Catholiques | Joints juif-chrétiens | Juifs | Oecuméniques | Autres Églises chrétiennes
Il Popolo che Dio ha chiamato a essere “Luce per le genti” – Visita alla Sinagoga e incontro con la Comunità Ebraica
Dionigi Tettamanzi - Arcivescovo di Milano
Italie (2003/09/30)
Signor Presidente dottor ingegner Roberto Jarach,
signor Rabbino Capo professor Giuseppe Laras,
sorelle e fratelli tutti della Comunità Ebraica di Milano,
vi sono molto riconoscente per avermi accolto in questa bellissima Sinagoga. A pochi giorni dalla festa di Rosh ha-shanà per l’inizio dell’anno 5764 del calendario ebraico e a un anno dal mio ingresso come Arcivescovo a Milano, sono qui, con particolare gioia umana e spirituale, per incontrare coloro che, in questa città, rappresentano – per tutto il mondo e, in particolare, per noi cristiani e per la nostra fede – il popolo che Dio ha chiamato a essere luce per le genti.
Ringrazio di vero cuore il Presidente e il Rabbino Capo per le parole che mi hanno gentilmente rivolto. Sono parole che esprimono certamente la loro personale sensibilità e apertura d’animo. Ma sento di doverle accogliere anche come espressione di quell’attenzione reciproca tra ebrei e cristiani che, a Milano, – come ha ricordato monsignor Francesco Coccopalmerio – ha fatto in questi anni non piccoli passi in avanti, grazie al clima di dialogo che l’episcopato del cardinale Carlo Maria Martini e il rabbinato di Rav Giuseppe Laras hanno sapientemente favorito.
1. Questi passi in avanti potranno consolidarsi e procedere ulteriormente nella misura in cui il dialogo tra cristiani ed ebrei si svilupperà senza confusione di identità: differenti, infatti, sono le nostre identità e distinte devono restare.
Il dialogo vero, quello che cerchiamo, può avvenire nell’incontro schietto e fraterno, destinato a stimolare una maggiore autocoscienza degli uni nei confronti degli altri.
In questa prospettiva, da parte nostra, come cristiani, non possiamo avere una corretta consapevolezza della nostra identità se prescindiamo da Israele, che è, secondo le stesse Scritture cristiane, la nostra «radice santa» (cfr. Romani 9-11).
Tanto meno possiamo prescindere dalle Scritture ebraiche che, per noi, costituiscono il primo Testamento della Bibbia. Per dono dell’Altissimo, noi le abbiamo in comune con voi che, come popolo, siete stati i primi destinatari delle promesse e della rivelazione del Dio Uno ed Unico.
In questo senso, Giovanni Paolo II ha più volte ricordato ai cristiani che voi ebrei siete «il popolo dell’alleanza mai revocata» perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Romani 11, 29). È questa una verità straordinaria che purtroppo – lo dobbiamo confessare –, nella nostra storia cristiana, abbiamo spesso dimenticato!
2. Le Scritture, che abbiamo in comune e che le nostre tradizioni accolgono come parola di Dio, ci svelano l’agire del Signore Dio nella storia: egli sceglie Israele, separandolo dagli altri popoli per un servizio sacerdotale fra le genti (cfr. Esodo 19, 5-6).
Così, ad esempio, nel libro di Isaia, Israele è esplicitamente designato più volte con il titolo di servo del Signore (cfr. 41, 8-9; 42, 1; 43, 10; 44, 1-2.21; 45, 4; 48, 20; 49, 3).
In particolare, nel primo canto del servo, Dio si rivolge al suo popolo con queste parole: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Isaia 42, 6-7). E, nel secondo canto, è il servo stesso che parla così del Signore: «Mi ha detto: Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria… Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Isaia 49, 3. 6b).
Isaia, dunque, annuncia che la gloria di Dio si manifesta nel servizio del suo popolo chiamato a essere luce delle nazioni, a portare la luce della parola di Dio a tutte le genti. Questa elezione di Israele, allora, è per una missione nel mondo e non viene meno nel tempo, perché è fondata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse.
Dio, poi, intende radunare il suo popolo per manifestare in esso la sua santità davanti alle genti, come afferma questo testo di Ezechiele: «Le genti sapranno che io sono il Signore quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo» (28, 25-26).
