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Day of Judaism (Italy) - January 17

2009 - L'incontro tra ebrei e cristiani alla luce delle Sacre Scritture (Diocesi Tuscolana, Grottaferrata)

 

Grottaferrata, 17 gennaio 2009 Michael P. Maier, Cattedra per la Teologia del Popolo di Dio
Qualsiasi incontro che non si svolge solo a un livello oggettivo, tecnico, con finalità ben precise, ma che traccia un ponte di comprensione e di confidenza tra due persone, è un miracolo. Un miracolo ancora maggiore è quando ebrei e cristiani si incontrano, nonostante una lunga storia, complicata e spesso dolorosa! Noi non possiamo esigere che questo incontro avvenga, possiamo soltanto desiderarlo e invocarlo. Ciò, invece, che possiamo e dobbiamo fare è prepararci affinché l'altro ci trovi pronti e ben disposti quando è giunto il momento dell’incontro. Proprio questo vogliamo fare stasera, nell’odierna Giornata del dialogo ebraico-cristiano: vogliamo prepararci all’incontro che verrà. Il dialogo ebraico-cristiano un tempo e oggi Fin dall’inizio l’incontro tra ebrei e cristiani è sempre avvenuto sulla base delle Sacre Scritture. Nel passato, però, consisteva per lo più nello scontro tra due avversari, di cui uno partecipava solo forzatamente. Soltanto negli ultimi decenni si è sviluppata la consapevolezza che ebrei e cristiani sono chiamati al dialogo per essere alleati di fronte ad un mondo che in parte è ripiombato nel paganesimo e in parte è radicalizzato dalla religione. Per cominciare, vorrei illustrare rapidamente, attraverso due episodi, quanto si sia trasformato il rapporto tra ebrei e cristiani. Il primo risale a oltre 700 anni fa e si svolse a Barcellona nel luglio del 1263. Il secondo è avvenuto appena tre mesi fa, lo scorso ottobre a Roma. Nell'estate del 1263 a Barcellona ebbe luogo un incontro di grande rilevanza, una disputa tra il teologo cristiano Fra Pablo Christiani e il noto rabbino Mosè ben Nachman, chiamato anche Nachmanide. Essi discussero di argomenti centrali della fede ebraica e di quella cristiana, soprattutto del Messia e della Trinità. Entrambi attinsero la loro argomentazione dalla Bibbia, tuttavia giunsero a risultati completamente diversi, addirittura opposti tra di loro. Sembrò come se ognuno avesse tra le mani una Bibbia diversa. Questa disputa, come tutte le altre avvenute nel Medioevo, soffriva di un gravissimo difetto: fu indetta e diretta dal re, in questo caso da Giacomo I d’Aragona, il Conquistatore. Fu lui a pronunciare il giudizio e da lui dipesero il bene e il male di entrambe le parti. Poiché re Giacomo era cristiano, il rabbino non poté sperare di vincere. Piuttosto dovette mettere in conto il peggio: la pena pecuniaria, l'arresto, il rogo dei libri sacri o l'espulsione. Inoltre era in gioco anche il destino di tutte le comunità ebraiche del regno. Le fonti, purtroppo, non ci raccontano come andò a finire la disputa e se ci furono un vincitore e un vinto. Ma sappiamo che Nachmanide lasciò la città e il regno d’Aragona (sicuramente per mettersi al sicuro!) e emigrò in Terra Santa dove visse fino alla sua morte. Il secondo avvenimento, che vorrei ricordare, l’abbiamo visto tutti noi: lo scorso 6 ottobre, per la prima volta, un rabbino, il rabbino capo di Haifa, Shear-Yashuv Cohen, è intervenuto al Sinodo dei vescovi. In questo caso non si è trattato di stabilire chi avesse o non avesse ragione, ma si è trattato di uno studio comune, di una comprensione maggiore della Scrittura con l'aiuto della ricca tradizione ebraica. Il Rabbino Cohen ha spiegato ai padri sinodali il significato della Sacra Scrittura per il giudaismo, soprattutto nella liturgia, nella preghiera e nell'educazione. Egli è stato disponibile ad intervenire, perché