26/10/2004: Prof.ssa Anna Foa
La storia dei rapporti tra ebrei e cristiani nei lunghi secoli che precedono la Nostra Aetate è una storia che inizia con la nascita del Cristianesimo e che copre un periodo vicino ai duemila anni. Nell’impossibilità di tracciarne anche soltanto le grandi linee, mi limiterò a mettere in rilievo alcuni dei suoi aspetti per concentrarmi poi soprattutto su quello che succede a partire dal Settecento, cioè dal momento in cui inizia ad emergere un processo di secolarizzazione della società e il rapporto tra gli ebrei e la Chiesa entra in una crisi profonda, destinata a non essere sanata fino al Concilio Vaticano II e alla svolta decisiva della Nostra Aetate.
C’è un’immagine che può essere considerata emblematica del rapporto tra ebrei e cristiani in questi secoli: quella della Chiesa e della Sinagoga, che adorna molte cattedrali medioevali. Da una parte, la Sinagoga in veste di donna accasciata, con la benda sugli occhi a indicare la sua cecità di fronte al Messia che non vuole riconoscere; dall’altra parte, sullo stesso portale, la Chiesa, una figura trionfante che si leva alta a mostrare la vittoria sulla Sinagoga. È un modulo che rappresenta compiutamente l’idea cristiana della sostituzione: la Chiesa sostituisce la Sinagoga, il Cristianesimo è il nuovo Israele. Se la Chiesa è trionfante è perché la Sinagoga ha perduto le sue forze, è cieca, è caduta.
È questo un tema fondamentale dell’elaborazione teologica cristiana di questi primi secoli, definito compiutamente già a partire dal III secolo, che rappresenta da una parte la liquidazione teologica dell’Ebraismo, visto come sconfitto e sostituito nell’elezione divina dal Cristianesimo, ma che dall’altra consente un reinserimento dell’Ebraismo nell’economia della salvezza: gli ebrei devono essere presenti dentro la società cristiana, benché in uno stato di subordinazione, di dipendenza. In quanto simboli dell’errore, saranno i testimoni privilegiati della verità del Cristianesimo: il posto rappresentato iconograficamente dalla Sinagoga accecata e accasciata. [1]
Naturalmente, a questa giustificazione della presenza ebraica altre se ne affiancano, anche di natura teologica, come l’idea escatologica che la conversione finale degli ebrei fosse necessaria a determinare l’Apocalisse finale. Ma la formula rappresentata in questa immagine è quella più rappresentativa del rapporto, perché indica, oltre alla subordinazione, anche l’equilibrio. Le due immagini sono infatti come collocate sui due piatti di una bilancia, anche se il piatto della Sinagoga è più basso rispetto all’altro, a segnalare la sottomissione. Nel Duecento, nella bolla Etsi Iudeos, tale sottomissione sarà indicata con la formula latina di perpetua servitus, in cui servitù è intesa non in senso letterale ma morale, religioso: la subordinazione dell’errore alla verità. E attraverso i secoli questo equilibrio si manterrà saldo. [2]
Alle sue origini, vi è però una scelta. Non si tratta di un dato scontato, dal momento che non c’è niente di necessario ed ineluttabile nel fatto che la Chiesa abbia scelto di mantenere gli ebrei nel suo seno. Innanzitutto, si è trattato della scelta della Chiesa occidentale, romana, assai più che di quella orientale, dove la presenza degli ebrei è stata molto più contrastata, dove le sinagoghe sono state distrutte, le violenze si sono scatenate più numerose. Con Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, la Chiesa occidentale ha optato in modo definitivo per la presenza ebraica, fondando sulle teorie paolina ed agostiniana le sue formulazioni teologiche sugli ebrei. Non era affatto scontato che gli ebrei ci dovessero essere, come non ci saranno gli eretici, come non ci saranno i musulmani: non erano previste diversità, oltre a quella ebraica, in seno ad un mondo basato sull’uniformità religiosa.
