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Ebraismo e Vangelo di Matteo: a confronto con le scritture (I)

 

24/01/2008: Maria Brutti

 

Premesse

Negli ultimi venti anni, il problema del contesto sociale è diventato centrale nella ricerca su Matteo, ricevendo una attenzione che è almeno paragonabile alla questione del Gesù storico. [1] L’approccio storico-sociale ha anche prodotto un crescente interesse verso il mondo del I secolo e il problema dell’interazione o della opposizione tra Giudaismo e Cristianesimo delle origini. Studi del contesto storico sociale del Vangelo di Matteo si sono focalizzati sulla relazione tra la comunità di Matteo con il giudaismo del I secolo e hanno riconosciuto in genere che il Vangelo di Matteo mostra tracce del profilo settario dei movimenti giudaici nel tardo primo secolo. [2]

Un fattore centrale nella ricostruzione del contesto sociale di Matteo è stata la definizione dell’identità dell’audience e della comunità alla quale Matteo apparteneva. Usando il testo come prova, gli studiosi hanno ricostruito almeno tre profili:

1) Una comunità formata in prevalenza da gentili che ha completamente troncato i legami ideologici e sociali con il giudaismo;

2) Una comunità che si trova ancora dentro il giudaismo del primo secolo (intra muros) quando viene scritto il Vangelo;

3) Una comunità in transizione: ha rotto i legami con la sinagoga rimanendo extra muros, legata tuttavia alla sua eredità giudaica. [3]

Come suggerisce Harrington, Matteo è stato spesso definito il più “ebraico” dei quattro Vangeli e più di ogni altro Vangelo è incomprensibile senza il riferimento alla Bibbia ebraica [4] e, aggiungo, ad altri scritti giudaici. Non è tuttavia possibile ignorare l’altra opposta “faccia” del Vangelo, che ha portato alcuni studiosi a ritenere Matteo anti-ebraico e antisemita. Non si può ignorare inoltre, la complessità del Vangelo di Matteo, anche in riferimento a concetti che costituiranno poi la base dello sviluppo della cristologia e della ecclesiologia.

In una Introduzione al Nuovo Testamento, utilizzata oggi come testo di studio in numerose Università, in riferimento alla prospettiva teologica del Vangelo di Matteo, si elencano questi elementi: a) Particolarismo e universalismo; b) Cristologia; c) Ecclesiologia; d) Matteo e la Legge; d) Il giudizio. [5] L’autore Élian Cuvillier, osserva come però, fin dall’inizio degli anni 80 si assista ad uno spostamento metodologico, dovuto sia alle letture sociologiche che a quelle narrative. In riferimento al primo problema esaminato, Particolarismo e universalismo, relazioni con il giudaismo, si pone perciò l’interrogativo: La comunità matteana è una comunità multi-culturale, decisamente aperta alla missione verso i pagani, oppure gli ascoltatori di Matteo si considerano ancora appartenenti a Israele? Inoltre, osserva l’autore, proprio in relazione a questa problematica, oggi la questione dell’antigiudaismo matteano è fatto oggetto di grande attenzione. [6]

Con il termine “particolarismo”, termine che comunque, se messo in opposizione all’universalismo, sembra già avere di per sé un carattere riduttivo del pensiero ebraico, Cuvillier si riferisce proprio al radicamento di Gesù nella tradizione giudaica.

Considereremo oggi questa “faccia” del Vangelo di Matteo, rinviando l’altro aspetto, quello della sua “antiebraicità” al prossimo incontro. Il problema sarà considerato a partire dall’analisi e dal confronto con i testi stessi.

Secondo Cuvillier, il legame di Gesù appare chiaramente da alcuni elementi presenti all’interno del Vangelo di Matteo:

1)      Matteo conosce perfettamente il giudaismo del suo tempo, ritiene che gli scribi e dei farisei siano “seduti sulla cattedra di Mosè” e per questo rispetta il loro insegnamento (23:2)

2)      Il Gesù che Matteo ci presenta non è venuto per abolire nemmeno un solo iota della Legge (5:17 ss.)

3)      Gesù paga la tassa del Tempio (17:24-27)

4)      Matteo, a differenza di Marco, non spiega le usanze giudaiche di cui parla (cfr. Mt 15:1-9//Mc 7:1-13)

5)      Gesù manda i suoi discepoli alle sole “pecore perdute della casa di Israele” (Mt 10:6, ma cfr. anche 15:24).

