suo duplice aspetto, comunitario e individuale, è quindi diventata nuovamente attuale. Lo scopo inteso è quello di suscitare e alimentare «un amore effettivo e costante» per la Sacra Scrittura, fonte di vita interiore e di fecondità apostolica (EB 591 e 567), di favorire anche una migliore comprensione della liturgia e di assicurare alla Bibbia un posto più importante negli studi teologici e nella preghiera.
La costituzione conciliare Dei Verbum (n. 25) insiste ugualmente su una lettura assidua delle Scritture per i sacerdoti e i religiosi. Inoltre, ed è questa una novità, invita tutti «i fedeli di Cristo» ad apprendere «la sublime conoscenza di Gesù Cristo» (Fil 3, 8). Vengono proposti diversi mezzi. Accanto a una lettura individuale, viene suggerita una lettura in gruppo. Il testo conciliare sottolinea che la lettura della Scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera, poiché questa è la risposta alla Parola di Dio incontrata nella Scrittura sotto l’ispirazione dello Spirito. Nel popolo cristiano sono state intraprese numerose iniziative per una lettura comunitaria e non si può che incoraggiare questo desiderio di una migliore conoscenza di Dio e del suo disegno di salvezza in Gesù Cristo attraverso le Scritture.
3. Nel ministero pastorale
Il ricorso frequente alla Bibbia nel ministero pastorale, raccomandato dalla Dei Verbum (n. 24), assume forme diverse a seconda del tipo di ermeneutica di cui si servono i pastori e che i fedeli possono comprendere. Si possono distinguere tre situazioni principali: la catechesi, la predicazione e l’apostolato biblico. Intervengono numerosi fattori, in rapporto con il livello generale di vita cristiana.
La spiegazione della Parola di Dio nella catechesi –Sacrosanctum Concilium, 35; Direttorio Generale della Catechesi, 1971, 16– ha come fonte primaria la Sacra Scrittura, che, spiegata nel contesto della Tradizione, fornisce il punto di partenza, il fondamento e la norma dell’insegnamento catechetico. Uno degli scopi della catechesi dovrebbe essere quello di introdurre a una retta comprensione della Bibbia e alla sua lettura fruttuosa, che permetta di scoprire la verità divina che essa contiene e che susciti una risposta, la più generosa possibile, al messaggio che Dio rivolge attraverso la sua Parola all’umanità.
La catechesi deve partire dal contesto storico della rivelazione divina per presentare personaggi e avvenimenti dell’Antico Testamento e del Nuovo alla luce del disegno di Dio.
Per passare dal testo biblico al suo significato di salvezza per il tempo presente, si utilizzano procedimenti ermeneutici diversi, che producono vari tipi di commenti. La fecondità della catechesi dipende dal valore dell’ermeneutica usata. C’è il pericolo di limitarsi a un commento superficiale, che si fermi a una considerazione cronologica della successione degli eventi e dei personaggi.
La catechesi, evidentemente, non può sfruttare che una piccola parte dei testi biblici. In generale, usa soprattutto i racconti, sia del Nuovo che dell’Antico Testamento. Insiste sul decalogo. Dev’essere attenta a usare ugualmente gli oracoli dei profeti, l’insegnamento sapienziale e i grandi discorsi evangelici come quello della montagna.
La presentazione dei vangeli deve avvenire in modo da provocare un incontro con Cristo, che dà la chiave di tutta la rivelazione biblica e trasmette l’appello di Dio, al quale ciascuno deve rispondere. La parola dei profeti e quella dei «ministri della parola» (Lc 1, 2) deve apparire come rivolta ora ai cristiani.
Osservazioni analoghe si applicano al ministero della predicazione, che deve trarre dai testi antichi un nutrimento spirituale adatto ai bisogni attuali della comunità cristiana.
Attualmente, questo ministero si esercita soprattutto alla fine della prima parte della celebrazione eucaristica, con l’omelia che segue la proclamazione della Parola di Dio.
