| |

Attitudini dell’ebraismo nei confronti del dialogo interreligioso: Il dibattito intorno alla linea di Soloveitchik

 

26/09/2005: Brutti, Maria

 

Introduzione

Questo intervento nasce dalla frequenza di un corso organizzato durante lo scorso anno 2004/2005 dal Centro di Studi Giudaici Card. Bea sul tema “La Chiesa Cattolica e l’Ebraismo dal Vaticano II ad oggi” e da una ricerca sulle diverse attitudini dell’ebraismo nel dialogo interreligioso. Il punto cronologico d’inizio di questa riflessione, che si articola entro un ambito molto limitato, è il 1964 quando, in un periodo precedente all’uscita di Nostra Aetate, un articolo di Rav Soloveitchik, massimo rappresentante dell’ebraismo ortodosso negli Stati Uniti e capo della scuola rabbinica della Yeshivà University, pose al mondo ebraico il problema del rapporto ebraismo-cristianesimo e, più in generale, del dialogo interreligioso. Dall’ articolo-saggio “Confrontation” di Soloveitchik nacque, all’interno del mondo ebraico, un dibattito tra diverse correnti di pensiero che si è sviluppato fino ad oggi con posizioni e interpretazioni diverse. Questo intervento si propone in maniera molto sintetica di ripercorrerne le linee principali, dal 1964 ad oggi.

In Confrontation (1) Soloveitchik svolge la sua argomentazione in due momenti: nel primo stabilisce i presupposti del confronto; nel secondo considera la particolare situazione esistenziale dell’uomo ebreo e si interroga sulla possibilità di un confronto interreligioso.
Nel racconto della creazione, Soloveitchik vede l’uomo ritratto a tre progressivi livelli. Nel primo egli appare completamente integrato con la natura, senza avvertire le tensioni fra lui e ciò che lo circonda e senza porsi problemi esistenziali. E’ questo, precisa il Rabbi, non solo l’uomo della giungla, ma anche l’uomo moderno, che si può trovare nei luoghi di insegnamento e nelle stanze dei filosofi e degli artisti. E’ un uomo che è orientato esclusivamente al piacere per se stesso (11)e alla propria personale gratificazione. E’ un uomo che non si confronta.
Al secondo livello l’uomo, gettando uno sguardo contemplativo su ciò che lo circonda, avverte la sua separazione dal cosmo e scopre un terrificante e misterioso dominio delle cose, un ordine che limita l’esercizio del suo potere e si oppone a lui. In questa consapevolezza, egli scopre anche se stesso e si accorge che la sua esistenza è limitata da un non-Io esterno. E’ un uomo che si confronta, chiamato a scegliere tra l’alternativa di giocare un ruolo attivo come soggetto di conoscenza o di disperarsi, soccombere e dissolvere una esistenza intelligente in un assurdo nightmare.
C’è comunque un terzo livello, nel quale l’uomo si confronta di nuovo: Dio crea Eva (Gen 2,18,22), un altro essere umano. Nasce così la prima comunità umana, nella quale i due individui cominciano a comunicare tra loro. La parola è uno strumento paradossale di comunicazione e contiene una contraddizione intima: è segno di accordo, di comprensione, di cooperazione, ma anche di distinzione, di incongruenza e separazione. E’ paradossalmente vero che ogni essere umano vive sia in una comunità esistenziale, circondato da fratelli, sia in una condizione di solitudine e tensione esistenziali, confrontato con estranei. In colui con il quale io mi relaziono come essere umano, io trovo sia un fratello sia uno straniero poiché ciascuno di noi è unico e totalmente altro. Ma l’uomo moderno non è capace di operare bene a livello di confronto. Egli ha dimenticato la difficile dialettica dell’essere uno con e, allo stesso tempo, differente da, del vivere in comunità e allo stesso tempo in solitudine ed ha sviluppato un tipo di confronto nel quale cerca di dominare e subordinare il suo simile piuttosto che comunicare ed entrare in comunione con lui.
E’ questa la conclusione della prima parte dell’argomentazione,
Nella seconda parte, Soloveitchik si volge a considerare la situazione dell’uomo ebreo, che per sua propria caratteristica, è impegnato in una doppio confronto: quello umano universale e quello del patto esclusivo. Tale doppio confronto ha la sua ragione nella natura della comunità di fede, che trova la sua identità nella singolarità e nell’alterità. Tuttavia l’impegno con il resto dell’umanità non esclude il confronto di due comunità di fede, ma solo se le due parti potranno godere di uguali diritti e libertà religiosa. Allo scopo di salvare la individualità della comunità ebraica, Soloveitchik elenca perciò alcune condizioni.
1) Noi siamo una comunità di fede totalmente indipendente.
2) La comunità ebraica, che egli definisce la comunità dei “pochi” in contrapposizione alla comunità di “molti”, quella cristiana, ha diritto di professare la propria fede. Il confronto dovrebbe avvenire non a livello teologico, ma a livello umano e mondano. La discussione non dovrà svolgersi attorno ad argomenti di fede.
3) La comunità dei pochi non deve interferire nelle scelte che riguardano la comunità dei molti (testi, riti etc.). La non interferenza è conditio sine qua non ci sarà il progresso della buona volontà e del mutuo rispetto.
4) D’altra parte la comunità dei pochi non deve scendere a patti con la comunità dei molti su fondamentali argomenti di fede, ma deve rivendicare il proprio diritto a vivere, esistere, pregare, servire Dio alla propria maniera, in libertà e dignità.

La “linea” Soloveitchik

Il saggio di Soloveitchik suscitò interesse e dibattito nel mondo ebraico. Nella Conferenza Invernale del 3-5 febbraio 1964, il Rabbinical Council degli Stati Uniti di America fece proprie le indicazioni di Soloveitchik attraverso una delibera. In essa si ribadiva che la relazione tra le comunità può avere valore solo se si terrà conto dell’unicità di ogni comunità di fede, della sua piena indipendenza spirituale e libertà rispetto alle altre comunità, della sua intrinseca dignità e valore metafisico, solo se non prevarranno atteggiamenti revisionistici di una comunità rispetto alle altre. Questa delibera venne recepita da una parte del mondo ebraico, dando origine a quella tendenza che venne chiamata la “linea” Soloveitchik e divenne normativa per gruppi di ebrei ortodossi che si opponevano al dialogo teologico tra le religioni, raccomandando invece la considerazione di problemi morali e sociali. Tale linea venne ripresa nel 1988 da una risoluzione dei rabbini europei adottata al meeting di Bournemouth nella quale veniva riconfermato il valore del dialogo e della cooperazione tra le diverse religioni su problemi morali e sociali, ma non su argomenti teologici. Questa linea è stata accolta da una parte dell’ebraismo fino ad oggi.
Ma accanto a questa, alcuni dei discepoli di Soloveitchik hanno sviluppato altre elaborazioni sul confronto religioso che in parte che si sono contrapposte al pensiero del Maestro o ne hanno dato una diversa interpretazione. Tra questi, cito David Hartman (2), riferendomi ad un un articolo del 1983 (3), dove
Egli si propone di elaborare un approccio teologico diverso e opposto a quello del suo Maestro, attraverso il quale vuole dimostrare che la fede biblica non ha bisogno di essere antitetica al pluralismo religioso. Nel racconto biblico egli vede una dialettica interazione tra i temi della creazione e della rivelazione. Egli osserva che la Torah inizia con Dio che agisce con libertà e amore per creare l’universo. La nostra esistenza dunque implica una relazione a Dio che non comprende nessuna nozione di elezione o storia e costituisce l’esperienza di una relazione ontologica con Dio. E’ questo il primo tipo di relazione con Dio. Tuttavia la libertà e la possibilità della colpa danno origine a un processo che porta a una relazione attraverso un unico incontro – la rivelazione. E’ questo il secondo tipo di relazione. Un terzo tipo nasce quando la rivelazione verticale della Legge crea una struttura orizzontale nella comunità. La questione dell’elezione riguarda quest’ultimo tipo di incontro Dio-uomo. Dunque per Hartman, la giusta comprensione della rivelazione può lasciare il dovuto spazio al pluralismo religioso. Essa non è fatta per l’uomo universale, ma per un particolare individuo o una particolare comunità. L’elezione rappresenta una specificazione della relazione di Dio all’uomo, ma non implica che ci possa essere solo un esclusivo mediatore del divino coinvolgimento nella storia. Per Hartman non c’è incompatibilità tra il Dio universale e il Dio dell’elezione. Il Dio universale è il Dio della creazione. E’ il Dio come Signore della storia che entra nella specifica relazione con gli esseri umani e che può essere percepito in maniera particolaristica. Questi due ruoli di Dio sono semplicemente distinti e non incompatibili. Da queste affermazioni Hartman deriva la convinzione che il Buddismo, l’Induismo, il Cristianesimo, l’Islam e l’Ebraismo sono forme spirituali distinte che testimoniano la complessità e la pienezza dell’Infinito (4).
Tra coloro che riportano il problema a un contesto più specificatamente ebraico-cristiano, troviamo la posizione di Norman Solomon. In un articolo del 1991 (5), fermandosi a considerare i principali momenti successivi all’indirizzo di Soloveitchik, in particolare proprio la risoluzione del 1988, osserva tuttavia come tale dichiarazione potrebbe apparire restrittiva, ma il suo uso da parte dei discepoli di Soloveitchik fu permissivo piuttosto che restrittivo. A suo parere, essi infatti usarono la ruling del Rabbi per giustificare di fronte ai loro colleghi ortodossi, almeno negli Stati Uniti, la loro volontà di impegnarsi nel dialogo. Fu proprio la “Soloveitchikline” che consentì al Rabbinical Council of America, negli anni successivi al 1970 di partecipare alla formazione, sotto la leadership del World Jewish Congress, dell’IJCIC (The International Jewish Committee for Interreligious Consultations), che rappresenta il popolo ebraico in dialogo con enti religiosi internazionali, come il Consiglio Mondiale delle Chiese e il Vaticano. Sotto questa copertura, i rabbini ortodossi hanno continuato a svolgere un ruolo guida nel processo del dialogo interreligioso, ma al prezzo che i temi trattati non fossero esplicitamente teologici; in realtà, osserva Solomon, pochi soggetti sono stati esclusi e anche se gli argomenti sono stati sociali, la discussione si è svolta su un piano teologico. Soprattutto sei fattori hanno contribuito a progressi nel dialogo teologico: 1) la de-enfasi della dottrina; 2) Il miglioramento delle comunicazioni; 3) estesi orizzonti di spazio e di tempo, 4) Lo studio critico moderno della Bibbia e, tra quelli derivanti da specifici eventi storici del popolo ebraico, 5) la shoah e l’impatto che essa ha avuto sullo sviluppo della teologia; 6) la nascita dello stato di Israele.