Accanto a questi, se ne potrebbero citare altri, ma nella ricchezza delle relazioni, interrelazioni, opposizioni, contrasti che il Vangelo presenta, vorrei affrontare una questione che è

comune a tutti i vangeli, ma che nel vangelo di Matteo assume un particolare significato: l’espressione “Figlio dell’Uomo”.

1. Il Figlio dell’uomo tra Giudaismo e Vangelo di Matteo: A Confronto con le Scritture

Questo tema è stato oggetto di ampio e controverso interesse da parte degli studiosi, soprattutto dal 1960 in poi, quando alcuni di loro misero in dubbio la precedente opinione, affermando che il titolo di “Figlio dell’Uomo” o un concetto unificato di Figlio dell’Uomo esistesse nel Giudaismo-pre Cristiano. [7] Vorrei brevemente ripercorrere il problema sul quale ho avuto la possibilità di riflettere personalmente attraverso la frequenza di un corso del Centro Cardinal Bea per gli studi giudaici, tenuto lo scorso anno e guidato da uno dei maggiori studiosi del mondo ebraico, Daniel Boyarin.

Nel trattare questo argomento, a proposito del quale si è detto che per la sua complessità ha messo in luce “i limiti della scienza del Nuovo Testamento”, [8] considero tre momenti.

a) “uno come un figlio d’uomo” nel libro di Daniele

b) Il Figlio di Uomo nel Libro delle Parabole di 1 Enoch

c) Il Figlio di Uomo nei Vangeli e, in particolare, nel Vangelo di Matteo.

1.1 “uno come un figlio d’uomo” nel libro di Daniele

In Dan 7 troviamo la visione delle quattro bestie, identificate nel v. 17 dall’interpretazione dell’angelo come quattro re o regni. [9] Ma il centro della visione è costituito dall’apparizione di troni e due figure: “il vegliardo” (lett. l’Antico di giorni) e “uno come un figlio d’uomo”. Le due figure non sono interpretate nel libro, ma mentre l’Antico di giorni, che siede sul trono, è caratterizzato da una veste candida come la neve e capelli sul suo capo come lana di agnello (v. 9), ed è generalmente riconosciuto come il simbolo di Dio, l’interpretazione di “uno come figlio d’uomo” è più complessa e dunque controversa. Nella visione di Daniele, questa figura cammina sulle nubi del cielo e, quando giunge all’Antico di giorni, riceve da Lui un dominio, un dominio eterno, gloria e regno che non sarà distrutto (vv. 13-14).

Tra le diverse moderne interpretazioni, troviamo: un essere umano o una figura divina, due manifestazioni di Dio o anche una entità collettiva. [10] Secondo Boyarin, “Figlio di Uomo” non è solo un titolo cristologico, ma una idea ebraica. A suo parere, in Daniele possiamo trovare due descrizioni di Dio, una come Dio vecchio e una come Dio giovane , che insieme potrebbe indurre a pensare che “che ci sono Due Persone nei Cieli, quindi che ci sono Due Poteri nei Cieli, e quindi che Dio ha due Persone, una Persona-Padre e una Persona-Figlio”. [11] E’ questa la cosidetta dottrina del “binitarismo”. [12]

1.2 Il Figlio d’Uomo nel Libro delle Parabole in 1 Enoch

Secondo Boyarin, l’uso del termine “Il Figlio di Uomo” come nome per una figura specifica è incomprensibile in ebraico, in aramaico o a fortiori in greco a meno che non ci sia una allusione a uno specifico Figlio di Uomo. [13] E’ possibile rintracciarla nelle Parabole di 1 Enoch, nei capp. 37-71, dove troviamo alcune visioni di tipo escatologico, altre di tipo cosmologico. In questi testi possiamo anche individuare alcuni titoli: il Giusto (38:2); l’Unto (48:10; 52:4); l’ Eletto (45:3-4; 61:8) e il Figlio di Uomo. [14] In particolare, nel cap. 46 troviamo la visione del Principio (o Capo) dei Giorni e del Figlio dell’uomo. Ma mentre il Principio dei Giorni è descritto secondo la stessa modalità dell’Antico dei Giorni in Daniele: “Là vidi colui al quale appartiene il principio dei giorni, la cui testa era come lana bianca” (46:1), [15] l’altra figura, in un primo momento caratterizzata come uno “il cui volto aveva l’aspetto di uomo…pieno di grazia come uno degli angeli santi” (46:1), è poi indicata con il nome “Costui è il figlio dell’uomo”(46:2) e soprattutto come “il Figlio dell’uomo al quale appartiene la giustizia” (46: 3). Secondo Boyarin, questi versi indicherebbero chiaramente che il Figlio dell’uomo è divenuto un titolo. Il testo descrive poi altri tratti del Figlio dell’uomo, che appare seduto sul trono come giudice. Due di questi sembrano particolarmente significativi: la caratterizzazione del Figlio dell’uomo come una figura messianica (48: 4-6) e la sua pre-esistenza alla creazione :