Fondato com’era su tutta una serie di motivi teologici, oltre che sulle formulazioni del diritto romano, destinate successivamente a confluire nel diritto canonico, il permanere della presenza ebraica resta dunque una scelta. Compiendola, la Chiesa ha però messo in moto un processo di apprendistato della diversità, si è trovata a confrontarsi con una diversità: accecata, accasciata, subordinata, in perpetua servitù, comunque una diversità con cui le società cristiane, per quanto monolitiche, non potevano fare a meno di misurarsi ovunque fossero presenti ebrei.
Certo, era difficile far accettare le complesse ragioni di questa presenza a quanti non avessero familiarità con le astrusità teologiche, alla gente comune che vedeva bruciare gli eretici (cristiani che la pensavano diversamente dalla Chiesa su qualche aspetto di fede) e vivere gli infedeli, o che vedeva partire i crociati, alla fine dell’XI secolo, per liberare dagli infedeli la Terra Santa, senza prima disfarsi degli infedeli che vivevano in seno alla loro stessa società. Di qui, molte contraddizioni, molti conflitti, molte persecuzioni spontanee, scatenate dal basso. Ma in qualche modo, questo processo di apprendistato della diversità fu messo in moto. Io sono fermamente convinta che l’Occidente cristiano avrebbe avuto una storia diversa se non avesse fatto questa scelta, se non avesse contenuto una diversità al suo interno, pur con tutti gli episodi tragici, le persecuzioni, le violenze che questa scelta hanno accompagnato.
Il fatto di vivere nella diaspora, in Occidente, ha senz’altro cambiato la storia degli ebrei, ma ha anche cambiato profondamente la storia della cultura occidentale. Ha introdotto una sorta di dialogo. Certo, il ventaglio di possibilità era molto ampio e il dialogo, cioè il rapporto tra i due mondi, ne rappresentava un segmento infinitesimale, che più che teorizzato apparteneva alla sfera della vita quotidiana, sociale, di quanto sfuggiva al controllo. Ma era pur sempre possibile, e ha fatto parte di questa storia.
In questo complesso equilibrio, molti erano i fattori che tendevano a cambiare le regole del gioco. Il principale fu senz’altro la spinta alla conversione, l’esercizio di una pressione sulle minoranze ebraiche volta a far loro accettare la religione cristiana. Questa pressione proselitistica sugli ebrei non comincia subito, anche se in teoria la volontà di convertire è un aspetto essenziale del Cristianesimo. Di fatto, per tutto il primo millennio del Medioevo fino a dopo l’inizio delle Crociate, non c’è reale pressione da parte del mondo cristiano. I due mondi restano impermeabili, e le conversioni sono soprattutto un elemento problematico, di disturbo. Nei secoli dell’alto Medioevo, i neofiti sono in genere individui che si convertono per una scelta religiosa e che non traggono vantaggi economici o sociali da questa scelta. Anzi, si trovano ad essere degli sradicati, qualcuno di cui nessuno si fida perché sono passati da un mondo ad un altro. Soltanto dopo le Crociate la situazione cambia. Le conversioni, da fenomeni limitati e individuali, toccano ora grandi numeri di persone, e sono ottenute con la forza.
Tutto comincia durante i massacri di ebrei nella zona renana della Germania da parte di gruppi marginali di crociati, che sono accompagnati da conversioni sulla punta della spada. C’è chi rifiuta di convertirsi, e santifica il nome nel qiddush ha-Shem, c’è chi accetta il battesimo e si salva la vita. Uno solo era il precedente storico, e risaliva al VII secolo, quando i re visigoti avevano ordinato la conversione di tutti gli ebrei spagnoli al Cattolicesimo. In questo episodio, di cui sappiamo molto poco, a prendere una decisione tanto contraria alla dottrina cristiana della spontaneità del sacramento battesimale, da poco ribadita da Gregorio Magno, era stato il potere politico, nella persona del re visigoto Sisebuto e dei suoi successori, passati dall’Arianesimo al Cattolicesimo, e quindi animati dallo zelo dei neofiti. Ma la Chiesa spagnola nel 694 sancisce, nel Sinodo di Toledo, la validità di tali conversioni, anche se mantiene la proibizione di convertire gli ebrei con la forza.
