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L’Olocausto: Dalle Memorie alla Prova materiale. Come possiamo sapere e comprendere…

 

21/03/2006: Lipstadt, Deborah

 

Riconoscimento

La Torah ordina che devi aver cura dello straniero che si trova in mezzo a te, “kee gerim haytem b’Mitzrayim”, “perché voi siete stranieri nel paese d’Egitto”.
La tradizione ebraica che si fonda su quel comando ordina l’accoglienza dello straniero come una delle espressioni centrali del gemilut hasadim, gli atti di benevolenza che gli Ebrei sono tenuti a compiere.
Vorrei iniziare esprimendo il mio riconoscimento alla Pontificia Università Gregoriana e, in particolare, al Centro di Studi Giudaici Card. Bea, perché non solo mi hanno chiamato come Richard and Susan Master Visiting Professor, ma per il modo straordinario con il quale hanno compiuto il comando dell’hachnasat orchim, l’accoglienza dello straniero. Ogni persona che io ho incontrato in questa augusta istituzione, ha osservato questo mitzvah, questo precetto, con tale meticolosità, che io non mi sento più come uno straniero. In realtà, io mi sento davvero a casa qui. E per questo, sono piena di gratitudine.


Un ostacolo nella documentazione dell’olocausto: la distruzione della prova

Il tema di cui parlerò oggi riguarda la prova dell’Olocausto*. Comincerò con l’affermare che l’Olocausto ha la dubbia particolarità di essere il genocidio meglio documentato di cui siamo a conoscenza. Osservo tra parentesi che è possibile ci sia una altrettanto grande quantità di documenti sul genocidio armeno. Non siamo in grado di valutarlo perché molta della documentazione su questa tragedia non è accessibile agli storici.

La dimostrazione dell’Olocausto ricade in una molteplicità di categorie: documenti, prove materiali, testimonianze, studi scientifici, memorie. Spesso la migliore comprensione degli avvenimenti si ha quando confrontiamo ed incrociamo due o più categorie di prove, come dimostrerò oggi.
Colpisce la completa mancanza di documentazione da parte degli esecutori.
Nel 1942 Berlino ordinò di distruggere ogni prova dei delitti. L’ufficiale delle SS Paul Blobel raccontò dettagliatamente, dopo la guerra, che nell’estate del 1942 Eichmann inviò ad Auschwitz l’ordine per gli ufficiali “to eliminate traces of the masses graves”. [di eliminare le tracce delle fosse comuni].
Anche il comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, scrisse di aver ricevuto ordine di disperdere le ceneri in modo “that in future it twill be impossibile to establish how many people had been burnt”. [che in futuro sarebbe stato impossibile stabilire quante persone fossero state bruciate]. Questo lavoro, come in seguito ricordò Höss fu svolto da prigionieri ebrei, i quali furono poi uccisi per impedire loro di parlare.

Alla fine del 1944, quando i Russi erano vicini ad Auschwitz, i Tedeschi fecero saltare in aria le camere a gas ed assassinarono la maggioranza dei Sonderkommandos, internati di Birkenau, che avevano lavorato alle camere a gas. Bruciarono tutte le documentazioni nei quartieri generali, relative al procedimento di sterminio.


Un ostacolo esistenziale alla documentazione dell’Olocausto: al di là del credibile

Il tentativo tedesco di distruggere i documenti non è stato il solo ostacolo contro il quale la dimostrazione dell’Olocausto ha dovuto lottare. C’è stato, e in qualche misura ancora c’è, un ostacolo più esistenziale da superare. Come potevano capire veramente ciò che era accaduto coloro che non erano stati partecipi di questo turbine? Come era stato possibile che la Germania, considerata una delle nazioni più civili, avesse potuto fare questo?
Primo Levi ha espresso questo sentimento nel suo capolavoro “Se questo è un uomo”:

“Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.”

Sebbene Levi abbia ragione, la realtà dei lager non può essere compresa pienamente da chi non era là; c’è ancora molto che la prova può insegnarci.


L’incapacità di cancellare completamente la documentazione

Ma lo sforzo di distruggere la documentazione storica non ha avuto successo. In certi casi, il fallimento fu causato da una semplice svista. Ad esempio, ad Auschwitz gli ufficiali dimenticarono un lungo capannone abbandonato, adiacente alle camere a gas.
In esso erano custoditi piani, disegni, istruzioni di lavoro, rapporti ed un’ampia varietà di documenti relativi al progetto ed alla costruzione di camere a gas.

In altri casi le prove documentarie erano sparse in luoghi così diversi da non poter essere interamente distrutte. Per esempio le Einsatzgruppen, unità mobili della morte che sterminarono circa un milione di Ebrei nelle zone dell’Unione Sovietica, prepararono rapporti dettagliati sulle esecuzioni che inviarono sia a Berlino, sia ai loro colleghi sul campo. I rapporti, che contenevano le cifre precise dei morti, suddivisi in uomini, donne e bambini, furono distribuiti sia agli alti ranghi dell’esercito, della polizia ed agli ufficiali delle SS, come ai diplomatici, agli ufficiali del Foreign Office e persino ad importanti industriali.

Innumerevoli sono i testimoni oculari provenienti dalle fila degli esecutori, delle vittime e di chi ha assistito. I loro ricordi possono spesso essere avvalorati da prove documentarie. In breve non si può annientare un intero popolo da una parte all’altra del continente, con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, perché tante sono state quelle in qualche modo coinvolte in questi delitti, e pensare di essere in grado di cancellare la prova storica.

Per ironia, l’ostacolo esistenziale a credere ancora esiste. Questo potrebbe essere in qualche modo un aspetto positivo che indica la nostra incapacità di comprendere pienamente che possano accadere cose così terribili (anche se continuiamo ancora oggi a vederne le conseguenze, come nel Darfur).


La prova dell’Olocausto: una prospettiva personale

Nell’affrontare il problema della prova dell’Olocausto, riconosco di portare a questo tema un bagaglio di esperienze unico o fuori dall’ordinario. Non si può scindere la personale esperienza dello storico dalla weltanschauung che porta al tema che tratta.** Sarebbe pertanto insincero da parte mia parlare della natura della prova dell’Olocausto senza ammettere di essere stata costretta a spendere più di sei anni in una battaglia legale per difendere me ed il mio lavoro dagli attacchi di coloro che vorrebbero negare e distorcere l’evidenza.

Come molti di voi sanno, sono stata citata in giudizio da David Irving, negazionista dell’Olocausto, che ha ricevuto tanta attenzione dal momento in cui è stato arrestato e imprigionato in Austria. Irving affermò che lo avevo diffamato nel mio libro “Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth and Memory”, definendolo negazionista dell’Olocausto. Ritenevo di avere dei buoni motivi per farlo.
Egli aveva testimoniato al processo di Ernst Zundel in Canada che l’Olocausto era una leggenda. Disse poi ad un giornalista di aver eliminato da uno dei suoi libri ogni riferimento all’Olocausto perché “if something did not happen you don’t even dignify it with a footnote”. [“se qualcosa non è accaduta non si può conferirle dignità neanche con una nota a piè di pagina”]. Dichiarò poi che avrebbe fondato una organizzazione chiamata “Auschwitz Survivors, Survivors of the Holocaust, and other liars” [Sopravvissuti di Auschwitz, Sopravvissuti all’Olocausto ed altri mentitori”], denominata con l’acronimo ASSHOLES.