E, secondo Zaccaria, «popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a consultare e a supplicare il Signore… In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle genti afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: vogliamo venire con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi» (8, 20. 23).
3. È questo, anche agli occhi di un cristiano, il significato profondo della vocazione di Israele. Questa vocazione non è un privilegio da invidiare o di cui appropriarsi per sostituirsi al popolo eletto. È, invece, una grazia e un compito che il Dio Creatore e Signore della storia ha affidato al più piccolo di tutti i popoli della terra (cfr. Deuteronomio 7, 7): una grazia e un compito a vantaggio di tutti, che responsabilizzano il popolo eletto e che, anche da parte di noi cristiani, vanno accolti con gratitudine verso l’Onnipotente.
Mediante la testimonianza visibile della diversità di questo popolo, infatti, tutte le genti sono provocate a riconoscere l’alterità di un Dio che, nello stesso tempo, è trascendente e immanente, perché le sue vie e i suoi pensieri non sono come i nostri (cfr. Isaia 55, 8-9) e perché il suo amore misericordioso di Padre si rende vicino e si lascia trovare da chi lo cerca (cfr. Deuteronomio 4, 7; Isaia 55, 4-7).
L’elezione di Israele, pertanto, non è esclusiva ma rappresentativa. È il segno e la testimonianza della libera gratuità di Dio, che si sceglie un popolo perché la sua benedizione passi a tutte le genti, secondo la promessa fatta ad Abramo (cfr. Genesi 12, 3).
4. Le Scritture del nuovo Testamento, che la preghiera liturgica della Chiesa ripropone ogni giorno ai cristiani, confermano e ribadiscono la prospettiva di Israele come “luce per le genti”. La attestano in tre cantici del Vangelo di Luca, nei quali, rispettivamente, Maria madre di Gesù, Zaccaria padre di Giovanni Battista e il vecchio Simeone al Tempio parlano di Israele come servo e popolo del Signore Dio (cfr. Luca 1, 46-56; 1, 68-79; 2, 29-32).
In particolare, Simeone, uomo giusto e timorato di Dio che attendeva la consolazione di Israele (cfr. Luca 2, 25), prendendo tra le sue braccia il bambino Gesù, si rivolge a Dio esclamando: «i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele» (Luca 2, 30-32).
Certo, per i Vangeli e per noi cristiani, l’ebreo Gesù realizza la vocazione del suo popolo in un modo singolare. Per questo, noi professiamo che nella sua carne umana ha dimorato in pienezza lo Spirito divino del Padre, Dio di Israele e Signore del cielo e della terra (cfr. Giovanni 1, 14; Colossesi 2, 9).
In lui riconosciamo il Messia di cui attendiamo una nuova venuta perché, secondo la promessa di Dio, anche «noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pietro 3, 13).
5. Sappiamo che proprio da questa interpretazione della persona di Gesù deriva l’irriducibile diversità della fede cristiana rispetto a quella ebraica. E tuttavia siamo convinti che – come afferma Giovanni Paolo II (Ai delegati delle Conferenze Episcopali per i rapporti con l’Ebraismo, 6 marzo 1982) – «Chiesa e popolo ebraico sono due comunità “legate a livello della loro stessa identità”» (DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cost. 308) e che entrambi rimangono nella comune attesa della realizzazione, in modo visibile e pieno, dei tempi messianici.
Il senso apportato dal Vangelo alle precedenti Scritture, infatti, non elimina ogni altro senso. È Gesù stesso ad affermarlo: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti» (Matteo 5, 17). Per questo, il cristiano dovrà sempre considerare che il popolo ebraico è stato chiamato a essere, nella storia, luce per le genti.
6. Non è certo mia intenzione esplorare qui e ora il legame tra le due nostre identità: quella ebraica e quella cristiana. Desidererei, piuttosto, che lo scoprissimo, più che nella teoria, sul piano della prassi, dell’azione concreta, del dialogo per collaborare a realizzare almeno qualche aspetto della missione che accomuna ebrei e cristiani.