In sostanza, non si poteva obbligare nessuno a scegliere il battesimo, ma una volta battezzato nessuno poteva tornare indietro senza diventare un apostata. Introdotto nei canoni, questo principio porrà un grosso problema alla cristianità: come confrontarsi con quelli che obblighi con la spada alla gola a convertirsi? Ti potrai fidare di loro nel momento in cui li obblighi, sotto pena di essere processati per apostasia, a tener fede ad un battesimo somministrato con la forza? Quale fiducia potrai avere nella loro fedeltà religiosa?
È questo un problema che da allora in poi attraversa tutta la storia dei rapporti tra ebrei e cristiani, e che nasce dal conflitto tra il principio della spontaneità della conversione e quello che considera valido il battesimo indipendentemente dal modo in cui sia stato somministrato. La contraddizione sarà perpetuata dalle formulazioni del diritto canonico, anche se verrà parzialmente risolta con la distinzione tra forza assoluta, che non imprime il carattere del sacramento e rende quindi nullo il battesimo, e forza relativa. Ma i casi di forza assoluta sono talmente limitati che è molto difficile riuscire a dimostrarne l’esistenza. Il battesimo, sancirà il diritto canonico, si considera somministrato con la forza assoluta, e quindi non valido, solo nel caso in cui colui che lo riceve sia legato mani e piedi e continui a protestare ad alta voce di non volersi battezzare. In tutti gli altri casi, anche quello in cui si è minacciati di morte, la forza esercitata è relativa, consente un’opzione, e quindi il battesimo è valido.
Quando ancora tale distinzione non era stata inventata, alla fine dell’XI secolo, quanti erano stati convertiti sulla punta della spada dalle bande dei crociati si affrettarono, passata la burrasca, a tornare all’Ebraismo. Da parte loro, i vescovi tedeschi non fecero opposizione, consapevoli dei rischi che avrebbe provocato l’esistenza di un gran numero di convertiti a forza.
Il problema si sarebbe ripresentato, e stavolta la scelta della Chiesa sarebbe stata diversa. Così, nel 1267 lo ripropone una Bolla di Clemente IV, la Turbato Corde, con cui i convertiti, e quegli ebrei che li aiutassero a tornare all’Ebraismo, erano posti sotto la giurisdizione inquisitoriale. Siamo ormai in un contesto storico in cui le eresie dilaniano la Cristianità occidentale e i tribunali dell’Inquisizione funzionano già da alcuni decenni per vegliare sull’ortodossia dei cristiani. Esclusa per definizione da ogni giurisdizione sugli ebrei, che sono considerati dalla Chiesa seguaci di una religio licita e non eretici, l’Inquisizione si affanna a trovare modi per estendere anche al mondo ebraico il suo controllo. La Bolla del 1267 apre molti spazi in questo senso all’Inquisizione, ma al tempo stesso acuisce fortemente il problema delle conversioni forzate.
La storia che inizia è una storia tragica: i convertiti che “giudaizzano” vengono scovati dai tribunali, torturati perché ammettano la loro apostasia, bruciati sul rogo. I giudaizzanti sono dichiarati eretici, nasce l’eresia giudaizzante. Così, mentre fino ad allora gli episodi più tragici dei rapporti tra mondo cristiano ed ebrei, come le persecuzioni e i massacri delle Crociate, avevano trovato l’opposizione della Chiesa e delle gerarchie ecclesiastiche, si innesta ora una spirale di violenza e persecuzione che rappresenterà uno degli elementi principali di precarietà della vita ebraica per secoli e di cui la Chiesa, e soltanto la Chiesa, è direttamente responsabile.