“Prima ancora che fossero creati il sole e gli astri,

prima ancora che fossero fatte (nominate) le stelle del cielo,

il suo nome fu chiamato davanti al Signore degli Spiriti” (48:3)

In 48:1-7; 49: 2-3, il Figlio dell’uomo è possessore della divina sapienza al più alto grado. Egli è l’uomo sapiente. Abbiamo qui inoltre la teologia del Redentore celeste: secondo le Parabole di Enoch, il Redentore è sempre nei cieli. Una ulteriore evoluzione del Figlio dell’uomo si trova nel cap. 71, dove Enoch stesso è identificato con il Figlio dell’uomo (71: 14). [16]

Secondo Boyarin, le Parabole di Enoch dimostrerebbero una evoluzione nel concetto di Figlio dell’uomo, che appare particolarmente importante se noi lo compariamo con i Vangeli Sinottici. [17]

1.3 Il Figlio dell’Uomo nei Vangeli

La trattazione del Figlio dell’uomo nei Vangeli presuppone innanzi tutto alcuni interrogativi: Qual è la relazione tra le Parabole di Enoch e i Vangeli? Questi libri sono stati scritti nello stesso periodo? Dovremmo considerare anche quali sono state le fonti dei Vangeli e inoltre qual era il contesto religioso in cui nacquero i Vangeli. E ancora: In che modo la figura del Redentore appare nel Primo Giudaismo? Il figlio dell’Uomo era un titolo riconosciuto per indicare una figura di redentore celeste nella tradizione pre-cristiana?

Si tratta di problemi sui quali non c’è convergenza di opinioni. Anche Davies-Allison, in un ampio excursus sul Figlio dell’uomo, [18] si interrogano se il Figlio dell’uomo fosse un titolo già stabilito nel giudaismo del primo secolo. Nei confronti delle parabole di Enoch, essi, tuttavia, mostrano un atteggiamento più critico, sia perché molti studiosi sono convinti che le Parabole non siano pre-cristiane, sia perché esse dipendono dall’esegesi di Dan 7, come attesta il pronome dimostrativo: il Figlio dell’uomo è Costui, cioè “l’uno” di Dan 7. [19] Allo stesso tempo tuttavia, anch’essi riconoscono che il preciso significato di (del) Figlio dell’uomo nell’aramaico palestinese del primo secolo non è stato completamente chiarito. [20]

Dalla ricerca svolta finora, il termine bar nashà non appare come un termine normale per indicare “l’uomo in genere oppure colui che parla” [21] , come un titolo per una figura umana e celeste.

Se passiamo ora a considerare i Vangeli, e particolarmente il Vangelo di Matteo, possiamo trovare ulteriori caratterizzazioni. Il figlio dell’uomo è stato considerato come una figura umana (un vagabondo) o celeste (Mt 8:20// Lc 9,58: il Figlio dell’uomo non ha dove posare il suo capo); forse, secondo il suo significato cristologico, come essere umano: ha il potere di perdonare sulla terra i peccati (9:6// Mc 2,10; come una figura escatologica (10:23: prima che venga il Figlio dell’uomo); come una figura pre-esistente; [22] come il giudice escatologico (Mt 25:31: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della gloria). [23] Nel Vangelo di Marco, invece, il Figlio dell’uomo assume le caratteristiche di uno che deve soffrire, essere messo a morte e risuscitare (Mc 8,31; 9,31; 10,32-34 e par).