Abbiamo in comune l’esigenza di essere liberati e di liberare dalla schiavitù dell’idolatria e dell’ignoranza del Nome di Dio. Di fronte alle grandi sfide e ai gravi problemi del mondo di oggi, possiamo insieme contribuire alla ricerca di un’etica sapiente – sapiente perché fondata sull’insegnamento di Dio e sulle nostre secolari tradizioni – e capace, nel contempo, di coinvolgere anche le componenti laiche delle nostre comunità e di parlare alle coscienze dei nostri contemporanei.
Nella fedeltà all’alleanza, che Dio rende sempre nuova secondo la promessa dei profeti, possiamo cooperare nel servizio di portare la luce della parola di Dio agli uomini e alle donne di oggi: questo esige che tutti ci mettiamo in un permanente atteggiamento di teshuvà, di ritorno a Dio.
7. Fra sei giorni, il 10 del mese di Tishrì, per voi sarà Jom Kippur, il giorno dell’espiazione e del perdono, il sabato dei sabati, la festa più santa e più solenne del vostro calendario religioso.
Seguendo le indicazioni della Mishnà, voi osservate i precetti biblici della Torà, in cui Dio chiede al suo popolo di fare propiziazione e di umiliarsi (cfr. Levitico 16, 29-31; 23, 27-32; Numeri 29, 7).
Ci sono sempre di esempio la volontà sincera di prendere coscienza dei peccati e delle insufficienze umane nel vivere l’elezione di Dio e la volontà di chiedere perdono a Dio e di fare festa per poter uscire, in forza della sua misericordia, dalle situazioni negative.
Per la verità, tutti siamo peccatori, tutti dovremmo fare kippur. Lo dovremmo fare anche noi cristiani, perché anche noi facciamo triste esperienza della nostra infedeltà alla chiamata di Dio.
Sono qui, allora, a dirvi che noi cristiani dobbiamo fare teshuvà. Sì, dobbiamo tornare a Dio e, con la forza del suo perdono, dobbiamo lenire le ferite che la nostra storia ha procurato a uomini e donne di altre fedi. Tra questi, primi fra tutti, ci siete voi e il vostro popolo, che siete il popolo dell’unico nostro Dio.
È vero: la tragedia della shoà ha scosso le coscienze. Ma non ancora tutte. Anzi rimangono purtroppo presenti i rischi di un antisemitismo sempre risorgente.
Per questo, è necessaria una comune vigilanza, soprattutto tra gli ebrei e quei cristiani che hanno incominciato a prendere coscienza delle forme di antigiudaismo presenti nella propria tradizione.
Mi è stato segnalato un fatto positivo: la Giornata dell’ebraismo, che i Vescovi italiani da ormai tredici anni promuovono il 17 gennaio per favorire una positiva relazione tra cristiani ed ebrei, sarà celebrata dal prossimo gennaio nella nostra città non solo dai cattolici, ma da tutti i cristiani delle sedici diverse confessioni che aderiscono al Consiglio delle Chiese cristiane di Milano.
8. È soprattutto per la pace che ebrei, cristiani, uomini e donne di tutte le grandi religioni devono dialogare e operare insieme.
Innanzitutto con la preghiera e l’intercessione: Come certamente sapranno, il mio predecessore, il cardinale Carlo Maria Martini, si è recato a Gerusalemme proprio per intercedere ogni giorno per la pace in quella città e in quella terra, in cui pulsa il cuore della storia. «Non ci sarà pace sul pianeta – egli non si stanca di dire –, finché non ci sarà pace a Gerusalemme».
Anche l’incontro tra i leader delle religioni è indispensabile affinché i popoli della terra cerchino vie di pace e non scontri di civiltà, scontri che i fondamentalismi religiosi alimentano.
In questa prospettiva di pace, l’Arcidiocesi ambrosiana all’inizio del settembre dell’anno prossimo ospiterà a Milano l’Incontro internazionale interreligioso, promosso insieme alla Comunità di Sant’Egidio.
Desidero, infine, augurare di tutto cuore alla vostra Comunità di Milano – come recita il mio motto episcopale – “gioia e pace” per il nuovo anno appena iniziato e per le prossime grandi feste di Kippur e di Sukkot che vi attendono. Il Signore benedica il vostro popolo perché sia sempre luce per le genti.
+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano