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Day of Judaism (Italy) - January 17

2008 - «Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano» (Esodo 20, 7) - Sussidio

 

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Presentazione

Nel 1990 la Conferenza Episcopale Italiana ha dato inizio alla celebrazione, il 17 gennaio, della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, posta a preludio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che si tiene nei giorni immediatamente seguenti dal 18 al 25 gennaio. In Europa altre Conferenze Episcopali o Diocesi già da tempo attuano analoghe iniziative, in Austria, Francia, Polonia e Svizzera, a volte in collaborazione con altre Chiese e comunità ecclesiali e con Autorità e Comunità ebraiche. Lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano, intensamente promosso sotto il pontificato di papa Giovanni Paolo II, sta particolarmente a cuore a papa Benedetto XVI, che ne ha raccomandato a più riprese la promozione nei frequenti incontri con i Rabbini Capo d’Israele, di Roma, e con Autorità ed Organizzazioni ebraiche incontrate in varie parti del mondo.

La fondamentale prospettiva ecclesiologica ed ecumenica che caratterizza questa Giornata si motiva a partire dall’affermazione del Concilio Vaticano II: «Scrutando il mistero della Chiesa questo Sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo» (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, n. 4, 28 ottobre 1965). Sempre il Concilio ricorda che «gli ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono senza pentimento» (ibid., cfr. Romani 11, 28-29; Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, n. 16).

Dal 2005 quale tema generale della Giornata si è iniziato un programma di riflessione decennale che medita sulle “Dieci Parole” o Decalogo, rivelate a Mosè al Sinai. Le “Dieci Parole” sono considerate come un’unica espressione da parte del Signore Dio: «Tutti i dieci comandamenti il Santo Benedetto li pronunciò con una sola emissione di voce» (Rashi a Esodo 20, 1: Tutte queste parole). Il Comandamento che si pone come “Terzo” nell’ordine tradizionale seguito sia da ebrei, che da cristiani ortodossi e protestanti, suona:

«Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano.
Poiché il Signore non lascerà impunito chi avrà pronunciato il Suo nome invano»

(Esodo 20, 7-8)

Ad esso corrisponde, nell’ordine, quello che la tradizione sia cattolica da sant’Agostino in poi, che quella luterana, denominano il “Secondo” Comandamento.

Il Comandamento vieta l’uso sconsiderato del nome di Dio per fini falsi o superficiali. Conseguentemente afferma l’ineffabilità della maestà di Dio e la necessità per l’ebreo, in ogni momento della propria vita, dell’osservanza delle miztvot, con amore e timore. L’amore per Dio, in una prospettiva religiosa molto intensa, può giungere per l’ebreo, ove risulti necessaria tale testimonianza, sino al sacrificio della propria vita, (“Qiddush ha-Shem – Santificazione del Nome”).
Lo scopo di tale testimonianza è glorificare nel mondo il santo Nome. In tal modo, il Comandamento rivela all’uomo tutta la sua ricchezza, che ha i suo momento più alto nella proclamazione dell’universalità della santità e della santità dell’Eterno.

Rav Giuseppe Laras - Mons. Vincenzo Paglia

 

DAL SACRO AL SANTO

Avinu – Il Santo Nome di Dio, nostro Padre

Avinu – ‘Padre nostro’ – è l’invocazione più semplice e profonda che la Bibbia rivela al credente ebreo (Isaia 63, 16) e cristiano (Matteo 6, 9), Nome santo e amorevole per mezzo del quale l’Altissimo esprime la propria relazione di Creatore e Redentore con i figli prediletti. Il santo Nome si fa preghiera ardente e confidente, che sale dal cuore dei figli e delle figlie, come invocazione benedicente al Padre di tutti, rivoltagli ogni giorno nella Birkat ha-Torà (‘Benedizione della Torà’) ebraica e nel Pater cristiano.

Da questa fondamentale rivelazione che Dio è Creatore e Padre di tutti noi (cfr. Malachia 2, 10) discende la certezza del Suo amore eterno che si esprime in un’Alleanza irrevocabile, della quale le Dieci Parole costituiscono il sigillo etico per la condotta del popolo di Dio, figli e figlie dell’Altissimo. L’abisso della misericordia divina svelato nel Nome del Padre si fa appello alla coscienza umana, perché non profani questo santo Nome, ma vi corrisponda mediante un impegno di santificazione costante: «solo è capace di accettare la Legge quel popolo, che è giunto alla pienezza della responsabilità e della coscienza di sé» (Emmanuel Lévinas). (1)

“Siate santi, perché il Signore è Santo!” (Levitico 19,2)

Il Nome di Dio, rivelato a Mosè al roveto ardente (Esodo 3, 13-15), secondo la tradizione ebraica biblica e talmudica, viene circondato del massimo rispetto, e può essere pronunziato solo nelle benedizioni sacerdotali nel Tempio, e dal Sommo Sacerdote nel grande giorno del digiuno dell’Espiazione, Kippur. Chi custodisce il Nome in purità di cuore merita l’eredità di questo mondo e del mondo futuro (Qiddushin 71a), mentre all’opposto qualunque uso sacrilego è severamente condannato. La santità di Dio rende il suo nome ineffabile tre volte Santo, come cantano i serafini nella visione del profeta Isaia, ai quali fanno eco le voci di canto della comunità dei fedeli.

Ma non si tratta di una santità che isola l’altissimo al di fuori del mondo da lui stesso creato con amore, bensì di una santità che vuole parteciparsi alle creature secondo gradi e modalità diverse, che esprimono la presenza e la relazione di Dio con il creato, con l’umanità e con Israele. Dopo aver rivelato il suo Nome a Mosè, il Signore agisce con la potenza del Nome nel passaggio del Mar Rosso, quindi chiama il popolo a essere per lui “popolo santo” (Esodo 19,6), a imitazione dell’Essere divino: «Siate santi, perché il Signore è Santo!» (Levitico 19,2).

“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso (Luca 6, 36)

La santità divina si esprime sommamente nella misericordia, perciò i Saggi d’Israele insegnano che «Quanto Egli è misericordioso, sii anche tu misericordioso» (Sifre a Deuteronomio 10, 12). Gesù ripete più d’una volta questo insegnamento, sotto forma di appello ad imitare la perfezione (Matteo 5, 48) e la misericordia divina (Luca 6, 36), così che gli uomini «vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Matteo 5, 16). La stessa esortazione ripetono gli apostoli, raccomandando la legge regale e la norma suprema della carità, la quale «copre una moltitudine di peccati» (1 Pietro 4, 8). Così la misericordia, discesa dal cielo di Dio e applicata nella vita concreta, risale verso il cielo come nuovo appello che moltiplica la pietà dell’Altissimo e ne suscita nuovamente il perdono.

Celebrare il Nome comporta una vita di santità

Celebrare e santificare il Santo comporta l’impegno a una vita di santità in tutto ciò che c’è di positivo nell’esistenza della persona, come insegna il Talmud: «Santificati per mezzo di [tutto] ciò che è lecito» (Yebamot 20a) e ripete l’apostolo Paolo «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nell’amore» (Efesini 5, 1-2a). Le parole di lode e benedizione, che sgorgano dal cuore e escono dalle labbra, devono anch’esse esprimere quest’intima coerenza di fede e vita. Il Terzo comandamento c’insegna appunto a non spezzare questo legame, come invece avviene qualora il Nome divino sia pronunziato invano, o a sostegno del male e della menzogna.

E’ blasfemia tanto la bestemmia, quanto l’abuso del Nome divino per uso magico, o peggio per commettere un crimine, fino alle forme estreme, perciò «il terrorismo in tutte le sue manifestazioni, e l’assassinio ‘in nome di Dio’ non possono mai essere giustificati» (Comitato Internazionale Cattolico-Ebraico, Dichiarazione congiunta, Buenos Aires 2004). All’opposto, e specialmente nella società pluralista contemporanea, si richiede il rispetto reciproco per i segni religiosi delle varie fedi, in particolare da parte di quanti – ebrei, cristiani e musulmani – si rifanno all’unica radice abramica monoteista.

Dalle labbra e dal cuore dei figli escono parole di lode e preghiera

Il rispetto, la venerazione, l’adorazione, l’amore verso Dio si esprimono in particolare nelle forme della preghiera e della lode, personale e comunitaria, specialmente nella liturgia ebraica familiare e sinagogale, alla quale Gesù stesso prendeva normalmente parte, e dalla quale dopo di lui la Chiesa attinse per sviluppare i tesori della propria liturgia. Perciò nella proclamazione e nell’ascolto della Parola di Dio, così come nella recita e nel canto di Salmi e Inni, i cristiani possono tuttora apprendere e godere di quegli stessi tesori spirituali, che costituiscono e nutrono la vita di fede e di fedeltà ebraica ai doni di grazia divini. L’intero libro dei Salmi può esser considerato una Torà sotto forma di preghiera, e ciò vale in modo speciale per il Salmo 119 in lode della Torah. Ma anche il libro della preghiera ebraica pubblica, il Siddùr Tefillà, testimonia nelle sue composizioni il lungo cammino della preghiera, maturata lungo la storia, talora drammatica, del Popolo dell’Alleanza mosaica. Questa tensione spirituale suscita echi universali, in un crescendo di corresponsabilità etica come emerge nella preghiera per la pace di Rabbi Nachman di Bratzlaw: «Possa essere la tua volontà, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, che la guerra e il versamento di sangue scompaiano da questa terra e una grande e magnifica pace si diffonda per tutto il mondo». (2)