La spiegazione che viene data dei testi biblici nel corso dell’omelia non può entrare in molti dettagli. Conviene perciò mettere in luce i contributi principali di questi testi, quelli che sono più illuminanti per la fede e i più stimolanti per il progresso della vita cristiana, comunitaria o personale. Presentando questi contributi, bisogna fare opera di attualizzazione e di inculturazione, come è stato detto sopra. A questo scopo sono necessari validi principi ermeneutici. Una mancanza di preparazione in questo campo ha come conseguenza la tentazione a rinunciare ad approfondire le letture bibliche e che ci si limiti a moraleggiare o a parlare di questioni attuali, senza illuminarle con la luce della Parola di Dio.
In diversi paesi sono state realizzate pubblicazioni, con l’aiuto di esegeti, per aiutare i responsabili pastorali a interpretare correttamente le letture bibliche della liturgia e ad attualizzarle in mo valido. È auspicabile che simili sforzi abbiano una sempre maggiore diffusione.
Va certamente evitata un’insistenza unilaterale sugli obblighi che si impongono ai credenti. Il messaggio biblico deve conservare il suo carattere principale di buona novella della salvezza offerta Dio. La predicazione farà opera più utile e più conforme alla bibbia se aiuta prima di tutto i fedeli a «conoscere il dono di Dio» (Gv 4, 10), così com’è rivelato nella Scrittura, e a comprendere modo positivo le esigenze che ne derivano.
L’apostolato biblico ha l’obiettivo di far conoscere la Bibbia come Parola di Dio e fonte di vita. In primo luogo, favorisce la traduzione della Bibbia nelle lingue più diverse e la diffusione di queste traduzioni. Suscita e sostiene numerose iniziative: formazione di gruppi biblici, conferenze sulla Bibbia, settimane bibliche, pubblicazione di riviste e di libri, ecc.
Un importante contributo viene offerto dalle associazioni e movimenti ecclesiali che mettono al primo posto la lettura d Bibbia in una prospettiva di fede e di impegno cristiano. Numerose “comunità di base” centrano le loro riunioni sulla Bibbia e propongono un triplice obiettivo: conoscere la Bibbia, costruire la comunità e servire il popolo. Anche qui l’aiuto degli esegeti è utile per evitare attualizzazioni poco fondate. Ma è motivo di gioia vedere la Bibbia presa in mano da gente umile e povera, che può fornire alla sua interpretazione e alla sua attualizzazione una luce più penetrante, dal punto di vista spirituale ed esistenziale, di quelli che viene da una scienza sicura di se stessa (cf. Mt 11, 25).
L’importanza sempre crescente dei mezzi di comunicazione di massa (mass-media), stampa, radio, televisione, esige che l’annuncio della Parola di Dio e la conoscenza della Bibbia siano propagati attivamente con questi strumenti. Gli aspetti molto particolari di questi ultimi e, d’altra parte, la loro influenza su un pubblico vasto richiedono per la loro utilizzazione una preparazione specifica che permetta di evitare pietose improvvisazioni, nonché effetti spettacolari di cattivo gusto.
Che si tratti di catechesi, di predicazione o di apostolato biblico, il testo della Bibbia dev’essere presentato sempre con il rispetto che merita.
4. Nell’ecumenismo
Se l’ecumenismo, in quanto movimento specifico e organizzato è relativamente recente, l’idea dell’unità del popolo di Dio, che questo movimento si propone di restaurare, è profondamente radicata nella Scrittura. Un tale obiettivo era la preoccupazione costante del Signore (Gv 10, 16; 17, 11.20-33). Esso suppone l’unione dei cristiani nella fede, nella speranza e nella carità (Ef 4, 2-5), nel rispetto reciproco (Fil 2, 1-5) e nella solidarietà (1Cor 12, 14-27; Rm 12, 4-5), ma anche e soprattutto l’unione organica a Cristo, come tralcio alla vite (Gv 15, 4-5), o le membra al capo (Ef 1, 22-23; 4, 12-16). Questa unione dev’essere perfetta, a immagine di quella del Padre e del Figlio (Gv 17, 11-22). La Scrittura ne definisce il fondamento teologico (Ef 4, 4-6; Gal 3, 27-28). La prima comunità apostolica ne è un modello concreto e vivo (At 2, 44; 4, 32).