Egli attese la pubblicazione del mio libro in Gran Bretagna dove l’onere della prova, per dimostrare la verità di ciò che è stato scritto, è a carico dell’imputato e non come sarebbe negli Stati Uniti dove sta al querelante provarne la falsità. Data la natura di questo sistema legale, non potendo io difendermi, Irving avrebbe implicitamente vinto ed io sarei stata ritenuta colpevole di diffamazione.
Una volta stabilita la mia colpevolezza, Irving avrebbe poi potuto affermare di non essere un negazionista dell’Olocausto e, ipso facto, la sua versione dell’Olocausto sarebbe stata valida.
E qual è questa versione?
Non c’era nessun piano per uccidere gli Ebrei. Alcuni possono essere morti in conseguenza dell’inedia e delle malattie, ma nessuno è stato ucciso deliberatamente nei campi di sterminio. Gli Ebrei uccisi sul fronte orientale, in luoghi come Babi Yar e Ponary, furono colpiti non da Tedeschi che agivano su ordini da Berlino, ma da soldati fuori controllo provenienti in gran parte dall’Estonia, Latvia ed altri paesi loro alleati. Infine, sostiene Irving, le camere a gas sono un mito ed ogni sopravvissuto che afferma la loro esistenza è sia uno psicopatico che un mentitore, oppure lo fa per profitto.

Da quando le idee di Irving sono state fatte proprie nella loro globalità dai negazionisti e molte di queste idee ne hanno prodotto altri, si può parlare di negazionisti in generale e di Irving in modo interscambiabile. Così farò in questa esposizione.

Gli stessi negazionisti si sono trovati in tribunale come imputati per violazione delle leggi contro la negazione dell’Olocausto: riguardo a questo, io provo sentimenti contrastanti. La causa di Irving contro Penguin e Lipstadt è stata l’unica volta in cui uno storico dell’Olocausto era l’imputato ed il negazionista era il querelante. La mia vittoria è stata completa, non dovuta certo a manovre legali di qualche Perry Mason. Ho vinto riferendomi alle prove e dimostrando che le affermazioni dei negazionisti sono basate su falsificazioni, distorsioni ed invenzioni di ciò che in realtà dicono le prove. Per ironia, se in Gran Bretagna non ci fossero state leggi sulla negazione dell’Olocausto, non avrei mai potuto smascherare fino a che punto David Irving gioca in modo incontrollato con l’evidenza.
Questo pomeriggio mi propongo di delineare alcune modalità con le quali noi ci basiamo sulla prova.
Quando dico “noi”, mi riferisco ad uno splendido gruppo di avvocati e di storici, come gli avvocati Anthony Julius, James Libson e Richard Rampton e gli specialisti storici Richard Evans, Robert Jan van Pelt, Christopher Browning, Peter Longerich e Hajo Funke.

Prima di tornare al nocciolo dell’argomento, desidero aggiungere un avvertimento: gli sforzi da parte degli storici per documentare la Shoah non debbono essere considerati solamente o principalmente come volti a rispondere ai negazionisti. Devo riaffermarlo. La raccolta delle prove e la documentazione del corso di questi terribili avvenimenti avviene nella completa indipendenza dai negazionisti. Sottolineo questo punto perché per qualcuno i due ambiti, la prova dell’Olocausto e la risposta alla negazione, si sono fusi in uno solo. Non è insolito sentir dire: “We need this documentation, or courses on the Holocaust [or Holocaust museums] in order to answer the deniers.” [“Abbiamo bisogno di questa documentazione, o di corsi sull’Olocausto (o di Musei dell’Olocausto) per poter rispondere ai negazionisti”].

La mia risposta a queste richieste è un sonoro “no”. Anche se non avessimo mai sentito parlare di negazionisti avremmo bisogno di questi corsi, di istituzioni della memoria e di ricerche storiche. Il nostro bisogno è del tutto indipendente dai negazionisti. Questi non sono importanti. Non sono storici, sono negazionisti della storia. Il loro rapporto con la ricerca storica è come quello tra ciarlatani che sostengono di poter curare l’Aids ingoiando noccioli di ciliegia e medici e ricercatori impegnati nella ricerca di una cura per questa terribile malattia. Nessuno chiederebbe a questi ultimi di impegnare tempo e risorse per dimostrare che i ciarlatani sbagliano. Mentre gli storici già da tempo sapevano che le affermazioni dei negazionisti erano false, fino al mio caso nessuno si era soffermato ad esaminare in modo sistematico come essi distorcono l’evidenza. Tuttavia, data la natura del sistema legale britannico, io non avevo altra scelta che fare questo.


Seguendo le annotazioni

Molte loro affermazioni possono essere esposte seguendo semplicemente le annotazioni. Nel suo libro “Hitler’s War”, che fu pubblicato prima che cominciasse ad abbracciare l’idea del negazionismo, Irving tentò per esempio di esonerare Hitler dalla responsabilità per le atrocità commesse contro gli Ebrei. Nel libro egli fece l’affermazione, palesemente falsa, che Hitler non era a conoscenza dell’Olocausto e quando lo scoprì tentò di fermarlo. Nell’introduzione, Irving prometteva ai suoi lettori la prova incontrovertibile che fin dal 30 Novembre 1941 Hitler aveva ordinato esplicitamente che non doveva esserci nessuna liquidazione degli Ebrei. Nel libro Irving scrive che Himmler fu convocato alla Tana del lupo (il bunker privato di Hitler) per un abboccamento segreto con Hitler, durante il quale fu chiaramente sollevato il problema del destino degli Ebrei berlinesi. Alle 13,30 Himmler fu costretto a comunicare telefonicamente a Heydrich, dal bunker, l’ordine esplicito di non liquidare gli Ebrei……
Quale prova porta Irving per questa sorprendente affermazione? Egli cita la registrazione della telefonata di Himmler del 30 Novembre 1941. La comunicazione telefonica rivela infatti che Himmler chiamò il suo subordinato Reinardt Heydrich alle 13,30. Questo però è il solo punto di contatto tra l’interpretazione dei fatti da parte di Irving ed i fatti come sono. Himmler sintetizzò quella conversazione in cinque parole:

Judentransport aus Berlin [Trasporto degli Ebrei da Berlino].
Keine Liquidierung [Nessuna liquidazione].


