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Antisemitismo: una piaga da guarire

Card. Walter Kasper - Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani Presidente della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo
Saint-Siège (2003/09/07)

 

In occasione della IV Giornata Europea della Cultura Ebraica, la Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo desidera offrire il contributo di queste riflessioni per richiamare l'attualità dell'impegno a favore del dialogo ebraico-cristiano; l'importanza di un incontro di riconciliazione e di amicizia con i figli d'Israele; la necessità di sradicare atteggiamenti di discriminazione e di antisemitismo, che «si oppongono ai principi del cristianesimo» (Giovanni Paolo II, N. 8: Insegnamenti 11/3, 1988, 1134, citato in Noi ricordiamo: Una riflessione sulla Shoah, 1998), turbano la pacifica convivenza, e rendono più profonde e dolorose ferite non ancora rimarginate.



Insieme alla fede dei Padri e alla Torà, il Tempio di Gerusalemme — almeno finché Tito non lo distrusse nel 70 — rappresentava il cuore dell'ebraismo, eccezion fatta per alcuni gruppi come gli esseni e i samaritani. Il Tempio costituiva uno dei luoghi di riunione e di preghiera anche per i primi discepoli del Risorto, guardati a volte dalle autorità con sospetto, con stima dal popolo, del quale condividevano la fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di Sara e di Rebecca, di Rachele e Lia. C'era in tutti la consapevolezza di far parte dell'unico popolo di Dio, con il quale l'Altissimo aveva stretto alleanza, con il giuramento fatto ai padri, suggellato dopo il passaggio del Mar Rosso al Sinai, aperto alla promessa e alla speranza di rinnovamento e redenzione universale secondo l'annuncio messianico dei profeti. Il fariseo Gamaliele aveva saggiamente ammonito il sinedrio a non pretendere di spegnere con la forza un movimento spirituale nuovo, che trovava in Simon Pietro e Giacomo due leader carismatici, e che forse interpretava rettamente la tradizione ebraica e la speranza d'Israele. Un altro fariseo, discepolo di Gamaliele, il giovane Saulo di Tarso, si oppose dapprima con violenza ai seguaci di Gesù, ma dopo un'esperienza eccezionale di conversione aderì totalmente al Vangelo e divenne Paolo, l'apostolo dei pagani, percorrendo il Mediterraneo e l'impero fino al martirio in Roma. Sull'unico popolo di Dio, Israele, l'apostolo volle innestare l'olivo selvatico dei gentili, e lentamente ha preso più concreta forma la Chiesa di Cristo «sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» (Efesini 2, 20), nei due rami di Ecclesia ex circumcisione e di Ecclesia ex gentibus, come si può ammirare nel mosaico paleocristiano di Santa Sabina sull'Aventino.

L'insieme delle Sacre Scritture — sia quelle ebraiche del TaNaKH (Torà, Nevi 'im e Ketuvim) che poi nel canone cristiano saranno dette Antico Testamento, sia quelle del Nuovo Testamento — è concorde nel testimoniare che Dio non ha abbandonato la sua Alleanza con il popolo ebraico (o «giudaico») delle dodici tribù d'Israele. Naturalmente quello che può apparire come un pericoloso particolarismo esclusivista è bilanciato, nelle stesse Scritture, da un duplice universalismo messianico, sia ad intra, nella tensione fra diaspora ebraica ed ebrei della Terra d'Israele (Erez Israel), sia ad extra, nella tensione fra il popolo ebraico ('am Israel) e tutti i popoli, chiamati a entrare nella stessa comunione di pace e di redenzione del popolo primogenito dell'alleanza.

La Chiesa, pertanto, in quanto «popolo messianico», non si sostituisce a Israele, ma vi s'innesta, secondo la dottrina paolina, mediante l'adesione a Gesù Cristo morto e risorto, salvatore del mondo, e questo legame costituisce un vincolo spirituale radicale, unico e insopprimibile da parte cristiana. La concezione opposta — di un Israele un tempo (olim) prescelto, ma poi per sempre ripudiato da Dio e sostituito ormai dalla Chiesa — benché abbia avuto larga diffusione per quasi venti secoli, non rappresenta in realtà una verità di fede, come si vede sia negli antichi Simboli della chiesa primitiva, sia nell'insegnamento dei principali concili, in particolare del Concilio Vaticano II (Lumen Gentium 16, Dei Verbum 14-16, Nostra Aetate 4). Del resto, neppure Agar né Ismaele furono mai ripudiati da Dio, che ne fece «una grande nazione» (Genesi 21, 13); e Giacobbe, l'astuto «soppiantatore», ricevette infine l'abbraccio di Esaù. Il più recente documento della Pontificia Commissione Biblica su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana (2001), dopo aver riconosciuto la «forza sorprendente dei legami spirituali che uniscono la Chiesa di Cristo al popolo ebraico» (n. 85), conclude osservando che «Nel passato, tra il popolo ebraico e la Chiesa di Cristo Gesù, la rottura è potuta sembrare talvolta completa, in certe epoche e in certi luoghi. Alla luce delle Scritture questo non sarebbe mai dovuto accadere, perché una rottura completa tra la Chiesa e la Sinagoga è in contraddizione con la Sacra Scrittura» (ibidem).