ormai da anni conosce persone della Comunità di Sant'Egidio e perché ha partecipato già due volte ad un incontro con rappresentanti del Vaticano a Villa Cavalletti. Al termine del suo intervento è stato cordialmente salutato da Papa Benedetto XVI, e alla sera è stata data una festosa cena a casa dell'ambasciatore israeliano alla quale, insieme ai rabbini capi di Firenze e di Roma, ha partecipato anche il Cardinale Kasper, responsabile per le relazioni della Chiesa con l'ebraismo. Nella lunga serie di incontri tra ebrei e cristiani questo certamente segna una pietra miliare, o come ha detto lo stesso rabbino Cohen, “un segnale di speranza e di amore, di coesistenza, di pace per la nostra generazione e per le generazioni future”. Quali sono le “Sacre Scritture” degli ebrei? Dopo questa breve introduzione vorrei giungere al tema di questa sera: “L'incontro tra ebrei e cristiani alla luce delle Sacre Scritture”. Volutamente parlo di Sacre Scritture al plurale e non di Sacra Scrittura, perché la Bibbia degli ebrei e dei cristiani non è identica. Piuttosto hanno entrambi Sacre Scritture che per certi aspetti sono uguali, per altri sono diverse. Quali sono allora le Sacre Scritture degli ebrei e quale luce gettano sull'incontro tra ebrei e cristiani? La denominazione più importante della Bibbia ebraica è “TaNaKh”. Si tratta di un'abbreviazione, dell'unione delle lettere iniziali delle tre parti che costituiscono la Bibbia ebraica: T sta per Torà, N per Neviim (profeti) e K per Ketuvim (scritti). La prima parte della Bibbia ebraica, la più importante, è la Torà, i cinque libri di Mosè (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio). Secondo la tradizione, Dio ha rivelato la Torà a Mosè sul monte Sinai. Essa contiene tutte le leggi e i comandamenti che determinano la vita del popolo ebraico. La seconda parte della Bibbia è costituita dai libri profetici. Di questi fanno parte i libri storici che raccontano gli eventi dalla conquista del paese fino alla distruzione di Gerusalemme, così come i libri dei profeti Isaia, Geremia, Ezechiele ecc. Nella terza parte sono raccolti gli scritti poetici e sapienziali, tra cui i Salmi, il libro di Giobbe, il Cantico dei Cantici. Ogni settimana, durante la preghiera in sinagoga viene recitato un passo della Torà. All'inizio di ogni anno, la lettura comincia con il primo capitolo della Genesi (Gen 1), con la creazione del mondo, e finisce con l'ultimo del Deuteronomio (Dtn 34), con la morte di Mosè. Nello Shabbat di oggi, per esempio, viene letto il passo "Shemot" che comprende i capitoli 1 fino a 5 del libro dell'Esodo. In questo modo, nell'arco di un anno, paragrafo per paragrafo, vengono recitati tutti e cinque i libri di Mosè. Ad integrazione di ciò viene letto sempre un passo da un libro profetico adatto a chiarire e attualizzare il tema trattato. La comunità che ogni Shabbat si riunisce in preghiera, quindi, sente di anno in anno nuovamente l'intera storia del mondo e del popolo di Israele, iniziando con la creazione e le parole confortanti: "Egli vide che era cosa molto buona". Ma dove finisce questa storia? Dopo il racconto dell'Esodo dall'Egitto, le letture non conducono la comunità nella Terra. No, esse terminano nel momento in cui Israele si trova ai margini della Terra, nel momento in cui Mosè guarda dal Monte Nebo, abbraccia con lo sguardo tutta il paese e poi muore. Nello stesso Shabbat in cui viene letto questo passo, si ricomincia subito con la creazione del mondo. Così la liturgia guida sempre di nuovo la comunità ai margini della Terra. Israele la vede ai suoi piedi, ha la promessa che vi entrerà, ma non la possiede ancora. In questa immagine si esprime una profonda esperienza di fede: il popolo di Dio non ha la Terra come un possedimento stabile, ma deve costantemente guadagnarla; deve costantemente prepararsi ad entrarvi. Chi studia la Bibbia ebraica leggendo i libri nella loro sequenza farà un’osservazione simile. Comincerà la sua lettura sempre con il libro della Genesi e la terminerà con i libri delle Cronache, i quali raccontano ancora una volta tutta la storia, partendo da Adamo fino al tramonto del Regno di Giuda e all’esilio babilonese. Alla fine citano il decreto del Re persiano Ciro che invita i deportati a tornare a Gerusalemme e a ricostruire il Tempio. L'ultima frase – e con questa termina in assoluto la Sacra Scrittura degli ebrei – recita: “Chiunque di voi appartiene al suo popolo – il Signore, suo Dio, sia con lui – salga!” (2 Cr 36,23). Questa frase, sebbene pronunciata da un re straniero, riassume in sé un aspetto basilare dell’ebraismo: la speranza di un ritorno dei dispersi e di un ricongiungimento del popolo nella propria Terra. Questa speranza ha attraversato tutti i tempi fino a concretizzarsi in modo nuovo nel movimento sionista: chiunque appartenga al popolo ebraico dovrebbe partire per Gerusalemme, dovrebbe fare Alija, come oggi si dice. “Tanakh” e “Antico Testamento”, due versioni di un libro Il mio insegnante di ebraico moderno, Ran Regev, israeliano e studente di medicina a Roma, qualche settimana fa mi ha chiesto quale versione della Bibbia io uso per i miei corsi alla Gregoriana. Gli ho mostrato l'edizione scientifica dell'Antico Testamento, la Biblia Hebraica Stuttgartensia. Non la conosceva e si è sorpreso di trovare in essa lo stesso testo che viene utilizzato per la preghiera in sinagoga. Quindi possiamo dire chiaramente che Tanakh e Antico Testamento sono lo stesso libro, sono due denominazioni diverse per lo stesso libro. Tuttavia, la Chiesa Cattolica ha raccolto nel suo Antico Testamento anche altri scritti che non si trovano nel Tanakh. Anch'essi furono composti da ebrei ma non in lingua ebraica, bensì in lingua greca. Poi furono tramandati all’interno della traduzione greca della Bibbia, la traduzione dei Settanta. Negli ultimi secoli avanti Cristo l'ebraismo si era diffuso in tutta l'area mediterranea. Qui però si parlava il Greco e anche le comunità ebraiche usavano questa lingua. L'ebraico continuò, sì, ad essere utilizzato nelle funzioni religiose, ma da molti non fu più capito. Per questo motivo nel secolo III a.C. ad Alessandria, dove si concentrava la più grande comunità ebraica della diaspora, le Sacre Scritture vennero tradotte in Greco. Non dobbiamo stupirci se anche gli annunciatori del Vangelo, primo fra tutti l'apostolo Paolo, usarono la lingua greca per le loro prediche e lettere pastorali. Il cristianesimo poté diffondersi così velocemente appunto perché si aprì all'ellenismo, non solo per la sua lingua, ma anche per la sua filosofia. Per questo motivo, l'Antico Testamento, come conservato dalla Chiesa Cattolica, contiene, oltre agli scritti di lingua ebraica, altri libri redatti in Greco, come per esempio il libro della Sapienza, il Siracide, i libri dei Maccabei. La versione greca della Bibbia non è solo più ampia di quella ebraica, ma segue anche un ordine diverso. Comincia anch'essa con la creazione del mondo, con i patriarchi, l'esodo dall'Egitto e la rivelazione sul Sinai e racconta poi la storia del popolo di Israele nella Terra e il suo esilio. Ma a differenza del Tanakh a questo punto seguono gli scritti poetici e sapienziali, la risposta dell'uomo alle opere divine, con lodi e lamenti, detti sapienziali e riflessioni filosofiche. L'ultima parte delle Scritture è composta dai libri dei Profeti con le loro promesse di un nuovo agire divino, per esempio mediante un Re ideale che salverà il suo popolo. La Settanta segue perciò un ordine cronologico: comincia con la storia passata, passa per la situazione presente per arrivare alle cose future. Essa termina con il libro del profeta Malachia che a sua volta si conclude con l’annuncio della venuta di Dio. Una delle ultime frasi recita così: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore.” (Mal 3,23). Se nella Bibbia cristiana uno legge questa profezia e poi volta pagina ci si imbatte nel Vangelo di Matteo. Esso, fin dall’inizio, racconta che Elia è veramente venuto, e cioè nella figura di Giovanni Battista. Abbiamo visto, Tanakh e Antico Testamento sono un libro, due edizioni di un libro. L’esistenza di queste due versioni, una ebraica e una greca, non è un'imperfezione ma una ricchezza perché attraverso di esse la stessa tradizione, la stessa fede viene espressa in due modi: nella lingua originale ebraica, la “lingua sacra” e nella lingua universale, il Greco. La prima garantisce che la Parola di Dio venga conservata così com'è stata proclamata (in versione originale, per così dire), l'altra invece garantisce che la Parola di Dio raggiunga tutti gli uomini perché contiene un messaggio universale, valido per ogni luogo e ogni epoca. A Roma esiste una bellissima rappresentazione di questo legame. Si trova nella Chiesa di Santa Sabina all'Aventino, in un mosaico del V secolo. Esso mostra due nobili donne in vestiti preziosi, differenti tra di loro eppure di pari dignità. Portano in mano la Bibbia, l’una scritta con caratteri ebraici, l'altra con caratteri greci. Le due signore sono rappresentate nell’atto di benedire, come se dicessero: “Da questo libro deriva la benedizione per voi che appartenete al popolo di Israele, ex circumcisione, così come per voi che provenite dai pagani, ex gentibus.” Il mosaico testimonia che entrambe le lingue, entrambe le tradizioni possono coesistere l'una accanto all'altra, si completano reciprocamente, anzi, hanno perfino bisogno l'una dell'altra. L'interpretazione è importante tanto quanto la Bibbia Il Tanakh è la testimonianza autorevole e integrale della volontà di Dio. Esso contiene tutto – ciò che bisogna credere, ciò che bisogna sapere su Dio, sul mondo e sull’uomo, ciò che bisogna fare per essere popolo di Dio e ciò in cui si può sperare. Tuttavia, spesso non è possibile applicare direttamente i comandamenti biblici alla vita di una nazione che vive in circostanze molto differenti. A questo proposito, durante la mia ultima visita in Israele nella scorsa estate, un’ebrea ortodossa e professoressa di Gerusalemme ha spiegato: “Noi ebrei leggiamo il Tanakh, ma non viviamo secondo il Tanakh. La nostra vita è piuttosto regolata dal Talmud”. E’ il Talmud quindi ad essere la guida della vita nei suoi concreti dettagli. Ma che cos’è il Talmud? Questa domanda mi è stata rivolta recentemente persino da uno studente di teologia. Per i cattolici il Talmud forse è il libro meno conosciuto, più estraneo e inaccessibile. E' una raccolta di discussioni dei rabbini fatte durante molti secoli, dall'antichità fino al basso Medioevo, un dibattito su come vanno interpretati i comandamenti della Torà per poterli praticare nelle innumerevoli situazioni del quotidiano. Il Talmud è molto più vasto del Tanakh, è un'intera biblioteca di 63 volumi che trattano tutti i campi della vita. Per darvene un'idea cito solo i titoli delle sei parti principali: "Sementi", sui contributi per i sacerdoti e gli indigenti, "Stagioni", sui giorni di festa e di digiuno, "Donne", sul diritto di famiglia, "Danni", sul risarcimento dei danni e sulle pene, "Cose Sante", sul culto e i sacrifici e "Cose Pure", sulle norme della purezza. Il Talmud è composto in gran parte di materie legali, ma non è un codice di leggi come lo è il diritto canonico della Chiesa che riporta chiare istruzioni, ordinate in maniera sistematica. Esso è piuttosto il rendiconto di una continua discussione appassionata sul giusto modo di vivere, una disputa che in realtà non ha mai fine perché la vita presenta situazioni sempre nuove. Anche il Talmud è “Torà”, ovverosia istruzione. Secondo la fede ebraica anch'esso fu rivelato a Mosè sul monte Sinai, ma non fu trascritto immediatamente, bensì tramandato oralmente di generazione in generazione e solo alla fine registrato per iscritto. Per questo, e per distinguerlo dagli scritti biblici, fu chiamato la “Torà orale”. Quindi, tutto ciò che Dio volle trasmettere agli uomini è contenuto nella Torà, in quella scritta e in quella orale. Se si vuole conoscere la volontà divina non si ha bisogno di attendere una voce proveniente dal cielo o dal proprio cuore; si può trovare tutto in questi libri. Il Nuovo Testamento, la definitiva interpretazione di quello Antico Un processo simile è avvenuto anche nella tradizione cristiana. Anche in essa, all'Antico Testamento si è aggiunto un commento, il Nuovo Testamento, ovvero l'interpretazione definitiva della rivelazione divina. Sant'Agostino spiegò questa relazione così: Novum Testamentum in Vetere latet et Vetus in Novo patet – “Nell'Antico Testamento è nascosto il Nuovo, e nel Nuovo è manifesto l'Antico”. Il Nuovo Testamento dunque non sostituisce quello Antico al punto da essere autosufficiente. Al contrario, esso avvalora l'Antico Testamento e mostra come le sue promesse e le sue disposizioni possono essere comprese e trasferite nella vita. Esso è abbastanza breve e non contiene discussioni così dettagliate come il Talmud. A fornire i criteri per regolare la vita dei credenti, sono piuttosto la prassi e l’insegnamento di Gesù, la dottrina degli apostoli e i tanti esempi concreti riportati nelle loro lettere alle comunità. Senza l’Antico Testamento, e la storia del popolo di Dio in esso contenuta, il Nuovo Testamento rimarebbe incomprensibile. Per questo motivo, è per una grave incomprensione che alcuni teologi moderni pretendono che nelle terre di missione si debba sostituire l'Antico Testamento con le tradizioni locali, per esempio con la saggezza del Confucio o con gli insegnamenti degli anziani africani. Va detto con chiarezza: solo Antico e Nuovo Testamento insieme formano la unica Sacra Scrittura bipartita dei cristiani. A questo punto, però, devo precisare ancora una cosa: il cristianesimo, comunque, non si basa solo sulla Bibbia; esso, in fondo, non è nemmeno una religione del libro. Piuttosto trova la sua origine in una persona, Gesù di Nazaret. Egli stesso, non semplicemente il Nuovo Testamento, è la definitiva interpretazione della Torà. Nella preghiera dell'Angelus di due settimane fa Papa Benedetto ha affermato: “Conoscendo Gesù, stando con Lui, ascoltando la sua predicazione e vedendo i segni che Egli compiva, i discepoli hanno riconosciuto che in Lui si realizzavano tutte le Scritture” (4.1.2009). Già prima il Papa aveva spiegato che per i discepoli Gesù era la "Torà in persona", ovvero la “Torà incarnata”. Questo termine esprime il profondo legame che esiste tra Antico e Nuovo Testamento. Esprime anche una verità fondamentale della fede ebraico-cristiana: la Bibbia, preziosa e indispensabile com'è per riconoscere la volontà di Dio, non basta. La Parola che essa conserva per tutti i tempi, non vuole rimanere rinchiusa in un libro, ma vuole agire nella storia degli uomini e cambiare il mondo. Lo fa attraverso persone nei cuori delle quali Dio scrive la sua Torà (cfr. Ger 31,31-34). Nella vita dei credenti, non in quanto singoli individui, ma in quanto appartenenti al popolo di Dio, appare già ora qualcosa dello Shalom escatologico che caratterizza il nuovo mondo divino. Io credo che in questo non c’è divergenza tra cristiani ed ebrei. Forse sottolineiamo soltanto aspetti diversi: mentre gli uni sostengono con decisione che Dio ha bisogno di un popolo per realizzare le sue promesse, Israele, il suo Figlio primogenito e Servo, gli altri pongono al centro la persona di Gesù di Nazaret che come un re governa il suo popolo, vale a dire la Chiesa universale. Prospettive per il dialogo tra ebrei e cristiani Nella prima parte di questa conferenza abbiamo esaminato le Sacre Scritture degli ebrei e dei cristiani, in questa seconda e più breve parte, vorrei illustrare tre campi in cui potrebbe e dovrebbe avvenire il dialogo. Si tratta di temi centrali che, di fronte ad un mondo sempre più pagano, esigono una risposta comune, o se si vuole, una risposta a due voci. a) La memoria Affinché ci sia un dialogo autentico, un incontro fondato sulla verità, dobbiamo ricordare il passato. Dobbiamo guardare indietro agli avvenimenti che si sono succeduti nei 4000 anni passati, da quando Abramo uscì dalla sua terra oltre il Fiume. Dobbiamo ricordarci delle nostre radici e delle tante cose in comune, così come delle colpe e dei gravi torti, soprattutto da parte della Chiesa, da quando le due comunità si sono separate l'una dall'altra. Tra gli eventi da ricordare figurano, come ho spiegato all'inizio, le dispute teologiche e le crociate del Medioevo. Le conversioni forzate e l'espulsione degli ebrei dai paesi d'Europa. I ghetti e le leggi razziali. In particolar modo, la Shoah con l'uccisione di sei milioni di innocenti. E come risposta alla Shoah, la fondazione dello stato di Israele 60 anni fa. Per il popolo ebraico la memoria è di vitale importanza, il ricordo di essere stato condotto fuori dalla schiavitù e santificato mediante il dono della Torà. Ma ugualmente importante è ricordare che spesso il popolo non ha mantenuto fede al suo impegno e che perciò deve costantemente ricominciare, ritornare e convertirsi. Papa Giovanni Paolo II, nel Giubileo del 2000, ha spinto la Chiesa proprio in questa direzione; voleva ricordare una storia in cui i cristiani sono stati troppo spesso dalla parte dei potenti e si sono resi colpevoli nei confronti di altri, come per esempio degli ebrei. La Chiesa non deve temere di ammettere le proprie colpe; se le ricorda e si pente di esse, possono addirittura aiutare a compiere i prossimi passi e a gettare le basi per una cultura di una memoria condivisa, anche tra ebrei e cristiani. A quel punto persino dalla più grossa sciagura potrà prosperare la redenzione, secondo il detto del rabbino chassidico Baal Shem-Tov: "Il ricordo è il segreto della redenzione". b) La Terra Abbiamo visto che nella liturgia della sinagoga, ma anche nell'insegnamento e nel sentimento di ogni ebreo, la terra ricopre un ruolo decisivo. Quando un ebreo parla di Israele, lo chiama semplicemente ha’arets, la Terra. A questa terra gli ebrei rivolgono il proprio desiderio, a prescindere che essi vivano in Israele, nutrano l'idea di una possibile emigrazione o vivano perennemente in diaspora come molti ebrei di Roma. Anche per noi cristiani la terra di Israele è molto importante. Noi la chiamiamo "Terra Santa", perché vi è nato e morto Gesù Cristo. Molti vi vanno in pellegrinaggio, ma normalmente rimane un'esperienza spirituale momentanea. Allo stesso tempo, la Chiesa ha già da tempo spiritualizzato la “terra”; l’ha cercata più nel cielo e non nella vita delle comunità cristiane. Perciò, anche in questo campo è necessario un incontro tra ebrei e cristiani. I cristiani potrebbero accorgersi con stupore e gratitudine che una gran parte del popolo ebraico, dopo