Ciò che le parole rivelano è che l’affermazione di Irving, cioè che Himmler stava bloccando la liquidazione degli Ebrei, era semplicemente falsa. Egli stava ordinando di non liquidare un solo specifico carico ferroviario di Ebrei berlinesi. Nella mani di Irving le istruzioni riguardanti un treno si trasformano in un ordine riguardante tutti gli Ebrei.

Ma le sue invenzioni non si fermarono lì. Era pura invenzione anche la sua affermazione che l’ordine venne da Hitler. Non c’era alcuna prova che Hitler avesse convocato Himmler o che lo avesse obbligato a chiamare Heydrich. Infatti, in accordo con la comunicazione di Himmler, egli vide Hitler un’ora dopo la telefonata. Hitler può aver ordinato ad Himmler di fermare la liquidazione di un carico ferroviario di Ebrei, ma non c’è alcuna prova che l’abbia fatto.

Ma Irving continuò ad alterare la prova. Nel libro egli proseguiva asserendo che il giorno successivo Himmler chiamò il generale delle SS Phol, Comandante supremo dell’organizzazione dei campi di concentramento, con l’ordine ‘Jews are to stay where they are’ [‘gli Ebrei devono rimanere dove sono’]. Irving, per affermare che Himmler aveva ordinato che gli Ebrei non dovevano essere deportati, si è basato sull’annotazione nel diario di Himmler del primo Dicembre. Ma l’esame della comunicazione rivela che Himmler non nominò nemmeno gli Ebrei. Si legge:

Verwaltungsführer der SS [Capi amministrativi delle SS]
haben zu bleiben. [debbono rimanere dove sono].

Non erano gli Ebrei che dovevano rimanere dov’erano, ma i capi amministrativi delle SS. Irving aveva sostituito “haben” con “juden” , il che gli consentiva così di inventare l’affermazione che gli Ebrei dovevano restare dov’erano. Quando “Hitler’s War”, il libro in cui egli ha fatto queste affermazioni straordinarie, venne ripubblicato nel 1991, Irving ha corretto l’errore relativo a “Keine Liquidierung”, riconoscendo che si riferiva ad un solo carico ferroviario. Ha lasciato però le altre asserzioni – che l’ordine venne da Hitler e che Himmler diede a Phol l’istruzione di lasciare gli Ebrei dov’erano – come erano.

Il modo in cui Irving tratta gli avvenimenti intorno alla Kristalnacht [Notte dei Cristalli] fornisce ancora un altro esempio di come, solo attraverso le postille, si possano palesare le menzogne dei negazionisti. Irving, nello sforzo di ripulire la memoria di Hitler, sostiene che egli non ha avuto alcun ruolo nella Kristalnacht, il pogrom nazionale del 1938 in cui migliaia di sinagoghe, di istituzioni ebraiche, negozi e case furono devastati e bruciati. Fu una frenesia di saccheggio e di punizione che lasciò in imbarazzo anche parte della popolazione tedesca. Irving sostiene che Hitler ed Himmler, entrambi a Monaco la Notte dei Cristalli, furono totalmente ignari degli avvenimenti spiacevoli che stavano accadendo fino all’una di notte, quando la sinagoga vicina al loro albergo cominciò a bruciare. Secondo Irving, Hitler era livido di rabbia ed Himmler cominciò “telex[ing] instructions to all the police authorities to restore law and order, protect Jews and Jewish property, and halt any ongoing incidents.” [ad inviare istruzioni via telex a tutte le autorità di polizia per ristabilire la legge e l’ordine, proteggere gli Ebrei e le loro proprietà e bloccare gli incidenti in corso”]. Hitler era deciso “on halt[ing] the madness.” [ad arrestare la follia”].

L’interpretazione degli avvenimenti da parte di Irving è in contrasto con le prove documentarie. Nelle prime ore della sera, nella sede del Municipio, Goebbels, rivolgendosi ai membri del partito nazista, aveva parlato degli attacchi che erano già avviati: “The Führer had decided ... [that] demonstrations were not to be prepared... [nor] organized by the party. In so far as they occurred spontaneously, there were, however not to be opposed or stopped.”[“Il Führer aveva deciso…..(che) le dimostrazioni non dovessero essere preparate…(né) organizzate dal partito. Quanto a quelle che accadevano spontaneamente, e ce n’ erano, non dovevano essere contrastate o bloccate”].
Avrebbe potuto Goebbels fare un’affermazione come “the Furhrer had decided” [“il Führer aveva deciso”] se Hitler non avesse saputo cosa stava succedendo?

Come poteva Irving provare che Hitler ed Himmler fossero ignari quando Heinrich Müller, subordinato di Himmler, inviò alle 23,55 agli ufficiali della polizia tedesca un telex informandoli che: “Actions against Jews, in particular against their synagogues, will very shortly take place across the whole of Germany. They are not to be interrupted.” [“Avverranno tra breve in tutta la Germania azioni contro gli Ebrei, in particolare contro le loro sinagoghe. Non debbono essere fermate”]. Circa un’ora e mezzo dopo, Himmler e Heydrich inviarono un altro telex che, sostiene Irving, richiamava i Tedeschi a ristabilire la legge e l’ordine, proteggere gli Ebrei e le loro proprietà e fermare gli incidenti in corso. In realtà il telex ordinava che le dimostrazioni contro gli Ebrei non dovevano essere ostacolate dalla polizia.

Irving sostenne che alle 2,56 del 10 novembre fu inviato un altro telex che dimostra ulteriormente l’intento di Hitler di fermare la follia. Che cosa diceva quel telex? “Arson or the laying of fire in Jewish shops or the like may not ... take place under any circumstances....” [“In nessuna circostanza debbono avvenire incendi dolosi o tentativi di incendio nei negozi degli Ebrei o simili”]. Piuttosto che un richiamo per far cessare la distruzione, il telex era semplicemente una comunicazione per fermare gli incendi dei negozi degli Ebrei e simili. Egli non la fece per porre fine alla distruzione dei loro negozi, istituzioni e case, o per bloccare il terrore e l’uccisione degli Ebrei, ma perché interi caseggiati andavano in fumo in quanto il fuoco, una volta appiccato, non rispetta confini razziali.

Le finestre delle camere a gas: uno splendido esempio di concordanza di prova materiale e documentaria

Come ho detto prima, quando i Tedeschi stavano distruggendo ad Auschwitz le testimonianze documentarie, dimenticarono i materiali nel lungo capannone abbandonato. Lì erano immagazzinati vari progetti delle camere a gas che ci fornirono molte informazioni sul processo di sterminio. A Birkenau c’erano due diversi tipi di camere a gas. Due di queste erano originariamente obitori riprogettati come camere a gas, mentre due erano state appositamente costruite.

