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Ebraismo e Vangelo di Matteo: a confronto con le scritture (II)

 

31/01/2008: Maria Brutti

 

Come già abbiamo accennato nel primo incontro, Matteo è stato a volte considerato antiebraico e antisemita. Harrington sottolinea alcune caratteristiche del Vangelo che potrebbero evidenziare un elemento di contrasto, se non di opposizione, tra il mondo ebraico e il pensiero della comunità di Matteo.

1) enfasi di Matteo nel considerare Gesù come l’adempimento della Legge.
Vuol dire forse allora che la tradizione ebraica è conclusa, superata e quindi
senza valore?

2) L’idea di Gesù come autorevole interprete della Torah.
Vuol dire allora che è l’insegnamento di Gesù a costituire il criterio secondo il
quale giudicare la Torah? E non il contrario?

3) L’atteggiamento verso gli scribi e i farisei. Nel Vangelo di Matteo, sono più volte criticati e messi in ridicolo, in un crescendo che culmina nella invettiva del cap. 23. [1]

Come si spiega questo atteggiamento verso coloro che erano i leaders religiosi e intellettuali e che vengono oggi considerati, da studiosi ebrei e non ebrei, come i fondatori del giudiasmo post-biblico?

Il problema è così vasto e complesso che perfino quelle affermazioni che vengono di solito portate a sostegno della ebraicità di Matteo sono state messe in discussione. [2] Nel contesto di questo incontro, mi limito a considerare alcuni testi di Matteo (8:11-12; 27:25; 23: 13-21), allo scopo prima di approfondirne prima l’esegesi e poi di stabilirne le implicazioni e gli sviluppi nel contesto del dialogo ebraico-cristiano.

1. I Figli del regno

Mt 8,11-12

[11]Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, [12]mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti».

Questo testo trova un parallelo in Lc 13: 27-29.

Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità! [28]Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. [29]Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio.

Il confronto tra le due versioni mostra tuttavia una grande differenza, soprattutto nella disposizione del materiale: per ragioni di collegamento Lc ha premesso la minaccia, ma ha aggiunto alla promessa quelli “da nord e da sud”. La finale stereotipa di Mt 8,12b “là sarà pianto”.. si trova all’inzio nel testo lucano. In Mt troviamo l’espressione “figli del regno”/in Lc “voi”, in riferimento agli “operatori d’iniquità” del v. precedente (v.27). Anche il contesto è diverso: in Matteo il detto è inserito nel racconto della guarigione del servo del centurione (8,5-13), in Luca dopo il detto minaccioso della porta stretta (13,22-30). Da tali differenze emerge anche un diverso significato complessivo: in Matteo l’esempio della fede del centurione apre l’orizzonte sulla futura conversione dei pagani. Grazie alla loro fede, essi potranno partecipare al banchetto escatologico, mentre la mancanza di fede porterà Israele all’esclusione. Questo è almeno l’interpretazione più comune attribuita al testo. [3] Si ritiene invece in genere il testo di Luca più parenetico: sono gli operatori d’ingiustizia, ebrei o pagani, che dovranno rimanere fuor, mentre i patriarchi e i profeti, cioè i pii di ogni generazione nella storia di Israele e uomini di ogni parte del mondo, gentili convertiti, si assidono al banchetto messianico nel regno di Dio.

Questa interpretazione tuttavia non è stata da tutti condivisa. Sandmel, ad esempio, si chiede: “I figli del regno sono ebrei”? Forse, ma è ugualmente possibile che l’espressione voglia indicare i cristiani indegni. [4] Menninger ricorda come il v. 8: 12 sia stato spesso citato a sostegno della tesi secondo la quale il Vangelo di Matteo insegnerebbe la cosiddetta “teoria della sostituzione”: i gentili-cristiani avrebbero, cioè, sostituito Israele come popolo di Dio e di conseguenza Dio avrebbe rifiutato completamente e per sempre il popolo dell’antico patto. [5] Tuttavia, a suo parere, un attento esame del contesto di 8: 5-13 rivela che 8:12 non implica necessariamente il rifiuto di Israele da parte di Dio. La richiesta del centurione a Gesù che il suo servo sia guarito fa precipitare la discussione di 8: 5-13 che enfatizza la fede del pagano/gentile. All’interno della discussione, c’è certamente l’insegnamento che i gentili divenuti cristiani parteciperanno al banchetto messianico (8:11). Ma, dice Menninger, non si può dire con certezza che gli ebrei siano esclusi da questo convito, in quanto Abramo, Isacco e Giacobbe sono a tavola e sono ebrei. [6] Essi sono esempi di ebrei fedeli, quelli che accettano le promesse di Dio che culminano in Gesù il Messia, i quali, insime ai fedeli gentili (8:10) godranno della benedizione escatologica del Tempo Finale. L’affermazione che i popoli verranno da oriente e occidente suggerisce che sia ebrei che gentili entreranno nel regno di Dio e niente in 8: 5-13 fa escludere gli ebrei dalla savezza. [7] Tuttavia questi “fedeli”, ebrei e gentili, appaiono in contrasto con “i figli del regno”. E’ questa una espressione semitica, che si riferisce a coloro che dovranno ereditare il regno. Implica perciò che Israele era l’erede legittimo di questo regno, che però gli è stato portato via (cfr. 21: 43). Ma questo implica anche che Israele sia stato rifiutato per sempre da Dio?

Per Menninger, il problema è da vedere nel più ampio contesto del Vangelo di Matteo, ma riguardo al v. 8:12 si può soltanto affermare che quelli che continueranno nel loro atteggiamento saranno perduti. Alla luce di altri testi di Matteo (28:18; 23: 39), il v. 8:12 da un lato lascia aperta la possibilità che numerosi ebrei possano accettare l’offerta di salvezza, ma dall’altro sottolinea la minaccia di giudizio per quegli ebrei che continueranno nella loro ostinazione. [8] Secondo Saldarini, il titolo “figli del regno” suppone la relazione privilegiata di Israele con Dio. Non è invece un argomento specifico di Matteo per indicare che tutto Israele è stato alienato da Gesù. Come Menninger, anche Saldarini osserva che il banchetto è presieduto dai patriarchi e che non c’è nessuna affermazione, implicita o esplicita, che Israele sia escluso. Piuttosto il detto, a suo parere, intenderebbe spiegare perché alcuni ebrei non hanno creduto in Gesù e perché i gentili si siano uniti a Israele nel regno, cioè, abbiano riconosciuto e accettato il dominio di Dio. Si tratta inoltre di una tipica condanna profetica della infedeltà di Israle, usata per provocare pentimento e per suscitare la fede in Gesù. [9]

2. L’invettiva contro gli scribi e i farisei

Ritroviamo un genere letterario simile nel cap. 23. All’inizio dell’ultimo grande discorso di Gesù del Vangelo di Matteo (cc. 23-25), si trova infatti una lunga e radicale condanna degli scribi e dei farisei, considerati i capi del Giudaismo dopo il ’70.Nelle tre parti in cui solitamente essa viene suddivisa dagli studiosi (2-12; 13-36; 37-39), possiamo osservare un crescendo che ha il suo climax nella serie deelle sette invettive (“Guai”) e si conclude con il lamento/minaccia su Gerusalemme. Non è possibile, in questo contesto, entrare nel merito e nel significato delle singole invettive, ma possiamo cercare di individuare il perché solo nel Vangelo di Matteo si trova questo lungo attacco. Come osserva Harrington, Matteo infatti ha preso da Marco una breve denuncia contro gli scribi (Mc 12: 38-40) e l’ha ampliata utilizzando il materiale preesistente anche in Lc 11: 37-42.

[6]amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe [7]e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì'' dalla gente. ……..

[13]Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci

[38]Diceva loro mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, [39]avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. [40]Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave».

[37]Dopo che ebbe finito di parlare, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli entrò e si mise a tavola. [38]Il fariseo si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo. [39]Allora il Signore gli disse: «Voi farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità. [40]Stolti! Colui che ha fatto l'esterno non ha forse fatto anche l'interno? [41]Piuttosto date in elemosina quel che c'è dentro, ed ecco, tutto per voi sarà mondo. [42]Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l'amore di Dio. Queste cose bisognava curare senza trascurare le altre.

Adottando la tenica del “guai” per la denuncia di Gesù, Matteo ha seguito la tradizione biblica della denuncia pubblica che si trova spesso nei profeti (Amos 5: 18-20; Is 5: 8-10), attraverso la quale ha fatto intravvedere alcuni punti di conflitto tra la comunità giudeo-cristiana e i capi giudei del tempo. Come dice Harrington: “Il bersaglio di Matteo erano un gruppo specifico, non tutto Israele”. [10] Il violento attacco contro gli scribi e i farisei è da vedere dunque come una polemica interna, non come un’affermazione del Cristianesimo contro il Giudaismo . Per Saldarini, in nessun luogo del suo Vangelo Matteo rigetta il Giudaismo e il popolo ebraico. Nessuna delle sue polemiche sono rivolte al Giudaismo e al popolo ebraico in quanto tale, ma piuttosto a interpretazioni e gruppi giudaici che andavano contro il gruppo di Matteo e la sua comprensione della volontà di Dio. [11]

Mt 23 è dunque un testo complesso e delicato. Gli antisemiti lo hanno sfruttato come una miniera per le loro caricature degli ebrei e del Giudaismo. E’ perciò importante prestare attenzione al contesto in cui il cap. 23 è nato. Come suggerisce Harrington, è necessario considerare: (a) il gruppo a cui la critica è rivolta: gli scribi e i farisei, non tutto Israele; (b) la forma letteraria usata; (c) lo scopo della denuncia profetica. Gli avvertimenti profetici di Gesù dovevano costituire da modello, da guida per tutti coloro che avevano responsabilità nella chiesa e nella sinagoga. [12]

Ma c’è un ultimo testo di Matteo che vorrei considerare; di esso si è detto che presenta “un potenziale antisemita o antiebreo che di fatto è stato usato dagli antisemiti nel corso dei secoli”. [13]

3. Mt 27:25 “il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”

3.1 La ricerca della intepretazione

Il versetto si trova nel contesto del processo a Gesù di fronte a Ponzio Pilato; esso, insieme al v. 24, forma una caratteristica addizione, propria solo di Matteo, all’interno del racconto sinottico della Passione. Come sottolinea Fitzmyer, questo fatto attira subito l’attenzione perché le addizioni di Matteo al materiale evangelico sono di solito indicative della attività redazione del primo evangelista e spesso espressive di theologoumena. [14] Tuttavia, mentre in 27:24 troviamo la decisa affermazione dell’innocenza di Pilato davanti a tutta la folla riguardo al sangue di Gesù, il v. 25 costituisce l’antitesi alla protesta di innocenza con il grido attraverso il quale “tutto il popolo” dichiara di assumersi la responsabilità della morte di Gesù con la terribile frase: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (27:25).

Esegeti, storici, teologi ebrei e non ebrei si sono a lungo interrogati sul perché di questo passaggio da “folla” a “tutto il popolo” con varie e differenti risposte. Mi riferisco solo a quelle che mi sono sembrate più significative nel tempo. Per J. Isaac (1948): un tale racconto non risponde affatto alla realtà storica, ma risponde all’intenzione di dimostrare come il popolo ebraico ha pienamente assunto su di sé la responsabilità della morte del suo Cristo. Si tratta dunque di una verità non reale, ma intenzionale. [15] Fitzmyer indaga sull’uso di laos=popolo nel Vangelo di Matteo, in relazione al pensiero teologico dell’evangelista. A suo parere, la frase non riflette tanto la condanna (o almeno questo non sembra essere la sua intenzione principale), né vuole marchiare gli ebrei come deicidi, ma piuttosto intende sottolineare il rifiuto di Israle ad accogliere Gesù. [16] Ben Chorin ritiene che il grido di Matteo 27:25 sia stato realmente pronunciato e parla di una automaledizione proferita da una folla politicamente eccitata da un movimento d’isteria collettivo che, per il popolo ebraico, finì per costituire “una sventura storica di portata mondiale”. [17] Samuel Sandmel si interroga se davvero “tutto il popolo” di Mt 27:25 volesse trasmettere la colpa alle generazioni successive o se piuttosto non abbiamo in questo versetto la più forte espressione anti-semita tra i passi del Nuovo Testamento. [18]