Rispetto del Nome e condanna della bestemmia (Levitico 24, 14-16)

Come la santificazione del Nome è tanto meritoria, che eleva anche la più piccola delle buone azioni, altrettanto la profanazione di esso è colpa così grave, che non basta il giorno dell’Espiazione a estinguerne il castigo meritato, ma occorrono ulteriori penitenze. Il giuramento falso, e ancor più la bestemmia, erano considerati trasgressioni da sanzionare con pene che arrivavano fino alla morte, eppure conservano ancor oggi un significato degno di attenzione. Se infatti è certo che «Dio si compiace non della morte del peccatore, ma che si converta e viva» (Ezechiele 18, 23), tuttavia è egualmente certo che non solo nell’intimo della coscienza e nella vita privata, ma ancor più nella vita sociale e pubblica, occorre manifestare reciproco rispetto per i segni religiosi delle singole fedi, e tra questi il posto più alto spetta senz’altro al nome divino.

 


II
PREGHIERE D’INTERCESSIONE

 

Benedetto sei Tu, Signore Dio nostro, re del mondo, che con imperscrutabile amore hai scelto Israele tra le genti come testimone del Dio Uno ed Unico.

  • Perché, accogliendo il dono di questa testimonianza, possiamo crescere
    nella fede, preghiamo…
  • Perché l’insegnamento religioso, la catechesi e la predicazione, favoriscano
    una conoscenza più approfondita della tradizione ebraica vivente ed educhino
    alla comprensione e al dialogo, preghiamo…
  • Perché nella lotta contro ogni forma di idolatria possiamo adempiere, in
    sincera amicizia con i fratelli ebrei, il servizio comune verso l’intera umanità,
    al fine che si manifesti nella storia la volontà di Dio, preghiamo…
  • Perché siamo vigilanti e risoluti nel condannare e nell’eliminare ogni forma
    di antigiudaismo e di razzismo, per collaborare secondo giustizia all’edificazione
    della pace, preghiamo…

    Preghiamo per gli Ebrei:

    Il Signore Dio nostro,
    che li scelse primi fra tutti gli uomini
    ad accogliere la sua parola,
    li aiuti a progredire sempre
    nell’amore del suo nome
    e nella fedeltà alla sua alleanza.

    Dio onnipotente ed eterno,
    che hai fatto le tue promesse
    ad Abramo e alla sua discendenza,
    ascolta la preghiera della tua Chiesa,
    perché il popolo primogenito della tua alleanza
    possa giungere alla pienezza della redenzione.

(Venerdì Santo, Preghiera universale, in Messale Romano, Riformato a norma dei Decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1973, 19832, rist. 2000, p. 149)

 


III
SCHEMA DI CELEBRAZIONE

Deuteronomio 30, 11-16
Benedizione su chi segue le vie del Signore
Salmo 1
Beato l’uomo che teme il Signore
Vangelo secondo Matteo 5, 17-19. 33-37. 48
Perfezione della Torà – Non spergiurare!

Preghiere d’intercessione e Benedizione dei Kohanim


IV
LA TERZA DELLE DIECI PAROLE


«Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano.
Poiché il Signore non lascerà impunito chi avrà pronunciato il Suo nome invano»

(Esodo 20, 7-8)

Riflessioni esegetiche e pastorali

Leggere la Bibbia con gli Ebrei

Secondo il documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (Prefazione di Joseph Ratzinger, Libreria Editrice Vaticana, 2001), la lettura ebraica della Bibbia «è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell’epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa» (n. 22, citato da Joseph Ratzinger nella Prefazione, p. 12). Ne consegue l’urgenza per i cristiani, dopo la Shoà, di promuovere «un rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’Antico Testamento» (ibid., pp. 12 e 55), poiché «i cristiani possono imparare molto dall’esegesi ebraica praticata per 2000 anni» (ibid.).