Ci sono alcune anomalie rivelatrici, evidenti nei progetti di queste strutture, anomalie che indicavano uno scopo sinistro.
Ad Auschwitz la maggior parte dei progetti era preparata dai prigionieri che li firmavano non con i loro nomi, ma con il loro numero. Invece l’architetto delle SS Walther Dejaco, che era a capo della sala progetti, preparò i disegni delle modifiche dei crematori 2 e 3 quando le camere a gas vennero introdotte in queste costruzioni, e quelli di due camere a gas aggiuntive. Dal momento che insolitamente Dejaco preparava i disegni, già questo era un segnale che c’era qualcosa di singolare intorno a queste installazioni.

Possiamo apprendere anche altre cose dai cambiamenti dei crematori 2 e 3. Le porte della stanza che divenne poi camera a gas, che si aprivano normalmente dall’interno furono trasformate per aprirsi dall’esterno. Gli ufficiali delle SS sapevano, dalla loro esperienza a Chelmno con i camion a gas, che le vittime si affollavano contro la porta. Gli scivoli di calcestruzzo, progettati per far scivolare le barelle con i cadaveri fino all’obitorio, furono sostituiti da scalini. Come ha osservato il Professor Robert Jan Van Pelt, i corpi dei morti possono scivolare giù su un piano inclinato, i vivi camminano verso la loro morte.

E’ stato per me avvincente il momento in cui abbiamo operato una triangolazione tra progetti architettonici, documenti e prove materiali. Per esempio i progetti per le due camere a gas che furono costruite come tali richiedevano dodici finestre di 30/40 centimetri attraverso le quali doveva essere immesso lo Zyklon B. Quando ho visitato Auschwitz insieme ai miei difensori per preparare il processo, il Professore Robert Jan van Pelt ci mostrò come i progetti delle camere a gas richiedessero tali finestre. Ci fece poi vedere un ordine del Febbraio 1943 dell’Ufficio Costruzioni di Auschwitz per la “production of 12 gas-tight doors [window shutters] approximately 30/40 cm” [“produzione di dodici imposte a tenuta di gas di circa 30/40 centimetri”.]
Dagli archivi siamo poi andati in un piccolo magazzino in cui si trovavano tre decrepite imposte di 30/40 centimetri, intorno ai cui bordi erano visibili residui di un sigillo a prova di gas.

I negazionisti affermano che la finestra era a prova di gas perché la stanza era effettivamente un obitorio e/o un luogo per oggetti contaminati. Tali teorie pongono molteplici problemi. Perché gli architetti avrebbero progettato un obitorio con un sistema di riscaldamento (uno si vede nei disegni)? Perché ci sarebbero dodici finestre in una stanza per indumenti da spidocchiare? Ancora più importante, perché la maniglia per aprire e chiudere la finestra sarebbe posta all’esterno? Mettere la maniglia all’esterno è senza dubbio una sistemazione poco pratica per qualsiasi stanza, a meno che non ci si voglia assicurare che chi sta dentro non possa aprire le finestre.
I progetti, gli ordini di esecuzione e le finestre rimaste costituiscono un esempio semplice ma fenomenale di coincidenza tra diverse forme e fonti di prova.

Abbiamo visto anche la porta di una delle camere a gas. I negazionisti sostengono che le camere a gas sotterranee fossero in realtà rifugi antiaerei. Ma le porte aperte e chiuse dall’esterno non sono una sistemazione molto pratica per un rifugio antiaereo. Per giunta, la porta aveva uno spioncino con sopra una griglia metallica, che a prima vista è tipico di un rifugio antiaereo. Però in questo caso la griglia era all’interno, non all’esterno, ad indicare che il pericolo per il vetro veniva da chi era all’interno della stanza, non da schegge volanti o simili all’esterno.

Alcune delle prove più devastanti a questo proposito provengono proprio dagli stessi esecutori.
Hans Stark, un membro del campo “Gestapo”, ha testimoniato al processo per i crimini di guerra sul procedimento di gassificazione:

As early as autumn 1941 gassings were carried out in a room...[which] held 200 to 250 people, had a higher than average ceiling, no windows, only a specially insulated door with bolts like those of an airtight door [Luftschutzer]. The room had a flat roof, which allowed daylight in through the openings. It was through these openings that Zyklon B in granular form would be poured.
[Fin dall’autunno 1941 le persone da gasare venivano trasportate in una stanza…..(che) ne conteneva dalle 200 alle 250 ed aveva un soffitto più alto del comune, senza finestre, con soltanto una porta dotata di uno speciale isolamento con spranghe simili a quelle di una porta ermetica. La stanza aveva un tetto piatto che consentiva il passaggio della luce del giorno attraverso aperture. Ed è proprio attraverso queste che sarebbe stato versato in forma granulare lo Zyklon B.]

Stark riferì alla corte che, poiché lo Zyklon B “was in granular form, it trickled down over the people as it was being poured in. They then started to cry out terribly for they now knew what was happening to them.” [era in forma granulare, colava giù sulle persone mentre veniva versato. Queste allora cominciavano a gridare terribilmente perché in quel momento si rendevano conto di quello che stava loro succedendo.]
Il testimone si sbaglia o no? La testimonianza di Ada Bimko

Qualche volta la prova può essere dedotta da informazioni che, a prima vista, sembrano completamente errate. I negazionisti dell’Olocausto attaccano la credibilità e le ragioni di testimoni oculari che depongono sulle camere a gas nei processi sui crimini di guerra. Uno dei loro bersagli è Ada Bimko, (più tardi conosciuta come Hadassah Rosensaft) un medico ebreo polacco che era stato imprigionato a Birkenau, dove lavorava nel blocco medico.
Al processo del 1945 sui crimini di guerra, Bimko testimoniò come le donne che venivano fatte marciare dalle loro baracche alle camere a gas, erano spogliate dei loro vestiti. D’inverno esse erano autorizzate, per questa marcia di morte, ad avvolgersi in coperte.

In una occasione, quando Bimko fu mandata a recuperare queste coperte, un ufficiale delle SS, che l’aveva accompagnata, le offrì di fare un “tour” delle camere a gas. Dopo averle mostrato le camere, egli la portò nell’area sovrastante, che ospitava il sistema di ventilazione per estrarre il gas asfissiante. Egli spiegò che i due larghi cilindri all’angolo contenevano il veleno. Il gas, egli aggiunse, passava attraverso i tubi nella camera a gas sottostante.

Questa spiegazione fu, ed è ancora, priva di significato. Nel crematorio che Bimko visitò (noi sappiamo a quale andò per la sua descrizione di uno spazio recintato sopra la camera a gas) Zyklon B era immesso dalle finestre, non portato da sopra. Irving, piuttosto raggiante, respinse la sua testimonianza come una pura invenzione, motivata dal desiderio di piacere agli inglesi che avevano bisogno della sua testimonianza “to hang these criminals” [“per impiccare quei criminali”]. Il mio team di difesa e, in particolare, il nostro esperto sulla storia di Auschwitz, professor Robert Jan van Pelt, sostenne che, mentre la spiegazione di Bimko era certamente del tutto errata, la sua descrizione di ciò che aveva visto corrispondeva precisamente al sistema di ventilazione che era collocato nello spazio recintato sovrastante. Tubazioni poste nell’ultimo piano estraevano il gas dalle camere sottostanti. Il largo cilindro conteneva probabilmente il ventilatore. La sua spiegazione era basata su ciò che l’uomo delle SS le aveva raccontato (noi non sappiamo perché Bimko diede questa spiegazione del tutto inaccettabile). La sua testimonianza diviene ancora più forte quando noi consideriamo il fatto che aveva descritto un sistema che era visibile solo dall’interno dell’attico. Data la precisa descrizione di Bimko, Van Pelt la dichiarò “a very reliable witness, even if she did not know what [the pipe] was used for” [“un testimone davvero attendibile, anche se non sapeva per che cosa era usata la tubazione”.]

Durante la testimonianza su Bimko, Irving, che in contraddittorio screditava a lungo van Pelt, compiangeva gli “sfortunati” che erano stati impiccati sulla base della sua testimonianza. Io riflettevo che tra quegli “sfortunati” c’era il comandante di Bergen-Belsen, Josef Kramer, che aveva la responsabilità dei crematori di Birkenau durante la strage degli ebrei ungheresi e che, per questo potere, aveva scelto le persone per le camere a gas.
Un altro “sfortunato”, condannato in quel processo, fu il medico di Birkenau, Fritz Klein, il quale, alla domanda di come egli potesse conciliare il suo giuramento di Ippocrate con l’invio di persone alle camere a gas, aveva replicato: “I am a doctor and I want to preserve life. And out of respect for human life, I would remove a gangrenous appendix from a diseased body. The Jew is the gangrenous appendix in the body of mankind.” [“Io sono un medico e voglio difendere la vita. E proprio per il rispetto per la vita umana, io toglierei una appendice cancrenosa da un corpo malato. L’ebreo è l’appendice cancrenosa nel corpo dell’umanità”].
Questi sono gli “sfortunati” la cui punizione compiangono i negazionisti dell’ Olocausto.


La concordanza della prova: testimonianze e documenti tedeschi

Una tipica tattica dei negazionisti è cercare di far sì che la testimonianza dei sopravvissuti sembri assurda. Per esempio Heinrich Tauber, un Sonderkommando, uno di quegli internati che lavoravano nelle camere a gas, sopravvisse e diede testimonianza. Irving, sicuro della tradizionale retorica antisemita, lo accusò di aver dato una testimonianza così bizzarra da risuonare “almost Talmudic....” [“quasi talmudica”]. Secondo Irving, Tauber aveva testimoniato di aver visto un prigioniero “chased into a pool of boiling human fat.” [“cacciato dentro una pozza di grasso umano in ebollizione”]. In realtà l’esame di ciò che disse Tauber rivela qualcosa del tutto differente.

Le SS cacciarono un prigioniero, che non lavorava abbastanza velocemente, in una fossa vicina al crematorio che era piena di grasso umano in ebollizione. A quel tempo i corpi erano inceneriti in fosse all’aria aperta, da cui il grasso scorreva dentro una cisterna separata, scavata a terra. Il grasso era versato sui corpi per accelerarne la combustione. Questo povero diavolo fu tirato fuori dal grasso ancora vivo, e poi ucciso.

Ancora una volta, l’asserzione di Irving riguardo a ciò che qualcosa dice e ciò che in realtà essa dice sono interamente in contrasto l’una con l’altra.
Nella sua testimonianza, Tauber descrisse come di solito i Sonderkommandos bruciavano corpi emaciati con corpi non emaciati, perché questo consentiva loro di usare meno combustibile, una comodità davvero preziosa. La descrizione di Tauber può essere un riferimento incrociato con il brevetto presentato nel 1942 all’Ufficio Brevetti di Berlino da Topf, la compagnia che aveva costruito i crematori. Il brevetto era per forni appositamente progettati ad Auschwitz. Questi forni distruggevano una grande quantità di corpi, con consumo limitato di carburante. Il progetto richiedeva l’introduzione simultanea di corpi emaciati e non emaciati, allo scopo di garantire di continuo alte temperature, attraverso l’emissione di grasso umano. Questa era precisamente la procedura seguita dai Sonderkommandos secondo la testimonianza di Tauber. L’applicazione brevettata di Topf nel 1942 fornì la giustificazione termodinamica per la decisione dei Sonderkommandos di portare nei forni corpi di taglia differente. L’applicazione demoliva anche l’affermazione dei negazionisti che era necessaria una grande quantità di combustibile, per bruciare i corpi. Ma fece qualcos’altro: essa esemplificò perché la “convergenza della prova” era un così utile metodo storico. Il prigioniero Heinrich Tauber non avrebbe avuto accesso al brevetto applicativo di Topf, che fu registrato a Berlino nel 1942. Eppure la procedura che lui e i suoi colleghi seguivano fu esattamente ciò che il progetto aveva stabilito. Inoltre la testimonianza di Tauber fece combaciare nel progetto, punto per punto, informazioni di natura veramente tecnica e specializzata.


Indici di incenerimento: se ne deduce uno scopo sinistro

Nel 1942, quando Auschwitz/Birkenau ebbe il nuovo ruolo come campo di sterminio, le autorità ordinarono un enorme incremento nella capacità di incenerimento dei crematori.
Presto ci sarebbero stati più cadaveri da bruciare e, se la percentuale di incenerimento non fosse stata adeguata, il cumulo arretrato dei corpi avrebbe ostacolato il funzionamento scorrevole del processo di sterminio. Gli storici indicano questo come un esempio aggiuntivo dello scopo scellerato del campo.

David Irving suggerì che ci poteva essere una più benevola spiegazione per questo drammatico incremento nell’indice di incenerimento. Il tifo aveva devastato il campo nel 1942. Gli ufficiali del campo accrescevano la capacità di incenerimento in previsione di un’altra epidemia. Il mio team di difesa respinse la teoria di Irving come “assurda” poiché l’incremento avrebbe elevato la percentuale mensile di incenerimento a 120.000 corpi, mentre la popolazione stabilita per il campo era 150.000. Perché la spiegazione di Irving avesse senso, come notò Robert Jan van Pelt nella sua testimonianza, in un mese un’epidemia avrebbe dovuto uccidere i 4/5 della popolazione di Auschwitz e i tedeschi avrebbero dovuto ripopolare il campo con 120.000 persone. Questo oltrepassava il peggiore possibile scenario di un caso di epidemia.
C’è una miriade di altri esempi di tipi differenti di prova per l’Olocausto. Essi sono importanti non perché “provano” l’Olocausto, non c’è bisogno di questo, ma perché ci aiutano a comprendere come si sia sviluppato questo tentativo senza precedenti di distruggere un popolo intero. Esso richiese l’ingegno e l’esperienza di medici, architetti, ingegneri e di altre persone bene educate e bene addestrate.