Nello stesso periodo, nasceva la questione del “segno distintivo”, inventato dal mondo islamico per distinguere gli infedeli, ebrei e cristiani, e fatto proprio dalla Chiesa nel 1215, anche se rimasto a lungo inapplicato. La funzione del segno distintivo era inizialmente quella di distinguere gli ebrei dai cristiani, di evitare promiscuità di varia natura, e in particolare sessuali, tra cristiani ed ebrei. Successivamente, esso assumerà, nella percezione dei cristiani e ancor più in quella degli ebrei, il senso di un’umiliazione. Il segno nasce in un contesto generale in cui la distinzione tra ebrei e cristiani va scomparendo, poiché nell’apparenza fisica e nel modo di vestire non esiste specificità o differenza di rilievo. E questo particolarmente in Italia, assai meno nel resto d’Europa e ancor meno in Germania, dove la distinzione dell’abbigliamento resta forte.
Guardiamo le miniature: in quelle di area tedesca, gli ebrei sono distinti dal cappello, dalle vesti. Le miniature italiane, in particolare quelle di età rinascimentale, mostrano invece ebrei che indossano abiti e ornamenti simili a quelli dei cristiani, danzano, suonano strumenti musicali. [3] In questo mondo privo di possibilità di distinguere gli ebrei dai cristiani, i frati, e in particolare i francescani, fanno un’aspra battaglia per imporre alle città riluttanti l’osservanza del segno distintivo. [4] I segni sono ovunque diversi: la rotella gialla (non dimentichiamoci che il giallo è il segno dell’infamia), il cappello giallo o rosso, certi tipi di mantello, perfino, per le donne, gli orecchini a cerchio che, come diceva il predicatore francescano Giacomo della Marca, sono per le donne “il segno della circoncisione”. [5] Da parte loro, gli ebrei fanno un’opposizione lunga e costante al porto del segno, cercando in tutti i modi di evaderlo.
Un altro elemento che, a partire dal Duecento, diventa terreno di scontro sono i libri ebraici, in particolare il Talmud. L’offensiva parte dai frati domenicani spagnoli e dai sovrani francesi, e viene fatta propria non senza esitazioni dalla Chiesa romana soltanto nel Cinquecento. Nel 1553, il Talmud è pubblicamente bruciato sul rogo a Roma. Successivamente, nonostante alcuni tentativi, in particolare sotto il pontificato di Sisto V, di limitarsi a censurare il Talmud, i papi finiscono per proibirlo totalmente. A differenza degli ebrei tedeschi, che possono continuare a leggere i loro libri, gli ebrei dello Stato della Chiesa dovranno fare a meno del Talmud per circa tre secoli. Una simile limitazione è qualcosa che non può non avere avuto ripercussioni molto forti sulla vita intellettuale e sulla trasmissione del sapere, come anche sulla vita quotidiana degli ebrei italiani. Ed anche di questo divieto la Chiesa è direttamente responsabile, almeno a partire dal 1553.
Non si possono invece far risalire alla diretta responsabilità della Chiesa, anche se sono spesso sostenute dal clero locale, le accuse di omicidio rituale e di profanazione dell’ostia che colpiscono le comunità tra basso Medioevo e prima età moderna. Così, gli ebrei sono accusati, nella maggior parte dei casi collettivamente, in quanto comunità, di uccidere ritualmente un bambino nel periodo della Pasqua per perpetuare l’uccisione di Cristo o anche per usarne il sangue nella preparazione del pane azzimo. Analoga è l’accusa di profanazione dell’ostia consacrata, quale possiamo rileggere nelle splendide immagini della pala di Paolo Uccello ad Urbino, commissionata dai francescani e ispirata ad un caso avvenuto a Parigi due secoli prima. Nel primo pannello, vediamo una donna che riscatta il suo mantello da un prestatore ebreo, dandogli in cambio un’ostia consacrata sottratta durante la comunione. Nei pannelli successivi, assistiamo alla frittura dell’ostia da parte della famiglia degli ebrei e al loro arresto. Il caso finisce con il rogo di tutta la famiglia, bambini compresi, mentre la donna si salverà se non la vita almeno l’anima, pentendosi in punto di morte. Favola edificante, in cui lo schema è analogo a quello dell’accusa di omicidio rituale. In altre leggende, l’ostia profanata mostra il volto di un Cristo bambino.