Spiritualità ed etica biblica

Dalla Bibbia commentata dagli ebrei e letta con loro in fraterno ascolto della parola di Dio, possiamo apprendere quale sia «La spiritualità della Torà», che rappresenta una “manifestazione della sapiente volontà di Dio” (Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, n. 43, pp. 102-104). Tutta la Torà è santa, come riconosce l’Apostolo (Romani 7, 12), in particolare in essa splende come fiaccola, per il suo universale valore perenne ed attuale, il Decalogo: «In una società spesso smarrita nell’agnosticismo e nell’individualismo e che soffre le conseguenze dell’egoismo e della violenza, ebrei e cristiani sono depositari e testimoni di un’etica segnata dai Dieci Comandamenti, nella cui osservanza l’uomo trova la sua verità e libertà» (Giovanni Paolo II, Discorso nella Sinagoga di Roma, 13 aprile 1986). Intorno al Decalogo si strutturano tutti i precetti, saldamente collegati, in modo che si esige una totale obbedienza e purezza di cuore, perché «chi osserva tutta la Torah, ma ne viola un solo precetto, diventa reo di tutti» (Giacomo 2, 10), e allo stesso modo chi ne osserva uno, li osserva tutti.

Il contesto della norma del rispetto del Nome

Al pari di tutti i Comandamenti, norme e precetti, anche il Terzo comandamento va compreso all’interno di tutto l’insegnamento della Torà (cfr. Levitico 19, 12; 25, 14-16; Deuteronomio 5, 11; 19, 16-21), e alla luce del precetto che li riassume: «Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo» (Levitico 19, 2). I precetti dati al Sinai, e in particolare i Dieci Comandamenti nei quali tutti sono come riassunti e unificati, sono dati all’uomo per la sua santificazione e nel contesto dell’Alleanza di salvezza. Ciò implica che “per l’uomo” la fede, l’alleanza, il culto e l’etica personale e sociale sono radicalmente unite dinanzi al Signore, come anche Gesù sottolinea quando insegna che il primo e maggior comandamento consiste nell’amore di Dio e del prossimo (Matteo 22, 34-40). Compito d’Israele tra tutti i popoli è di osservare responsabilmente questi precetti di santità (cfr. Sifra a Levitico 11, 44), così che per mezzo di essi il Nome sia benedetto da tutte le genti. La pregnanza etica di ciascun precetto è ben messa in rilievo da quanto i Saggi insegnano a proposito del Terzo comandamento: «Qual è il senso del versetto “Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano”? – Che tu non devi indossare i Telifim ne rivestirti del tuo Tallèt, e poi andare a compiere una trasgressione» (Pesiqta Rabbati 111b).

Una santa competizione

La santità del Nome divino è sentita dall’ebraismo collegata in modo speciale con la santa città di Gerusalemme e con il luogo del Tempio. Come ebrei e come cristiani possiamo unirci in una comune testimonianza di santità, perché il nome divino, invocato nei luoghi santi delle religioni, non sia profanato, a partire da Gerusalemme, in tutti i luoghi del mondo e nella persona umana, tempio dove abita “l’immagine divina”.

Ricordiamo l’impegno comune espresso dal Comitato Internazionale Cattolico-Ebraico a tutela della libertà religiosa e dei luoghi santi: «Come rappresentanti delle comunità di fede cattolica ed ebraica, ci uniamo nel rivolgere un appello a uomini e donne di tutte le fedi, perché onorino la libertà religiosa e trattino con rispetto gli altrui luoghi santi. A tutti ci rivolgiamo, affinché rifiutino di considerare, quali forme legittime di espressione politica, gli attacchi alla libertà religiosa e la violenza contro luoghi santi.

Attendiamo in continua preghiera il momento in cui tutti godranno del diritto di vivere religiosamente senza ostacoli e nella pace. Desideriamo ardentemente un tempo in cui i luoghi santi di tutte le tradizioni religiose saranno sicuri, e tutti tratteranno gli altrui luoghi santi con reciproco rispetto». (Comitato Internazionale Cattolico-Ebraico, Dichiarazione congiunta, New York 2001).


1. Emmanuel Lévinas, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, Introduzione di Sofia Cavalletti, Città Nuova, Roma 1985, p. 31.
2. Dalla preghiera per la pace di Rabbi Nachman di Bratzlaw, in Schalom ben-Chorin, Il Giudaismo in preghiera. La liturgia della Sinagoga, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 95.

 

 

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