Riflessioni personali: divenire partecipe della storia piuttosto che cronista della storia

Lascio ora l’argomento della prova, per una più personale discussione sul modo in cui questa saga mi coinvolse. A differenza del mio precedente lavoro sull’Olocausto dove io facevo la cronaca di differenti aspetti dell’evento o delle reazioni all’evento, questa volta io fui parte della storia. Questo non fu un ruolo che io accettai di buon grado. Ci volle un lungo tempo perché comprendessi che, più che solo una cronista, io ero divenuta un attore in questo aspetto della storia. Questo fu chiaro quando i sopravvissuti vennero da me a dirmi “noi contiamo su di te”; “tu stai combattendo per noi”; “tu devi difendere la nostra storia”. Io pensai che le loro reazioni fossero esagerate. Anche se io avessi perso, la loro storia non sarebbe stata decimata. Nessuna persona o gruppo di persone potevano fare questo. Tuttavia ritenevo i loro commenti una pesante responsabilità. Essi mi facevano star sveglia la notte. Non potevo pensare altro che, a causa delle stravaganze del sistema inglese sulla diffamazione, noi avremmo potuto perdere, sebbene i fatti fossero dalla nostra parte.

Fino a che grado fossi divenuta attore nella storia, piuttosto che cronista mi fu chiaro il primo giorno del processo. Nella hall esterna all’ aula del tribunale, i giornalisti circondavano Irving che faceva dichiarazioni sul suo grande giorno in tribunale. Di lì a poco un gruppo incalzava anche me con domande: “Come è andato il primo giorno?”; “Avrei dato testimonianza?”; “Che cosa pensavo della vanteria di Irving che egli avrebbe vinto agevolmente questa causa?”. Io sentivo uno sgomento fuori del comune, non per le loro domande, ma per il fatto che non avevo immaginato di dover rispondere. I miei avvocati non volevano che sembrasse come se noi dicutessimo questa causa sulla stampa. Essi mi avevano avvertito che ai giudici non piaceva quando coloro che partecipavano ad un’azione legale anticipavano ciò che essi in definitiva avrebbero deciso. Noi non volevamo fare niente che disturbasse il giudice.

Mentre io riflettevo su questa ammonizione, i giornalisti continuavano ad assediarmi con richieste di commenti. Essi avevano parlato ad Irving, alcuni di loro a lungo. Dal loro punto di vista anche poche parole da parte mia avrebbero dato ai loro racconti qualche contrappeso. Io morivo dal desiderio di parlare loro. Volevo formulare la mia propria argomentazione. Volevo che essi sapessero che io non avevo paura. Per lo meno volevo che la mia famiglia e i miei amici a casa sentissero la mia voce.
Quando il mio avvocato si accorse che questi giornalisti mi circondavano, venne diritto dove stavo e mi ricordò di fare silenzio. Io lo implorai: “Non posso dire a loro qualcosa, magari qualcosa di irrilevante?” Il mio avvocato, per niente commosso dalla mia implorazione, replicò: “Niente di quello che tu dirai oggi sarà irrilevante”. Io guardavo Irving che, con grande entusiasmo, intratteneva la stampa. Mantenere il mio silenzio era sempre più frustrante.

Allora qualcuno mi afferrò il braccio ed io, al contatto inaspettato, feci un salto. Una donna, piccola e anziana, si era risolutamente fatta largo attraverso la calca. Aveva un viso pieno di rughe ed occhi molto tristi. Vestiva in modo abbastanza pratico per un giorno di gennaio a Londra; il cappello di lana era calzato fino in fondo sopra ai suoi capelli grigi.
Ignorando i giornalisti, spinse il braccio davanti a me, arrotolò le maniche fino al gomito e con energia fece notare il numero tatuato sull’avambraccio: “Tu stai combattendo per noi. Tu sei il nostro testimone”.
Sentii allo stesso tempo incoraggiamento e ammonimento nelle parole di questa donna . Era come se stesse dicendo: “Sii forte e coraggiosa ma, qualunque cosa tu faccia, non venirci meno”.
Parlare con i giornalisti non mi sembrò più importante.

I sopravvissuti sedettero in silenzio in tribunale durante i tre mesi del processo, mentre Irving li ridicolizzava e affermava che essi erano bugiardi e psicotici. Essi hanno continuato a dire che io sono il loro “eroe”. Mentre mi compiaccio di essere elogiata per ciò che faccio (chi non lo farebbe?), trovavo la loro adulazione snervante. Mi sentivo indegna di ricevere tale gratitudine dai sopravvissuti all’Olocausto.

Solo dopo la fine del processo, io ho compreso che la loro lode riguardava meno ciò che avevo fatto e molto più ciò che non era stato fatto sessant’anni prima, quando essi così disperatamente avevano bisogno di aiuto. Mi veniva in mente il verso di Esodo che descrive l’incontro di Mosè con un sorvegliante egiziano che colpiva uno schiavo ebreo: “Ko v’ko, vyaar ayn eish”. “E Mosè guardò qua e là e vide che non c’era nessuno e allora uccise l’egiziano”. I commentatori rabbinici, a disagio con l’insinuazione del testo che Mosè voleva assicurarsi che nessuno l’avesse visto uccidere l’egiziano, si riferiscono ad un verso di Isaia, per dire che egli non voleva essere sicuro di non essere visto, ma in realtà cercava una persona autorevole che facesse giustizia. Quando comprese che non c’era nessuno che amministrasse la giustizia, egli seppe che doveva agire per suo proprio conto.

Durante l’Olocausto, le vittime cercavano aiuto “qua e là”. Poche persone, governi o istituzioni ebbero la volontà di rispondere. Non fu necessariamente l’antisemitismo a motivare la loro inazione : molti semplicemente non se ne curarono. Di fronte al diavolo, essi furono neutrali. Altri ebbero paura di parlare pubblicamente: sebbene di nascosto avessero aiutato gli Ebrei, non usarono le loro voci per condannare il nazismo. In questo contesto non si può fare riferimento a istituzioni che tacquero sulla tragedia che aveva colpito gli ebrei ed evitare di menzionare il Vaticano.
Non ho avuto tempo di esaminare in profondità il problema, ma si può dire che, mentre numerosi cattolici, compresi capi e ministri della Chiesa, assistettero gli Ebrei, è mancata la pubblica condanna dello sterminio da parte delle più alte autorità della Chiesa. E questo ha causato, e continua ancora a provocare grande sofferenza agli Ebrei. E’ anche motivo di dolore per numerosi cattolici. Il tentativo di indagare e comprendere questa storia è divenuto, sia per cattolici che per ebrei, un elemento centrale, indispensabile e talvolta abbastanza doloroso, nel dialogo contemporaneo. Tutte e due le parti riconoscono che, fino a che ad esso non sarà pienamente rivolta l’attenzione, il dialogo non può essere onesto e produttivo.

In generale, tutti gli Ebrei sentirono che dal resto del mondo c’era un risonante, se non assordante, silenzio. Per le vittime l’apparente insensibilità dello spettatore fu altrettanto dolorosa della crudeltà dell’autore del delitto.

Ora, numerosi decenni dopo e in circostanze molto differenti, i sopravvissuti sentivano che qualcuno combatteva per loro: ora non c’era più tempo per la neutralità. Difendendo me stessa contro Irving, io ho sfondato il silenzio che li aveva così tormentati. Non importava che la battaglia non potesse essere paragonata, in nessun modo, alle loro sofferenze. Non importava che io non affrontassi minacce fisiche. Non importava che la mia battaglia non potesse portare indietro i loro cari o mitigare le loro sofferenze. La mia battaglia divenne il simbolo di ciò che era mancato sessanta anni prima. In drammatica antitesi all’Olocausto, essi ora, poiché avevano visto se stessi al mio fianco, erano vincitori.


Il Giudizio e il Responso

La sconfitta di Irving fu totale. Secondo il giudice nel nostro caso, e secondo i quattro giudici delle varie Corti d’Appello a cui Irving in seguito si rivolse, Irving aveva distorto in modo significativo ciò che la prova rivela, se esaminata obiettivamente. Per descrivere le opere scritte da Irving sull’Olocausto, il giudice scelse termini senza ambiguità: “perverts”, “distorts”, “misleading”, “unjustified”, “travesty”, and “unreal.” [travisa, distorce, inganna, ingiustificato, parodia, fuori dalla realtà].
Il giudice reputò che la falsificazione della memoria storica da parte di Irving era stata intenzionale e… motivata dal desiderio di presentare gli eventi in modo compatibile con la sua fede ideologica, anche se questo comportava la distorsione e la manipolazione della prova storica.

I media internazionali, compresi quelli italiani, con mia sorpresa riportarono la vicenda nelle notizie di prima pagina. Comunque, ciò che mi meravigliò fu la valanga di lettere, emails e comunicati che io ricevetti: molti di essi provenivano da persone collegate direttamente all’Olocausto.
Vorrei concludere condividendo con voi alcuni di quei comunicati.

La notte prima del verdetto mi giunse una telefonata particolarmente commovente. Era esattamente una settimana prima di Pesach. Verso le ore 23, Ben Meed, Presidente della Associazione Americana dei sopravvissuti all’Olocausto, lui stesso un sopravvissuto al ghetto di Varsavia, mi chiamò al telefono.
La vita di Ben, uomo robusto, dai capelli bianchi, era il mondo dei sopravvissuti all’Olocausto.
“Deborah, tonight you can sleep soundly because none of us will be sleeping.” [Debora, stanotte tu puoi dormire profondamente, perché nessuno di noi dormirà].
Egli non doveva identificare il “noi”. C’è un aforisma ebreo: “Le cose che vengono dal cuore entrano nel cuore”.
Ed è stato così. E’ stato per me difficile capire a fondo il pensiero che i sopravvissuti non potevano dormire perché aspettavano il verdetto.

La prima notte di Pesach è chiamata Leil Shemurim, la Notte delle Veglie, perché la tradizione ebraica pressupone che Dio vegliasse sugli Ebrei, quando essi fuggirono dall’Egitto. La notte del Seder gli Ebrei non recitano le preghiere serali chiedendo che Dio li salvi durante la notte perché, secondo la tradizione, Dio è già di guardia.
Dubitavo che Ben avesse in mente questo, quando mi disse che i sopravvissuti non avrebbero dormito ma, quando andai a dormire, immaginai di essere circondata da una schiera di angeli decisi, le cui vite erano state plasmate dall’Olocausto e dai suoi orrori.

"Dear Professor Lipstadt
You do not know me and we will probably never meet.... My mother was killed in Auschwitz. If David Irving had won my mother would have been a victim a second time! So too would everybody else who perished there. I loved my mother very much and have not seen her since April 14, 1939 when I was 14 years old. She was killed on October 23, 1944. Gratefully yours, Anne Bertolina, [nee Hannelore Josias]"

[“Cara Prof. Lipstadt,
Lei non mi conosce e probabilmente non ci incontreremo mai. Mia madre fu uccisa ad Auschwitz. Se David Irving avesse vinto, mia madre sarebbe stata una vittima per la seconda volta! Così sarebbe stato per chiunque altro morì lì. Amavo molto mia madre e non l’ho più vista dal 14 Aprile 1939, quando avevo 14 anni. Fu uccisa il 23 Ottobre 1944.
Con gratitudine
Anna Bertolina (nata Hannalore Josias)]

Questa lettera giunse sul mio tavolo quando mia madre, di 85 anni di età, era malata. Quando giunsi alla riga “I loved my mother very much,” [“io amavo davvero molto mia madre”], rimasi senza fiato. Come figlia che amava ancora sua madre davvero molto, potevo solo immaginare che cosa significasse essere separata da lei all’età di 14 anni e poi venire a sapere del suo terribile destino. Ho voluto dire ad Anna Bertolina che anche se, per qualche contrattempo, David Irving avesse vinto, sua madre non sarebbe stata una vittima per la seconda volta. Egli ebbe il potere di fare grande danno, ma non ebbe certo il potere di fare questo.
Non tutte le lettere erano di vittime. Alcune vennero da persone collegate indirettamente alla tragedia.

"Dear Professor Lipstadt,
My husband served with Patton and on a Sunday entered the “camps” at Dachau.... He was a hardened combat veteran as were the 3 others who went in with him. They broke down in tears. He recalled an inmate pointing at him and screaming in Yiddish. He had not realized his dog tags, on which he had a tiny Bar Mitzvah mezuzah hanging, were visible. “Du bist ein Yid?” the inmate asked. [Are you a Jew?] When my husband said, “Yes” he was Jewish, more yelling and others gathered. They couldn't believe a free Jew walked the face of the earth, let alone a Jewish soldier! It took him 28 years to tell me this (in Jerusalem at Yad Vashem). He’d buried the memories of what he’d seen that deep....Cordially, Marion Lieberman".

[Cara Prof. Lipstadt,
Mio marito ha prestato servizio militare con Patton e una domenica entrò nei ”campi” a Dachau. Era un incallito veterano combattente, così come gli altri tre che erano con lui. Essi si accasciarono in lacrime. Ricordava un prigioniero, che indicava verso di lui e gridava in yiddish. Non si era reso conto che la sua piastrina, alla quale egli aveva appeso una piccola mezuzah del Bar Mitzvah era visibile. “Tu sei ebreo ?”, chiese il prigioniero. Quando mio marito disse “Sì”, egli era ebreo, urlò di più e altri si avvicinarono. Non potevano credere che un ebreo libero camminasse sulla superficie della terra, tanto meno un soldato ebreo! Dovettero passare 28 anni perché me lo dicesse (a Gerusalemm, a Yad Vashem): tanto profondamente aveva sepolto la memoria di quello che aveva visto.
Cordialmente
Marion Libermann”]

Mentre numerose lettere vennero da Ebrei, ci furono corrispondenti per i quali era essenziale identificare se stessi come non Ebrei.

"Dear Professor Lipstadt:
British justice is a bit long winded and unemotional: like the mills of god, it may grind slowly but, on occasion, it can grind exceedingly fine. I was a boy during the war, but one thing is ineradicably engraved upon my mind. Not the bombing, which had long ceased, but the memory of sitting in a cinema with my mother and sister, weeping together with the rest of the audience, as we saw the first dreadful newsreel pictures of the liberation of Belsen. Fair-haired and light-eyed, Christian, Goy and stranger, I may be, but I cannot understand how that dreadful creature persuaded some of our children that their parents and grandparents are either liars or fools. There are still plenty of us who will remember until we died, including those who, unlike me, were there.
Sincerely, Ray Waters"

[Cara Prof. Lipstadt,
la giustizia inglese è piuttosto tortuosa e fredda: come i mulini di Dio, essa macina lentamente, ma talvolta può macinare straordinariamente bene. Ero un ragazzo durante la guerra, ma una cosa è rimasta definitivamente impressa nella mia mente. Non il bombardamento, la cui memoria da tempo è cessata, ma il ricordo di me, mia madre e mia sorella, nel cinematografo, mentre piangevamo con il resto del pubblico al vedere le prime terribili immagini del cinegiornale sulla liberazione di Belsen. Posso essere biondo e con gli occhi chiari, cristiano, goy e straniero, ma io non posso capire come quella orribile creatura persuase alcuni dei nostri figli che i loro genitori e i loro nonni erano bugiardi e sciocchi. La maggior parte di noi lo ricorderanno fino alla loro morte, compresi quelli che, come me, erano là.
Cordiali saluti,
Ray Waters” ]

Di lì a pochi mesi ricevetti un’altra email, alla quale risposi. Veniva dall’ Italia.

"Dear Miss Lipstadt,
My name is Paola Castagno, I’m italian, I’m 28 years old and fortunatly i
didn’t new the II World War.(1)
I red on an italian newsparer that you won agaist David Irving.
My grandfather Aldo rimained 8 mounth in Auschwitz (like Disneyland).
When he came back in Italy he weighted 34 kilos (for 1.82 mt high).
He died 3 year ago. I remember that he cried, thinking Holocaust, after 40 years. He didn’t say me nothing about this. So I write to thank you enormously.
I know that also my Grandfather thank you for your courage and that you
speak about truth. Bey my graet hero!!!
Paola Castagno
NB: I’m sorry for my English"

[Cara Miss Lipstadt,
mi chiamo Paola Castagno, sono italiana, ho 28 anni e fortunatamente non ho conosciuto la II Guerra Mondiale. Ho letto su un giornale italiano che ha vinto la causa contro David Irving. Mio nonno Aldo rimase 8 mesi ad Auschwitz (come a Disneyland). Quando tornò in Italia pesava kg 34 (per m.1,82 di altezza). E’ morto tre anni fa. Ricordo che quando pensava all’Olocausto piangeva, ancora dopo 40 anni. Egli non mi ha mai detto niente di questo. Così io scrivo per ringraziarLa moltissimo. So che anche mio nonno La ringrazia per il Suo coraggio e che Lei parla di verità.
Ciao, mio grande eroe !!!
Paola Castagno.
N.B. Scusa per il mio inglese]

[A proposito, a causa delle variazioni casuali degli indirizzi emails, io non ho potuto rintracciare Paola Castagno. Questa mattina alle 7 ho ricevuto una email da lei. E’ di Torino e ci incontreremo prima del mio ritorno negli Stati Uniti] .

Io percepii le parole di Paola Castagno non senza resistenza al fatto di essere il “grande eroe “ di qualcuno. Cinque anni prima David Irving “had taken me out of the line to be shot” [mi aveva portato allo scoperto perché io venissi colpita]. Aspettandosi che “me to crack up and cop out” [“io perdessi le forze e rinunciassi”], come Irving aveva preannunziato al New York Times. Irving certamente sarà rimasto sorpreso quando io ho lottato come ho fatto, dando in definitiva molto di più di quanto potessi. Ho combattuto per difendere me stessa, per salvare la mia fede nella libertà di espressione e per sconfiggere un uomo che ha mentito sulla storia ed ha espresso opinioni profondamente sprezzanti sugli ebrei e su altre minoranze. Per molto tempo dopo la fine del processo, io provavo sofferenza, quando pensavo alle numerose persone che avevano osservato Irving infuriare sulle loro memorie. Non potevo comprendere pienamente che cosa si provasse nell’avere non solo negate, ma condannate e ridicolizzate le proprie esperienze. Comunque, io sentivo non solo sofferenza, ma anche un certo senso di privilegio. Mi ricordavo del fatto che la tradizione ebraica tiene in alta considerazione gli atti di benevolenza, inclusi quelli di visitare i malati, assistere i bisognosi, dar da mangiare agli affamati e ospitare gli stranieri. C’è tuttavia un atto di benevolenza che supera tutti gli altri, perché non può essere reciproco. Prendersi cura dei morti è chiamato hesed shel emet, l’atto più autentico di benevolenza, perché è allora che noi emuliamo più da vicino la bontà di Dio verso gli uomini, la quale anch’essa non può essere reciproca.
Per cinque anni, ho avuto il privilegio di fare hesed shel emet, di difendere coloro che non sono sopravvissuti o che non potevano difendersi da soli. Poter fare questo è stato un ringraziamento sufficiente.

Non ho scelto questo campo di ricerca per compiere questo atto di hesed. Non ho scritto il mio libro sui negazionisti, pensando di impegnarmi in questo atto. Non ho scelto questa battaglia. Ma ora , se guardo indietro, sono piena di gratitudine. Se qualcuno ha dovuto uscire allo scoperto per combattere questa battaglia, mi sento gratificata di essere stata proprio io.
Grazie.

*Parti di questo discorso sono tratte dal mio recente libro: History on Trial: My Day in Court with David Irving (Ecco, 2005)

** Il problema della relazione dello storico alla memoria dell’Olocausto è stato indagato da Jeremy Popkin, History, Historians and Autobiography (Chicago 2005).



(1) Spelling come nell’originale

(2) Il 28 marzo Paola Castagno e sua madre Anna sono intervenute alla mia lezione in Gregoriana. Quel giorno, secondo il programma stabilito molti mesi prima, la classe discuteva SE QUESTO E’ UN UOMO di Primo Levi. Sono rimasta colpita dal fatto che, mentre la classe discuteva il libro con termini analitico/accademici, usando la “terza persona”, per Paola e sua madre è stata un possibile rendiconto di ciò che era accaduto al nonno. Esse avevano pochi o nessun dettaglio della sua esperienza. Anna portò una fotografia di Aldo, scattata pochi mesi dopo il suo ritorno a Torino.
Era un uomo singolarmente bello.

 

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