L’accusa all’ebreo è di voler distruggere, attraverso queste profanazioni, il Cristianesimo stesso. Bisogna però sottolineare che da queste accuse, in particolare da quella di omicidio rituale, la Chiesa medioevale prende nettamente le distanze. Così, le bolle papali del Duecento discolpano con forza gli ebrei. Non sarà così alla fine dell’Ottocento, quando la Chiesa riprenderà e farà sue le antiche accuse “medioevali”. Roma conobbe queste vicende una sola volta, nel 1554, quando un bambino fu trovato crocifisso nel Camposanto Teutonico, accanto al Vaticano, e la folla attribuì l’omicidio agli ebrei. Ma la Chiesa si affrettò a buttare acqua sul fuoco e a trovare i veri colpevoli dell’omicidio, che nulla aveva di rituale. [6]
Alla metà del Cinquecento, solo poche regioni d’Europa hanno ancora comunità ebraiche nel loro territorio. L’Inghilterra aveva espulso gli ebrei già alla fine del Duecento, la Francia nella prima metà del Trecento, la Spagna nel 1492 e i domini spagnoli in Italia fra il 1492 e i primi decenni del Cinquecento. Nel Cinquecento, gli ebrei vivono solo in una parte dell’Italia e in Germania. Nel corso del secolo, saranno ancora espulsi da molta parte della Germania, in particolare dalle città luterane, e in Italia dal milanese. E ovunque, in Italia, essi sono sempre più costretti a vivere rinchiusi da mura e portoni, nei ghetti.
Il primo ghetto è, come è noto, quello di Venezia, creato nel 1516. Il più famoso è il ghetto dei Roma, creato da Paolo IV nel 1555 con la bolla Cum nimis absurdum. [7] È quello durato più a lungo e quello più significativo, perché elaborato dalla Chiesa obbedendo ad un complesso progetto teologico e perché su di esso si modelleranno gli altri ghetti che nel corso del Cinque-Seicento chiuderanno gli spazi degli ebrei quasi ovunque in Italia.
Per la Chiesa, il ghetto obbedisce a ragioni che esulano dalla sola separazione degli ebrei dai cristiani. Spinte alla conversione, prediche forzate tutti i sabati da parte di predicatori che entrano nel ghetto, attività dell’Inquisizione che vigila sull’osservanza delle norme di separazione: tutto questo fa del ghetto una sorta di prigione all’aperto, che serve soprattutto a controllare gli ebrei in attesa di convertirli tutti e di chiudere per sempre la questione ebraica. Inutile dire che il progetto fallisce. Certo, molte sono le conversioni di ebrei nell’età dei ghetti, ma non abbastanza da incrinare davvero l’identità comunitaria, tanto più in una situazione di chiusura, in cui la reazione comunitaria alla pressione esterna tende naturalmente più a consolidare che ad incrinare la coesione. Alla fine, anche nel ghetto finiscono per riproporsi gli antichi equilibri, anche se in maniera molto più pesante di prima per gli ebrei. Il ghetto è infatti organizzato in maniera punitiva, a cominciare dagli spazi ristrettissimi, che non consentono alcun lusso neanche ai più agiati. Gli ebrei banchieri possono, ad esempio, avere il denaro per comprare pitture o arazzi, ma non possono avere pareti su cui appenderli. [8] È una società spinta sempre più ad investire nel prestito, fino a che nel 1682 la Chiesa non chiuderà i banchi ebraici facendo precipitare il ghetto di Roma in una miseria ancora più estesa.