Ma nel cammino verso il dialogo, per il mondo degli studiosi ebrei e dei rabbini il nome e il pensiero di Soloveitchik hanno continuato ad essere un punto di riferimento. Nel 2003 Christian Rutishauer pubblica un libro sul pensiero di Soloveitchik (6). Riflettendo sul confronto religioso, egli ritiene che il divieto del dialogo teologico debba essere visto nel contesto in cui esso è nato e nel fatto che in un momento così importante, Soloveitchik avrebbe agito con l’autorità e la funzione di posek(7), cioè di “legal decisor”, colui che decide l’halakà in quei casi di legge dove le precedenti autorità non erano state conclusive. Ma questo non significava rifiutare il dialogo, quanto stabilirvi dei limiti precisi. Sempre nel 2003 una Conferenza , sponsorizzata dal Center for Christian-Jewish Learning del Boston College, nasce dall’esigenza di un riesame delle tesi di Confrontation e di una revisione delle critiche rivolte a Soloveitchik. Al centro del dibattito, attualmente ancora aperto sulla rete Internet nel sito del Boston College, l’obiezione di Soloveitchik al dialogo teologico: si cerca di chiarire il significato più profondo di tale obiezione, se essa sia stata motivata da cause esterne o se essa sia insita al pensiero ebraico, soprattutto al concetto di halakà. Vengono comunque in genere riconosciuti i cambiamenti avvenuti nell’atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei e si osserva, fra l’altro, che la proclamazione di Nostra Aetate dette inizio ad un cammino teologico che continua fino ai nostri giorni e da cui il cristiano probabilmente non tornerà indietro.
Ma forse la migliore lettura del pensiero del Master theologian Rabbi Soloveitchik ci viene da un libro di Rabbi Irvin Greenberg, oggi uno dei maggiori fautori del dialogo ebraico-cristiano. In un libro pubblicato nel 2004 (8), egli ricorda il suo personale incontro con il Rabbi, di cui era discepolo e ci illumina sulle difficoltà incontrate da Soloveitchik, le quali ci forniscono in qualche modo una ulteriore motivazione della sua resistenza al dialogo teologico. Da un lato, afferma Greenberg, il Rabbi sospettava che un forte impulso al conversionismo potesse nascere dal dialogo, dall’altro l’apparente proibizione del dialogo teologico allentava su Soloveitchik la pressione da parte del mondo della yeshivah ultra-ortodossa, che si opponeva totalmente ad ogni tentativo di conversazione congiunta (9). Ma, in realtà, aggiunge Greenberg, la dichiarazione di Soloveitchik aprì la porta ad aree significative di insegnamento comune e di scambio.
Il cammino di Greenberg lo portò successivamente a distanziarsi dal Maestro e ad elaborare una sua personale concezione di dialogo religioso. Per lui non ci sono dubbi: nella visione halachica del mondo non c’è reale distinzione tra aree di azione sociale e di dottrina/teologia. Il dialogo dunque non può non essere anche teologico. Uno dei punti cardine del suo pensiero è la distinzione tra pluralismo e relativismo. Nel primo, dice Greenberg le diverse fedi conservano la loro affermazione di autorevolezza, mentre nel secondo tutte le visioni del mondo sono vere perché nessuna è vera (10). Greenberg si dichiara convinto che sia possibile mantenere l’autorità della tradizione facendo spazio ad altri sistemi religiosi. Il riconoscimento dell’immagine di Dio in altri popoli, dice Greenberg, ci porta ad apprezzare la loro umanità e la religione che ha aiutato a crearla. Ogni religione e cultura che promuove l’immagine di Dio è etica e valida. Dice ancora Greenberg: è tempo che l’ebraismo e il cristianesimo reinterpretino la loro reciproca relazione, ma questa nuova analisi deve includere una comprensione del pluralismo di Dio. Nessuna religione ha il monopolio sull’amore di Dio. Greenberg non si nasconde le difficoltà di questa nuova relazione e i problemi da superare, ma afferma: Per gli ebrei, tuttavia, il nuovo incontro offre straordinarie opportunità per una religiosa illuminazione e non solo per una nuova comprensione del cristianesimo, ma anche per una interna evoluzione dell’ebraismo in se stesso . Richiamandosi ancora a Soloveitchik e alla sua lettura del passo biblico dove l’uomo è creato a immagine di Dio (Gen 1,27), nel senso che è stato posto da Dio per servirlo come suo agente o messaggero, Greenberg si chiede: qual è oggi la missione di ebrei e cristiani, qual è lo scopo delle religioni? Risponde. insegnare che l’altro essere umano è a immagine di Dio e gode quindi di alcune prerogative: valore infinito, uguaglianza ed unicità. Per Greenberg il rapporto tra le religioni deve essere non solo di pluralismo, ma anche di partnership, di attiva collaborazione allo scopo di ristrutturare il mondo nel rispetto dell’immagine di Dio (12).