quasi 2000 anni di dispersione, vive nuovamente nella sua Terra e possiede uno stato proprio. Potrebbero vedere quali grandi progressi ha fatto questo paese negli ultimi 60 anni, tanto che oggi è un moderno stato democratico (che come tale ha i suoi problemi e ha anche dei nemici come vediamo in questi giorni). I pellegrini cristiani non dovrebbero visitare solamente i luoghi che ricordano Gesù. Dovrebbero visitare anche l’Israele attuale: le metropoli sulla costa, i Kibbutz, il museo Herzl del sionismo, il museo Yad-Vashem che ricorda la Shoah, la tomba di David Ben-Gurion nel deserto di Zin... Da ciò potrebbero imparare che Dio ha promesso al suo popolo una terra concreta in cui vivere e da sviluppare sul piano agricolo, tecnico e sociale. Perciò, il filosofo ebreo Martin Buber scrisse nel febbraio del 1939: "Questa terra viene chiamata santa, ma non è la santità di un'idea, è la santità di un pezzo di terra". Noi cristiani non viviamo in un paese, ma in tanti, sì, in realtà in tutti i paesi del mondo. Nostro compito non è quello di creare uno stato cristiano. Quello che potremmo fare, però, è creare nei luoghi in cui viviamo delle comunità, nelle quali un "pezzo di terra" viene trasformato e posto sotto il dominio di Dio. Le comunità cristiane, analogamente alle sinagoghe ebraiche, non sono uno stato ma una società in cui si conduce tutta la vita, dall'educazione dei bambini, al guadagno del denaro, alle questioni di salute, di lavoro e della casa, fino alla preghiera e alla celebrazione delle feste. Queste comunità sono come delle dependances della Terra Santa in tutto il mondo e in mezzo a tutte le culture. Dovrebbero anche essere luoghi in cui possono vivere ebrei i quali, per breve o lungo tempo, vogliono o devono vivere lontano da Israele. c) Il Popolo "Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli" (Es 19,5). Con queste parole, sul Sinai, Israele fu eletto alleato di Dio, popolo santo. Ciò non significa che per questo avrebbe ottenuto privilegi quali il potere, prestigio e successo politico ed economico. Al contrario, esso fu caricato di un peso: ricevette il “giogo della Torà” e con esso una serie di comandamenti affinché mostrasse alle altre nazioni la vita secondo la volontà di Dio. L’elezione di Israele non è un fine a se stesso, ma deve servire a tutti gli uomini – "perché mia è tutta la terra" (Es 19,5), come Dio proclama subito dopo. Alla fine, tutti gli uomini dovranno sapere qual è il disegno che Dio ha per il mondo e qual è il suo progetto per costruire la pace vera. Proprio per questo Dio ha bisogno di un popolo particolare quale strumento, simile ad un farmaco salvavita che nella fase di sperimentazione viene somministrato solo a dei volontari, prima di essere proposto a tutti gli ammalati. L’elezione del popolo di Israele fino ad oggi ha segnato la storia dell'umanità. Non perché Israele se ne sia vantato, ma perché le altre nazioni spesso ne hanno invidiato il ruolo speciale. Adolf Hitler, per esempio, ha reagito con il contro-concetto dell’elezione della razza ariana. In ultima analisi, anche il conflitto arabo-israeliano che non dà pace al Medio Oriente affonda in questo le sue radici. I profeti hanno spesso riflettuto sul modo in cui Israele sarebbe diventato una benedizione per le nazioni. In risposta essi hanno sviluppato l'immagine del pellegrinaggio dei popoli: quando Israele vivrà secondo la Torà e costruirà una società giusta e solidale, le altre nazioni ne saranno attratte; verranno al Sion per impararne le leggi e per sapere come anch'esse possono vivere in pace. Alla fine trasformeranno le armi in strumenti per coltivare la terra. Secondo questa visione profetica, Israele non susciterà più invidia e sentimento