Intanto, però, il mondo sta cambiando e con esso anche i rapporti con gli ebrei. La presenza ebraica in Europa, ridotta ai minimi termini nel corso del Cinquecento, cresce e si amplia nel corso del Sei-Settecento. L’Europa orientale si popola di ebrei, per lo più di origine tedesca. Altri ebrei si stabiliscono in Olanda, altri ancora “ritornano” in Inghilterra e in Francia. Sono, almeno inizialmente, ebrei portoghesi, cioè i discendenti di quegli ebrei che erano stati convertiti a forza nella penisola iberica tra Quattro e Cinquecento. Sono quindi “marrani”, passati attraverso più generazioni di vita cristiana, e ora in cerca di un luogo in cui ritrovare senza pericoli l’identità ebraica conculcata nel passato. L’esperienza della conversione forzata, lungi dal generare nuovi cristiani, è così all’origine di un rifiorire e di un rinnovarsi del mondo ebraico. [9]
In Italia, mano a mano che la Chiesa, di fronte all’emergere della nuova cultura e della secolarizzazione, si arrocca in una difesa ad oltranza contro la modernità, l’equilibrio tra ebrei e mondo cristiano diventa sempre più statico, sempre più oppressivo. A Roma, il ghetto resta chiuso in una sorta di immobilità, sottratto allo scambio con l’esterno, un esterno che da parte sua si va fossilizzando e va sempre più perdendo il rapporto con le correnti più vive e dinamiche della società europea. Per usare la frase famosa con cui Benedetto Croce ha definito la dominazione spagnola in Italia, potremmo parlare, a proposito del ghetto di Roma nel Settecento, di una decadenza che si somma ad un’altra decadenza. La chiusura con cui la Chiesa si oppone all’odiata modernità la rende molto sospettosa dell’Ebraismo, che le sembra affine a quella secolarizzazione che mette in crisi la sua egemonia nella società. Man mano che il mondo esterno si laicizza, il rapporto della Chiesa con gli ebrei peggiora.
A metà del secolo un papa che pure viene considerato l’esponente dell’ala più avanzata della Chiesa, Benedetto XIV Lambertini, sanziona la stretta della Chiesa sul mondo ebraico e rimette in discussione sia il tradizionale netto rifiuto dell’accusa di omicidio rituale da parte della Chiesa, sia le cautele con cui in passato Roma aveva gestito i casi di battesimi invitis parentibus. In particolare quest’ultima posizione, che sottraeva alla potestà dei genitori i bambini ebrei battezzati per consentire loro un’adeguata educazione cristiana, apriva la strada ad episodi sempre più frequenti di battesimi di minori, sottrazione di bambini alle famiglie, veri e propri rapimenti a scopo conversionistico. [10]
Il famoso caso Mortara, che costò al papato la perdita del favore dell’opinione pubblica europea e favorì la caduta del dominio temporale dei papi, fu preceduto e accompagnato da numerosi altri casi analoghi. Edgardo Mortara, un bambino ebreo di sei anni, fu sottratto alla famiglia a Bologna nel 1858 perché una domestica licenziata aveva denunciato di averlo battezzato di nascosto. Portato a Roma, allevato in Vaticano sotto la protezione di Pio IX nonostante le proteste dell’opinione pubblica europea, divenne sacerdote e morì nel 1940 in un convento in Belgio, tre mesi prima che i nazisti invadessero il Belgio. Vale forse la pena di domandarsi come i nazisti avrebbero trattato il sacerdote ebreo Mortara, se per una sorta di tragica ironia della storia egli non fosse morto subito prima che il discrimine tra un ebreo e un non ebreo divenisse il sangue, e non più il battesimo.