Numerose altre sono state le interpretazioni del versetto che con metodologie diverse o tornando su problemi già discussi, [19] hanno cercato di spiegarlo. Mi limito a citarne due, a mio parere, significative. Secondo Saldarini, ad esempio, l’uso di Matteo della parola comune laos (e del suo equivalente ebraico ‘am) è convenzionale e indica una entità sociale e politica: il popolo di Israele in generale e gruppi specifici di persone all’interno di Israele. Spesso è parallelo a un termine usato più frequentemente da Matteo per indicare il popolo di Israele: la folla o le folle (ochlos/ochloi). [20] Davies-Allison rimandano all’uso dell’espressione in testi biblici e giudaici (Lev 20:9; Deut 19:10; Gs 2:19; 2 Sam 1:16; Ger 26: 15; Ez 18:13; 33:4; At 5:28; 18:6; Test. Levi 16:3-4) dai quali derivano che essa era un idioma comune che stava ad indicare la responsabilità per la morte di qualcuno. Il versetto non sarebbe quindi una auto-maledizione, ma una assunzione di responsabilità. Le parole costituiscono “an ironic prophecy” perché sicuramente Matteo, così come numerosi altri Padri della Chiesa e molti esegeti riferivano il grido alla caduta di Gerusalemme nel 70. Questo concorderebbe anche con l’attitudine degli ebrei di associare eventi disastrosi al peccato ed anche la sventura, la colpa di una generazione ad un’altra generazione. Il versetto sarebbe dunque una eziologia che spiega la distruzione di Gerusalemme come una colpa collettiva. [21]

3.2 Dall’antigiudaismo all’antisemitismo

Tuttavia l’esegesi non è in grado di dare una riposta soddisfacente al perché questo testo abbia assunto, fin dall’inizio dell’era cristiana, un colorito così fortemente anti-semita. Lieu, in un articolo del 1994, [22] ripercorrendo la relazione tra giudaismo e cristianesimo dall’inizio del 1900, osservava come le tendenze degli studiosi avevano il loro fondamento in testi giudaici-cristiani. All’inizio del ‘900 Harnack [23] affermava che a causa del loro rifiuto di Gesù, il popolo ebraico aveva ripudiato la sua “vocazione” e che il posto degli ebrei era stato preso dai cristiani come il nuovo popolo di Dio. Questa tendenza fu chiamata “supersessionismo”. Come ancora Lieu osserva e come abbiamo in parte già notato, a partire dal I secolo, gli ebrei diventavano gli archetipi nemici di Cristo e dei cristiani. L’immagine degli ebrei come coloro che aveva ucciso Gesù, viene fissato in formulari ricorrenti o contesti di fede, come possiamo vedere da numerosi testi del Nuovo Testamento Nella seconda metà del secondo secolo, Melitone di Sardi, nella omelia sulla Pasqua, sottolineava fortemente la responsabilità di israele per la morte di Gesù, cioè di Dio. Nel dialogo con Trifone, Giustino affermava che i cristiani erano il vero spirituale Israele, i discendenti di Giuda, Giacobbe e Abramo. I cristiani erano un popolo santo, i veri figli di Dio. [24]

Per tornare a Mt 27:25, dobbiamo aggiungere, come suggerisce Lovsky, che l’espressione di Mt 27:25 si ritrova già nel linguaggio dei primi cristiani, [25] ma sono soprattutto i Padri della Chiesa che ne amplificano il significato negativo. Nel III secolo, il teologo greco Origene indicava già chiaramente come questo versetto sarebbe riecheggiato negli anni: “Dunque, il sangue di Gesù si riversò non solo su quelli che vivevano a quel tempo, ma su tutte le generazioni ebree che sarebbero seguite, fino alla fine dei giorni”. [26] A sua volta, S. Girolamo così proclamava, a proposito di Mt 27:25: “Questa imprecazione continua fino ad oggi a pesare sugli ebrei e il sangue del Signore non si è allontanato da loro”. [27]

Come osserva Harrington, Mt 27:25, unito alla affermazione cristiana della divinità di Gesù, è divenuto la base dell’accusa di deicidio, ossia che gli ebrei hanno ucciso Dio (=Gesù) ed è servito come slogan agli antisemiti che durante i secoli hanno perseguitato e distrutto gli ebrei e le loro comunità. [28]

Solo con Nostra Aetate nel 1965, l’accusa di deicidio contro gli ebrei è stata ripudiata dalla Chiesa Cattolica e l’antisemitismo è stato formalmente condannato. Il documento, emesso dal Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, afferma che:

E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo (13), tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.

E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.

La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. (Nostra Aetate nr. 4)

Si può affernare, con una certa sicurezza che dopo la Shoà e Nostra Aetate, è cominciata una nuova era nei rapporti ebraico-cristiani, basata sulla reciproca conoscenza e sul rispetto.

3.3 La ricerca sulle relazioni giudaismo-cristianesimo

Il cambiamento teologico trova un riscontro anche nella ricerca. Nell’articolo di Lieu già citato, la studiosa espone la nuova nozione di ‘Parting of the ways’. Questa idea-metafora sembra sostituire con una percezione davvero moderna l’idea del supersessionismo che, ancora nel 1986, Simon, nel suo libro, Verus Israel, esprimeva affermando che la chiesa si era separata dal giudaismo con l’obiettivo di sostituirla. Questa idea riconosce la validità del giudaismo rabbinico ma anche la continuità dentro la storia cristiana: Gesù non differì dai suoi contemporanei e non ci fu nessuno stacco radicale nemmeno nella persona di Paolo. Comunque, come la stessa Lieu osserva, l’affermazione della continuità non è completamente libera dalla apologetica teologica, così come Melitone e Giustino. The ‘Parting of the ways’ è essenzialmente un modello cristiano e, sebbene appaia come un modello storico, in realtà opera con schemi teologici. E’ considerevolmente più irenico del modello precedente, ma è ugualmente derivato dalla necessità teologica di mantenere l’unità tra la chiesa e Israele. Per questo, Lieu richiede un approccio nuovo che dovrebbe riconoscere che le relazioni tra giudaismo e cristianesimo dovrebbero essere percepite in modo diverso, attraverso un’analisi che tenga conto “of the local and specific” di ognuno. [29] Come dice Boyarin, il Giudaismo non è “la madre” del cristianesimo; essi sono gemelli, uniti a un fianco. [30]

Conclusione

Ma vorrei tornare al Vangelo di Matteo con una domanda: Matteo è dunque anti-ebreo o anti-semita? Se è vero, come ritiene oggi la maggior aprte degli studiosi che Matteo era ebreo, come si spiega la sua “anti-ebraicità”?

Harrington suggerisce una risposta: a suo parere, è fondamentale considerare il contesto storico in cui il Vangelo è nato, è essenziale uno studio serio del Vangelo di Matteo. Matteo ci ricorda la necessità di uno studio storico per poterne apprezzare il messaggio. [31] In questo senso, come abbiamo già visto, si deve riconoscere che la ricerca ha fatti numerosi passi avanti, nel tentativo di definire quel periodo nel quale nacque il Vangelo di Matteo e nel quale “siamo solo all’inizio della transizione da un cristianesimo inteso come movimento in seno al giudaismo a un cristianesimo come distinto dal giudaismo e in contrapposizione ad esso. [32] Un periodo, nel quale le comunità giudeo-cristiane, presentavano una estrema varietà di atteggiamenti di fede e di pratiche religiose. Tra questi giudeo-cristiani si sono distinti ad esempio: (1) un ebreo che crede in Cristo; (2) persone di diversa etnicità che unisce elementi del giudaismo e del cristianesimo, così come, ad esempio, l’osservanza della Torah e la fede in Gesù come Messia; (3) persone che aderivano a forme letterarie o culturali proprie del Giudaismo. [33] E’ stata anche sottolineata la presenza dell’ osservanza di una varietà di leggi nelle comunità giudeo-cristiane, come la circoncisione, l’immersione rituale, costumi riguardanti il cibo, una varietà di di digiuni e alcune leggi sul sabato.

Ma anche le teologie erano varie: c’erano quelli che professavano Gesù come Messia e altri che consideravano Gesù come Figlio di Dio: in questo senso si parla di “low Christology and a high Christology. [34] Da queste osservazioni è derivata l’assunzione che lo studio del Giudaismo e del Cristianesimo delle origini ci insegna che nell’antichità non esisteva un Giudaismo normativo o vero Giudaismo, né ce n’era uno sulla vera chiesa o chiesa cattolica. Noi dobbiamo cominciare a parlare di antichi Giudaismi e di antichi Cristianesimi, nel senso di forme diverse in cui il Giudaismo si esprime e forme diverse in cui il cristianesimo delle origini si manifesta. [35] Fu questo un periodo ricco, anteriore all’autodefinizione del giudaismo e del cristianesimo, un periodo nel quale giudaismo e cristianesimo continuamente interagivano l’uno l’altro, ma anche un periodo senza confini, nel quale cristianesimo e giudaismo non erano due religioni separate o differenti, ma erano due modi diversi di esprimersi che talvolta potevano anche entrare in contrasto tra loro. [36]

Dobbiamo vedere il Vangelo di Matteo in questo contesto. Possiamo dunque definire Matteo un Vangelo intra muros: “Matteo e i suoi lettori giudeo-cristiani si consideravano ancora giudei e cercavano di dimostrare che la loro identità come seguaci di Gesù era compatibile con la loro eredità ebraica. Matteo e la sua Chiesa vivevano ancora nell’ambito del giudaismo”. [37] Matteo costituisce una fonte non solo per il cristianesimo e la sua storia, ma anche per il giudaismo e la sua storia.


[1] D.J. Harrington, Il Vangelo di Matteo, ELLEDICI, Milano 2005, p. 19; S. Sandmel, Anti-Semitism in the New Testament?, Fortress, Philadelphia 1978, p. 68.

[2] R.E. Menninger, Israel and the Church in the Gospel of Matthew, Peter Lang, New York 1994, pp. 29-35.

[3] Vedi, ad esempio, S. Grasso, Il Vangelo di Matteo, Dehoniane, Roma 1995, pp. 228-229.

[4] Anti-Semitism in the New Testament, p. 55.

[5] Israel and the Church in the Gospel of Matthew, p. 42.

[6] Ibidem. Vedi anche Harrington, Il Vangelo di Matteo, p. 103 nota 12.

[7] Menninger, Israel and the Church in the Gospel of Matthew, p. 43.

[8] Ibidem, pp. 43-46.

[9] A.J. Saldarini, Matthew’s Christian-Jewish Community, The University of Chicago Press, London 1994, p. 42.

[10] Il Vangelo di Matteo, p. 293.

[11] Matthew’s Christian-Jewish Community, pp. 44-45.

[12] Il Vangelo di Matteo, p. 293.

[13] Ibidem, p. 21.

[14] J.A. Fitzmyer, ‘Anti-semitism and the cry of “all the people” (Mt 27:25), Theological Studies 1965 (2), p. 668.

[15] J. Isaac, Gesù e Israele, Nardini ed., Firenze 1976 (1° ed. Paris 1948), p. 342. Vedi anche p. 359.

[16] Ibidem, pp. 670-671.

[17] Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana ed. Brescia 1985, p. 275.

[18] Vedi Anti-Semitism in the New Testament?, p. 66, dove Sandmel osserva anche come questo versetto abbia turbato profondamente I moderni cristiani, alcuni dei quali semplicemente disconoscono il passo, mentre altri sostengono che solo gli ebrei presenti davanti a Pilato, non tutti gli ebrei e tutti i loro figli hanno sofferto la colpa.

[19] Vedi lo studio del 1991 di Timothy Cargal che sintetizza le posizioni dei diversi commentatori: T.B. Cargal, «’His Blood Upon Us and Upon Our Children’: A Matthean Double Entendre? », New Test. Stud., 37 (1991), pp. 101-102.

[20] Matthew’s Christian-Jewish Community, p. 34.

[21] W. Davies – D.C. Allison, The Gospel according to Saint Matthew, in The International Critical Commentary on the Holy Scriptures of the Old and the New Testaments, III, Edinburgh 1997, p. 591.

[22] ‘The Parting of the Ways’: Theological Constructs or Historical Reality?, JSNT 56 (1994), 101-109,

[23] The Expansion of the Early Christianity in the First Three Centuries, 1904-1905), I, p. 81.

[24] ‘The Parting of the Ways’, pp. 103-104.

[25] F. Lovsky, ‘Comment comprendre «son sang sur nous et nos enfants?», Études Théologiques et religieuses 1987 (3), p. 353 cita At 18 :6 dove Paolo, nella sinagoga di Corinto, dice agli ebrei che gli si opponevano “ Il vostro sangue ricada sul vostro capo”.

[26] Traduzione libera da H.I. Sobel, ‘Jesus and Judaism’, SIDIC 2000 (33), p. 10.

[27] PL XXVI, 207.

[28] Il Vangelo di Matteo, p. 20.

[29] ‘The Parting of the Ways’, p. 108.

[30] D. Boyarin, Border Lines. The Partition of Judaeo-Christianity, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2004, p. 3.

[31] Ibidem, p. 21.

[32] Ibidem.

[33] A. Yoshiko Reed, “Jewish Christianity” after the “Parting of the Ways”, in A.H. Becker –A. Yoshiko Reed eds., The Ways that Never Parted, Mohr (Siebeck), 2003, p. 190 n. 4.

[34] B. Visotzky, Fathers of the world: Essays in Rabbinic and Patristic Literature, Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1995, p. 136s

[35] Visotzky, Fathers of the world, p. 130.

[36] D. Boyarin, Border Lines, p. 13.

[37] Harrington, Il Vangelo di Matteo, p. 21.

 

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