La maggior parte dei problemi che affronta il dialogo ecumenico ha un rapporto con l’interpretazione dei testi biblici. Alcuni di questi problemi sono di ordine teologico: l’escatologia, la struttura della Chiesa, il primato e la collegialità, il matrimonio e il divorzio, l’attribuzione del sacerdozio ministeriale alle donne, ecc. Altri sono di ordine canonico e giurisdizionale; riguardano l’amministrazione della Chiesa universale e delle chiese locali. Altri, infine, sono di ordine strettamente biblico: la lista dei libri canonici, alcuni problemi ermeneutici, ecc.
L’esegesi biblica, anche se non può avere la pretesa di risolvere da sola tutti questi problemi, è chiamata a dare all’ecumenismo un contributo importante. Progressi notevoli si sono già registrati. Grazie all’adozione degli stessi metodi e di analoghe finalità ermeneutiche, gli esegeti di diverse confessioni cristiane sono arrivati a una grande convergenza nell’interpretazione delle Scritture, come mostrano i testi e le note di molte traduzioni ecumeniche della Bibbia, nonché altre pubblicazioni.
È opportuno, d’altra parte, riconoscere che, su alcuni punti particolari, le divergenze nell’interpretazione delle Scritture sono spesso stimolanti e possono rivelarsi complementari e fruttuose. Tale è il caso quando esse esprimono i valori delle tradizioni particolari di diverse comunità cristiane e traducono così i molteplici aspetti del mistero di Cristo.
Poiché la Bibbia è la base comune della regola di fede, l’imperativo ecumenico comporta, per tutti i cristiani, un pressante appello a rileggere i testi ispirati, nella docilità allo Spirito Santo, nella carità, nella sincerità e nell’umiltà, a meditare questi testi e a viverli, in modo da giungere alla conversione del cuore e alla santità di vita, che, insieme alla preghiera per l’unità dei cristiani, sono l’anima di tutto il movimento ecumenico (cf. Unitatis Redintegratio, 8). Bisognerebbe perciò rendere accessibile al maggior numero possibile di cristiani l’acquisizione della Bibbia, incoraggiare le traduzioni ecumeniche, un testo comune, infatti, aiuta a una lettura e a una comprensione comuni, promuovere gruppi di preghiera ecumenici al fine di contribuire, attraverso una testimonianza autentica e vivente, alla realizzazione dell’unità nella diversità (cf. Rm 12, 4-5).
CONCLUSIONE
Da quanto è stato detto nel corso di questa lunga esposizione, che tuttavia rimane troppo breve su molti punti, la prima conclusione che emerge è che l’esegesi biblica adempie, nella chiesa e nel mondo, a un compito indispensabile. Voler fare a meno di essa per comprendere la Bibbia sarebbe un’illusione e dimostrerebbe una mancanza di rispetto per la Scrittura ispirata.
I fondamentalisti, pretendendo di ridurre gli esegeti al ruolo di traduttori (ignorando che tradurre la Bibbia significa già fare opera di esegesi) e rifiutando di seguirli più avanti nei loro studi, si rendono conto che, per un’encomiabile preoccupazione di piena fedeltà alla Parola di Dio, si incamminano in realtà su strade che li allontanano dal senso esatto dei testi biblici, come anche dalla piena accettazione delle conseguenze dell’Incarnazione. La Parola eterna si è incarnata in un momento preciso della storia, in un ambiente sociale e culturale ben determinato. Chi desidera ascolta deve umilmente cercarla là dove essa si è resa percettibile, accettando il necessario aiuto del sapere umano. Per parlare agli uomini e alle donne, fin dal tempo dell’Antico Testamento, Dio ha sfruttato tutte le possibilità del linguaggio umano, ma nello stesso tempo ha dovuto sottomettere la sua Parola a tutti i condizionamenti di questo linguaggio. Il vero rispetto per la Scrittura ispirata esige che si compiano tutti gli sforzi necessari perché si possa cogliere bene il suo significato. Certo, non è possibile che ogni cristiano faccia personalmente le ricerche di ogni tipo che consentano di meglio comprendere i testi biblici. Questo compito è affidato agli esegeti, responsabili, in questo settore, del bene di tutti.