Torniamo alla metà del Settecento, un periodo nel corso del quale la situazione degli ebrei a Roma si deteriorò fortemente. Nuove norme del 1774 resero sempre più difficile la loro vita nel ghetto, l’esercizio di mestieri, i rapporti con l’esterno. Alla fine del secolo, il papato vedeva ormai negli ebrei i fautori della modernità, i seguaci dell’illuminismo e della rivoluzione. A torto, perché pochi sono gli ebrei che dentro il ghetto possono attingere al pensiero illuminista, pochi quelli che appoggiano attivamente i francesi e i giacobini durante la Repubblica del 1798. Solo il papato immagina una sorta di alleanza fra modernizzazione, illuminismo ed Ebraismo: un’alleanza che non ha, almeno nel contesto romano, nessuna ragione di essere, e che lo stesso mondo ebraico, estraneo nell’insieme alle nuove idee, fatica a comprendere appieno.
Dall’invasione napoleonica e dalla prigionia del pontefice in poi, la frattura appare incolmabile. La Restaurazione la aggrava ancora di più, carica com’è di volontà punitive su ebrei e liberali, e impegnata a ricostruire le discriminazioni abbattute dalla Rivoluzione. E se gli ebrei romani, chiusi di nuovo dentro il ghetto, fanno ancora fatica a far loro il progetto di emancipazione, il resto degli ebrei italiani vi si impegna pienamente e lo fa nell’unico modo possibile, appoggiando cioè il processo di costruzione dello Stato italiano e partecipando attivamente al Risorgimento.
A partire dal momento in cui la monarchia dei Savoia, prima in Italia, emancipa nel 1848 pienamente e definitivamente gli ebrei, e con loro i protestanti, la Chiesa inizia una violenta campagna contro questa emancipazione, che ai suoi occhi appare come la negazione del rapporto secolare che aveva intrattenuto con gli ebrei, la negazione della subordinazione dell’ebreo come condizione stessa della sua presenza. Insomma, la negazione della sinagoga cieca ed accasciata. Per la Chiesa dell’Ottocento, l’uguaglianza degli ebrei è una bestemmia, come il liberalismo, come la libertà di pensiero, come la modernità contro cui si scaglia e che non può accettare.
Nel 1870, alla caduta del potere temporale, l’emancipazione degli ebrei italiani giunge a compimento. L’ebreo diventa cittadino come gli altri, con gli stessi diritti e gli stessi doveri. La frattura radicale tra la Chiesa e lo Stato italiano inizierà a sanarsi dopo trent’anni, a partire dall’attenuazione del non expedit nel 1904 e poi nel 1929 con il Concordato. Non così la frattura che si era realizzata a partire dal Settecento tra la Chiesa e gli ebrei.
La polemica antiemancipatoria è accompagnata negli ultimi decenni dell’Ottocento dal crescere di un antiebraismo cattolico assai più aggressivo di quello medioevale e perfino di quello controriformistico. Le pagine delle riviste cattoliche di fine secolo riprendono l’accusa di omicidio rituale, nel momento in cui questo genere di accuse si ripresentava attuale in molta parte dell’Europa orientale, dando luogo a processi e pogrom. Si riprendono le antiche accuse al Talmud, ora che non vi è più la Chiesa a proibirne la lettura. L’organo dei gesuiti, la Civiltà Cattolica, si distingue per la virulenza delle sue campagne denigratorie. Nel dicembre del 1899, anglicani e cattolici inglesi si rivolgono a Leone XIII chiedendogli di ripubblicare le bolle papali che nel Medioevo avevano giudicato falsa l’accusa di omicidio rituale, in modo da porre fine a questa pericolosa calunnia. Ma il papa si limita a passare questa patata bollente al Sant’Uffizio, che risponde di non poter “dare il parere desiderato”.