Nel contesto attuale, che non può prescindere dall'orrenda strage della Shoà nel secolo XX, il cardinale Joseph Ratzinger, introducendo questo documento, pone di conseguenza l'interrogativo: «Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare nei confronti di questo popolo una ostilità, che ha favorito l'ideologia di coloro che volevano sopprimerlo?». Il documento ammette onestamente che molti passi neotestamentari critici verso gli ebrei «si prestano a servire da pretesto all'antigiudaismo, e sono stati effettivamente utilizzati in questo senso» (n. 87). Alcuni anni prima lo stesso Papa Giovanni Paolo II aveva dichiarato che «nel mondo cristiano — non dico da parte della Chiesa in quanto tale — interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebraico e la sua presunta colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo» (31 ottobre 1997). Accadde così che «sentimenti di antigiudaismo in alcuni ambienti cristiani, e la divergenza che esisteva tra la Chiesa e il popolo ebraico, condussero a una discriminazione generalizzata» verso gli ebrei, nel corso dei secoli, in particolare nell'Europa cristiana (Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l'Ebraismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998).

Durante il secolo XIX, in un mutato contesto storico volto al superamento dell'antico regime che univa Chiesa e Stato, «cominciò a diffondersi in vario grado, attraverso la maggior parte d'Europa, un antigiudaismo che era essenzialmente più sociopolitico che religioso» (ibidem). Questa evoluzione dell'antigiudaismo, con l'aggiunta di confuse teorie sull'evoluzione e la superiorità della «razza ariana», ebbe per effetto quello che fu detto allora «antisemitismo», caratterizzato da esplosioni di violenza, pogrom e pubblicazioni di libelli antiebraici del tipo dei Protocolli dei savi anziani di Sion. In tale mentalità pervasa di disprezzo e perfino di odio verso gli ebrei, accusati di crimini orrendi come l'omicidio rituale, maturò l'indicibile tragedia della Shoà, il piano di sterminio orribilmente programmato dal governo nazista, che colpì le comunità ebraiche europee durante la seconda guerra mondiale. Le premesse ideologiche della Shoà, già ampiamente divulgate prima del conflitto, in opere come Mein Kampf e Der Mythus des zwanzigste Jahrhunderts (quest'ultimo messo all'Indice), non trovarono sufficiente opposizione né a livello culturale, né nell'ambito giuridico, né presso le comunità cristiane, anche se non mancarono reazioni, come quelle di G. Semeria, di G. Bonomelli o del giovane A. Bea. Purtroppo, però, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, non mancarono esempi di riviste cattoliche anche molto autorevoli, che pubblicavano articoli di carattere antisemita, e «più in generale, i pregiudizi antiebraici furono sempre attivi, scaturendo dall'“insegnamento di disprezzo” medievale, che fu una sorgente di stereotipi e di odio popolare» (J. Willebrands), così che si può affermare, in questo senso, che tale atteggiamento ha offerto un contesto favorevole alla diffusione dell'antisemitismo moderno. E va pure notato che la responsabilità di queste radici di odio tocca, in vario modo, con rare eccezioni, sia la cristianità occidentale che quella orientale, perciò richiede oggi una comune reazione ecumenica.

Anche il documento vaticano Noi ricordiamo (§ II) dichiara che «il fatto che la Shoà abbia avuto luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei». Pur se ci furono, prima e durante la Shoà, episodi di condanna e di reazione all'antisemitismo, sia a livello personale con atti di eroismo fino al martirio, come nel caso del prevosto di Berlino Bernhard Lichtenberg, sia a livello istituzionale, con la condanna dell'antisemitismo (ad esempio da parte del S. Uffizio nel 1928 e da parte di Papa Pio XI nel 1938), in genere «la resistenza spirituale e l'azione concreta di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe potuto aspettare da discepoli di Cristo» (ibidem, § IV). Anche in questo caso dunque, anzi in modo speciale a proposito dell'antisemitismo e della Shoà, possiamo a ragione parlare della necessità di compiere un processo di pentimento (teshuvà), che si concluda in atti esemplari e concreti, in quanto «come figli della chiesa, condividiamo infatti sia i peccati che i meriti di tutti i suoi figli» (ibidem, § V). Certo uno di tali atti è stato quello che il Papa compì solennemente il 12 marzo 2000 nella basilica di San Pietro, e suggellò il 26 marzo a Gerusalemme al Muro del Tempio. Siamo però tutti chiamati a partecipare negli atteggiamenti interiori, nelle preghiere e nei fatti, a questo medesimo cammino di conversione e riconciliazione, perché si tratta di un'esigenza da vivere in capite et in membris, non limitata ad alcuni gesti autorevolmente significativi o a documenti di pur alto livello.

Questo primo fondamentale impegno, di carattere spirituale e morale, ci riguarda tutti in quanto cristiani, ed ha perciò, possiamo dire, una dimensione spiccatamente ecumenica. Una seconda conseguenza, egualmente di natura teologica, è quella che scaturisce dal profondo, radicale e peculiare legame che unisce la Chiesa e il popolo ebraico «primogenito dell'alleanza» (Preghiera Universale del Venerdì Santo). Tale vincolo, da una parte ci spinge a rispettare e amare il popolo ebraico, dall'altra ci permette di cogliere nell'antisemitismo una ulteriore dimensione, rispetto a quella generale del razzismo o della discriminazione religiosa, che pure l'antisemitismo ha in comune con altre forme di odio etnico, culturale o religioso, come è descritto nel documento La Chiesa di fronte al razzismo (Pontificia Commissione Iustitia et Pax, 3 novembre 1988, I, § 15). Si tratta qui non solo della dimensione culturale, sociale, politica o ideologica — e più in generale «laica» — dell'antisemitismo, che pure deve molto preoccuparci, ma di un suo specifico aspetto, quello che già veniva fermissimamente condannato nel 1928 dalla Sede Apostolica quando definiva l'antisemitismo «odium adversus populum olim a Deo electum» (AAS XX/1928, pp. 103-104). Oggi, a settantacinque anni di distanza, l'unica modifica che ci sentiamo in dovere d'introdurre riguarda solo l'eliminazione di quell'olim («un tempo»): non è una cosa da poco, perché riconoscendo la perenne attualità dell'alleanza tra Dio e il suo popolo, Israele, potremo riscoprire a nostra volta, insieme con i fratelli ebrei, l'irrevocabile universalità della vocazione a servire l'umanità nella pace e nella giustizia, fino al pieno avvento del Suo regno. È quanto raccomanda il Pontefice anche nella sua esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa del 28 giugno scorso, ricordando il «rapporto che lega la Chiesa al popolo ebraico e il ruolo singolare di Israele nella storia della salvezza» (n. 56). Papa Giovanni Paolo II continua osservando che «occorre riconoscere le comuni radici che intercorrono tra il cristianesimo e il popolo ebraico, chiamato da Dio a un'alleanza che rimane irrevocabile (Romani 11, 29), avendo raggiunto la definitiva pienezza in Cristo. È, quindi, necessario favorire il dialogo con l'ebraismo, sapendo che esso è di fondamentale importanza per l'autocoscienza cristiana e per il superamento delle divisioni tra le Chiese» (ibidem). Il dialogo e la collaborazione tra cristiani ed ebrei «implica, tra l'altro, che si faccia memoria della parte che i figli della Chiesa hanno potuto avere nella nascita e nella diffusione di un atteggiamento antisemita nella storia e di ciò si chieda perdono a Dio, favorendo in ogni modo incontri di riconciliazione e di amicizia con i figli di Israele» (ibidem). In questo spirito di ritrovata fraternità potrà rifiorire una nuova primavera per la Chiesa e per il mondo, con il cuore rivolto da Roma a Gerusalemme e alla terra dei Padri, perché anche là possa germogliare e maturare presto una pace durevole e giusta per tutti, come un vessillo innalzato in mezzo ai popoli.

L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 7 Settembre 2003

 

 

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