Una seconda conclusione è che la natura stessa dei testi biblici esige che, per interpretarli, si continui a usare il metodo storico-critico, almeno nella sue operazioni principali. La Bibbia, infatti, non si presenta come una rivelazione diretta di verità atemporali, bensì come l’attestazione scritta di una serie di interventi attraverso i quali Dio si rivela nella storia umana. Diversamente da molte dottrine sacre di altre religioni, il messaggio biblico è solidamente radicato nella storia. Ne consegue che gli scritti biblici non possono essere compresi correttamente senza un esame del loro condizionamento storico. Le ricerche “diacroniche” saranno sempre indispensabili all’esegesi. Gli approcci “sincronici”, qualunque sia il loro interesse, non sono in grado di sostituirle. Per funzionare in modo fecondo, devono prima accettarne le conclusioni, almeno nelle loro grandi linee.
Ma, una volta adempiuta questa condizione, gli approcci sincronici (retorico, narrativo, semiotico e altri) possono rinnovare in parte l’esegesi e fornire un contributo molto utile. Il metodo storico-critico, infatti, non può pretendere di avere il monopolio, ma deve prendere coscienza dei suoi limiti, come pure dei pericoli cui può andare incontro. I recenti sviluppi delle ermeneutiche filosofiche e, d’altra parte, le osservazioni che abbiamo potuto fare sull’interpretazione nella tradizione biblica e nella tradizione della Chiesa hanno messo in luce vari aspetti del problema dell’interpretazione che il metodo storico-critico tendeva a ignorare. Preoccupato infatti di fissare bene il significato dei testi situandoli nel loro contesto storico di origine, questo metodo si mostra talvolta insufficientemente attento all’aspetto dinamico del significato e alle sue possibilità di sviluppo. Quando non arriva fino allo studio della redazione, ma si concentra unicamente sui problemi delle fonti e della stratificazione dei testi, esso non adempie completamente al compito esegetico.
Per fedeltà alla grande Tradizione, di cui la Bibbia stessa è testimone, l’esegesi cattolica deve evitare per quanto possibile questo genere di deformazione professionale e mantenere la sua identità di disciplina teologica, il cui scopo principale è l’approfondimento della fede. Questo non significa un minore impegno nella ricerca scientifica più rigorosa, né la deformazione dei metodi a causa di preoccupazioni apologetiche. Ogni settore della ricerca (critica testuale, studi linguistici, analisi letterarie, ecc.) ha le sue proprie regole, che deve seguire in piena autonomia. Ma nessuna di queste specialità è fine a se stessa. Nell’organizzazione d’insieme del compito esegetico, l’orientamento verso lo scopo principale deve restare effettivo e fare evitare dispersioni di energie. L’esegesi cattolica non ha il diritto di somigliare a un corso d’acqua che si perde nelle sabbie di un’analisi ipercritica. Adempie, nella Chiesa e nel mondo, una funzione vitale: quella di contribuire a una trasmissione più autentica del contenuto della Scrittura ispirata.
Proprio a questo scopo tendono gli sforzi dell’esegesi cattolica, in stretta connessione col rinnovamento delle altre discipline teologiche e col lavoro pastorale di attualizzazione e di inculturazione della Parola di Dio. Esaminando la problematica attuale ed esprimendo alcune riflessioni in proposito, la presente esposizione spera di aver facilitato, da parte di tutti, una presa di coscienza più chiara del ruolo degli esegeti cattolici.
Roma, 15 aprile 1993.
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NOTE
[1] Per «metodo» esegetico intendiamo un insieme di procedimenti scientifici messi in opera per spiegare i testi Parliamo di «approccio» quando si tratta di una ricerca orientata secondo un punto di vista particolare.
[2] Il testo di quest’ultimo capoverso ha ricevuto 11 voti favorevoli su 19 votanti; 4 hanno votato contro e 4 si sono astenuti. Quelli che hanno votato contro hanno chiesto che il risultato della votazione fosse pubblicato con il testo. La Commissione si è impegnata a farlo.
[3] L’ermeneutica della parola sviluppata da Gerhard Ebeling ed Ernst Fuchs parte da un altro approccio e appartiene a un altro campo di pensiero. Si tratta di una teologia ermeneutica più che di una filosofia ermeneutica. Ebeling concorda tuttavia con autori come Bultmann e Ricoeur nell’affermare che la Parola di Dio trova il suo pieno significato solo congiungendosi con coloro ai quali essa si rivolge.