I primi decenni del nuovo secolo non cambiano sostanzialmente la natura di questo atteggiamento antiebraico, che finisce inevitabilmente per saldarsi, almeno in una sua parte, con l’antisemitismo che si diffonde in Europa. Per quanto distinte restino l’ideologia razziale del nazismo e l’antigiudaismo cattolico di stampo tradizionale, molti sono i terreni in cui essi possono confluire e congiungersi. Uno di questi è l’ostilità all’emancipazione degli ebrei, che spiega forse, almeno in parte, la mancanza di reazione del mondo cattolico e della Chiesa di fronte a delle leggi che rappresentavano anche il rovesciamento dell’emancipazione, una radicale de-emancipazione.
Così, dopo la caduta del fascismo, lo storico gesuita Tacchi Venturi, parlando in maniera ufficiosa, poteva esprimere l’augurio della Chiesa che non tutto quello che era contenuto nelle leggi razziste fosse cancellato, dal momento che esse si basavano anche su principi che appartenevano alla tradizione della Chiesa cattolica e che essa continuava a rivendicare. [11] Subito dopo, la Chiesa rinunciò a questa linea contraria all’emancipazione, accettando il principio che alle differenze religiose non dovesse corrispondere nessuna discriminazione politica. Ma in quel momento, crediamo, lo accettò obtorto collo.
Come mostrano i primi anni del dopoguerra, la comprensione che ciò che era successo in Europa con la Shoah richiedeva una totale ridiscussione dei rapporti con il mondo ebraico fu assai lenta a realizzarsi all’interno della Chiesa, un ritardo che d’altra parte si ritrova nel resto del mondo europeo. Solo più tardi, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, la comprensione della Shoah e dell’antisemitismo diede inizio a quel ripensamento che avrebbe portato alla rinuncia al secolare “insegnamento del disprezzo” e alla svolta della Nostra Aetate.
[1] Su questo tema trattato in una bibliografia molto ampia, mi limito a segnalare il recentissimo volume di P. Stefani, Antigiudaismo. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2004.
[2] Cfr. K.R. Stow, Alienated Minority. The Jews of Medieval Latin Europe, Cambridge-London, Harvard University Press, 1992; A. Foa, Ebrei in Europa dalla peste nera all’emancipazione, Roma-Bari, Laterza, 2003.
[3] R. Bonfil, Gli ebrei in Italia nell’epoca del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1991.
[4] A. Toaff, Il vino e la carne. Una comunità ebraica nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1989.
[5] B. Blumenkranz, Il cappello a punta. L’ebreo medievale nello specchio dell’arte cristiana, Roma-Bari, Laterza, 2003.
[6] A. Foa, Eretici. Storie di streghe, ebrei e convertiti, Bologna, Il Mulino, 2004.
[7] Sempre fondamentale resta A. Milano, Il ghetto di Roma. Illustrazioni storiche, Roma, Carucci, 1964. Si veda anche K.R. Stow, Theater of Acculturation: The Roman Ghetto in the Sixteenth Century, Seattle, University of Washington Press, 2001.
[8] Su questi aspetti, cfr. L. Allegra, Identità in bilico. Il ghetto ebraico di Torino nel Settecento, Torino, Zamorani, 1996.
[9] La bibliografia su questo punto è sterminata. Si veda, tra gli altri, Y.H. Yerushalmi, Dalla corte al ghetto. La vita, le opere, le peregrinazioni del marrano Cardoso nell’Europa del Seicento, Milano, Garzanti, 1991; Y. Kaplan, From Christianity to Judaism. The Story of Orobio de Castro, Oxford University Press, 1989; H. Méchoulan, Gli Ebrei ad Amsterdam all’epoca di Spinosa, Genova, ECIG, 1998; N. Wachtel, La fede del ricordo. Ritratti e itinerari di marrani in America (XVI-XX secolo), Torino, Einaudi, 2003.
[10] Cfr., in particolare, M. Caffiero, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma, Viella, 2004.
[11] Anche su questo punto la bibliografia è vastissima. Mi limiterò a segnalare il contributo fondamentale di G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Otto e Novecento, in Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, Storia d’Italia, Annali, II, Torino, Einaudi, 1997, pp. 1369-1574 , e quello di R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna, Il Mulino, 2002.