di concorrenza nelle nazioni, ma fascino e desiderio di imitazione. E’ un’utopia questa? Un sogno senza alcuna prospettiva di realizzazione? Lo si potrebbe quasi pensare, soprattutto in questi giorni in cui Israele deve difendersi con le armi contro la Hamas che dichiara senza mezzi termini di voler annientare il popolo ebraico e il suo stato. Eppure ci sono anche degli esempi di come l'attenzione al popolo di Dio abbia favorito la diffusione della pace nel mondo. Nel corso della storia singole persone, talvolta anche intere tribù si sono unite al popolo ebraico. Inoltre, nei tempi delle persecuzioni ci sono sempre stati i cosiddetti "Giusti tra le Nazioni" che prestavano aiuto in maniera disinteressata. Ma il pellegrinaggio dei popoli di gran lunga più grande avvenne duemila anni fa, quando moltissimi pagani si unirono alle comunità cristiane entrando così in contatto con gli insegnamenti della Torà. Non solo i primi teologi cristiani pensavano che attraverso la Chiesa universale si realizzasse il pellegrinaggio dei popoli. Lo pensava anche Maimonide, il più grande studioso ebraico del Medioevo, quando affermava: "Nel frattempo tutto il mondo è già pieno del pensiero messianico, delle parole della Legge e dei comandamenti; questo pensiero e queste parole si sono sparsi fino a terre lontane e a genti con il cuore e il corpo non circoncisi. Queste discutono fra di loro la Legge e la questione della sua validità." (Hilkhot Melakhim XI 4) Quale esempio attuale di come si sono sparsi i comandamenti divini, si potrebbe citare la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, di cui abbiamo celebrato il 60esimo anniversario lo scorso dicembre. In essa i principi umanitari della Bibbia ebraico-cristiana sono stati fissati come linee guida per tutta la comunità mondiale. Negli ultimi duemila anni la Chiesa era occupata a portare le "parole della Torà" alle nazioni. Ora è giunto il momento di portare le nazioni al Sion dove la Torà è uscita. Solo insieme con Israele le nazioni troveranno la strada della pace, dello Shalom, che Dio, secondo una bella espressione di Isaia, vuole donare "ai lontani e ai vicini" (Is 57,19). Una voce ebraica per il giorno di oggi Quando lo scorso novembre venimmo a sapere che la parte ebraica quest'anno non avrebbe partecipato alla Giornata del dialogo ebraico-cristiano, ne diedi notizia ad un amico ebreo, lo scrittore Chaim Noll (egli é nato in Germania, visse negli anni 90 a Roma da dove è poi emigrato in Israele). Come conclusione vorrei citare alcune frasi della mail che mi ha inviato come risposta: “Ho letto con grande interesse i tuoi commenti sull'ultimo dibattito circa il rapporto tra ebrei e cristiani. Sembra che ci sia una sorta di perplessità nello spingersi avanti e nell'impelagarsi in discussioni su concetti e contenuti. Considerando che tutto quello che noi facciamo in questo campo è completamente nuovo, e lo è tanto da togliere il fiato, mi sembra comprensibile il bisogno di qualche pausa occasionale per riaversi. Mi sembra anche comprensibile il bisogno di interrogarsi sulla propria posizione e sulle proprie intenzioni. In generale, io penso che il processo non possa più arrestarsi. Esso non ha avuto origine a comando di qualcuno, ma è nato da una profonda esigenza del cuore di entrambe le parti. Meglio ancora: da un profondo strazio dell’anima. Noi tutti, ebrei e cristiani, non vogliamo e non possiamo più vivere nella discordia. Primo, perché abbiamo visto quanto essa ci danneggia tutti. E poi, perché nel mondo odierno, di fronte alle sfide di oggigiorno, l'unica possibilità è quella di lavorare insieme.”
Testo della Conferenza Episcopale Italiana - PDF

 

 

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