1) Vedi «Confrontation», in Tradition: A Journal of Orthodox Thought 6,2 (1964). Faccio presente che non mi è stato possibile rinvenire questo numero della rivista al Centro Documentazione SIDIC. Il testo qui considerato è stato preso dalle risorse della rete Internet in: htpp://www.bc.edu.research/cjl/meta-elements/texts/articles/soloveitchik.htm.
2) E’ uno dei più importanti pensatori ebrei contemporanei. Rabbino ortodosso e professore universitario, direttore dello Shalom Hartman Institute, centro per studi avanzati talmudici e filosofici in Gerusalemme. In tempi recenti è uscita una raccolta di suoi saggi in lingua italiana, dove questo articolo è parzialmente tradotto, vedi Sub specie humanitatis. Elogio della diversità religiosa, Quaderni di Qol, Reggio Emilia 2004, pp. 99-119.
3) «On the possibility of religious Pluralism from a Jewish Viewpoint», Immanuel 16 (1983), pp. 101-113.
4) «On the possibility of religious Pluralism», p. 113.
5) Vedi «The Context of the Jewish Christian Dialogue», Christian Jewish Relations 1991 (24), pp. 60-61.
6) Joseph Dov Soloveitchik. Einführung in sein Danken, Stuttgart 2003. Vedi anche «„Doppelte Konfrontation. Rav Dov Soloveitchiks umstrittenes Modell für den jüdisch-christlichen Diaolog “», Judaica 59 (2003), 12-23.
7) Joseph Dov Soloveitchik, 22.
8) For the sake of heaven and earth. The New Encounter between Judaism and Christianity, Philadelphia 2004.
9) For the sake of heaven and earth, 13.
10) For the sake of heaven and earth, 10.
11) For the sake of heaven and earth, 118.
12) For the sake of heaven and earth, 199.

 

Home | Who we are | What we do | Resources | Join us | News | Contact us | Site map

Copyright Sisters of Our Lady of Sion - General House, Rome - 2011