Ma è il Vangelo di Matteo soprattutto che pone il fondamento a una teoria della tradizione del Figlio dell’uomo nei Vangeli. Nel cap. 24 possiamo osservare due aspetti particolari: a) quando Gesù parla di sé stesso usando altri titoli; b) quando Gesù parla del Figlio dell’uomo in terza persona.

Nel v. 5 c’è una identificazione di Gesù come Cristo, il Messia (v. 5: molti verranno nel mio nome, dicendo: Io sono il Messia; v.9:….e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome). Ma nei vv. 27-33, Gesù appare come il proclamatore del Figlio dell’uomo. Secondo Boyarin, c’è qui una antica tradizione nella quale possiano vedere che, sin dal primo momento, Gesù e la sua audience aspettavano la parousia del Figlio dell’uomo, molto prima della morte di Gesù: sarebbe questo, allora un argomento molto forte a favore dell’antichità delle attese del Figlio dell’uomo nel mondo giudaico. Tuttavia, come abbiamo visto, non ci fu una comprensione unica dell’attesa di un redentore divino.

Nei Vangeli, comunque, abbiamo la rivelazione di Gesù su se stesso come Figlio dell’uomo. Consideriamo le due tradizioni sinottiche, in Mt 16: 13-16//Mc 8: 27-30 ponendo al centro la domanda di Gesù ai suoi discepoli. Mentre in Mt 16:13 Gesù parla del Figlio dell’uomo: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”, la domanda è diversa in Mc 8: 27: “Chi dice la gente che io sia?”. La tradizione di Marco non parla del Figlio dell’uomo, ma il parallelismo con il testo di Matteo pone una chiara identificazione tra Gesù e il Figlio dell’uomo, dal momento che “Io” in Marco corrisponde al “Figlio dell’uomo” in Matteo. Secondo Boyarin, era questo il momento nel quale Gesù rivelava se stesso ai suoi discepoli. Dunque, per Boyarin, l’espressione “Figlio dell’uomo” nei Vangeli costituirebbe una affermazione generale nella quale Gesù vuole dire: Io parlo di me stesso. [24]

Devo aggiungere che il termine “ Figlio dell’uomo” ha una importanza particolare per la nostra comprensione di Gesù stesso e per la Cristologia della Chiesa dei primi secoli. Nei Vangeli è la caratterizzazione più comune di Gesù ed è il termine che egli usa per riferirsi a se stesso.

Mi ha tuttavia particolarmente interessato un’osservazione (Boyarin): nei Vangeli nessuno chiede o nessuno mai è meravigliato quando Gesù parla del Figlio dell’uomo o come Figlio dell’uomo. Le persone sanno che cosa significa Figlio dell’uomo, ma non chi è il Figlio dell’uomo.

Al di là del fatto riguardante il rapporto tra la composizione dei Vangeli e quella delle Parabole di Enoch (anteriori ai Vangeli, posteriori o contemporanee che siano), la figura del Figlio dell’uomo appare come un chiaro esempio di come il giudaismo sia la matrice del Cristianesimo e allo stesso tempo di come anche i Vangeli possono costituire una fonte per il giudaismo. Come osserva Boyarin, nei primi stadi del loro sviluppo, giudaismo e cristianesimo erano fenomenologicamente indistinguibili come entità, ma più tardi, con lo sviluppo della cristologia da un lato e il rifiuto del Figlio dell’uomo (o meglio della dottrina giudaica del binitarismo), [25] “le differenze all’interno si ricostituirono come differenze tra”. [26]

L’osservazione di Boyarin ci introduce alla problematica che sarà sviluppata nel prossimo incontro. Problematica che non si pone soltanto come “interazione”, ma più chiaramente come opposizione mondo ebraico/Vangelo di Matteo. Vorrei introdurla con una immagine, o meglio un versetto, che costituisce la conclusione del cosiddetto Discorso in Parabole (13:52).

2. Lo scriba e il tesoro (Mt 13:52)

Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.

Non c’è consenso sull’origine e il genere di questo versetto, inteso come un proverbio; un’affermazione “domenicale”; un detto tradizionalmente giudaico-cristiano, un detto giudaico sapienziale; la trasformazione di una parabola della domenica riguardo al regno in un’altra parabola o una produzione editoriale di Matteo. [27] Secondo alcuni studiosi, nello scriba “divenuto discepolo del regno dei cieli”, si intravede l’autoritratto dell’evangelista, posto al centro del Vangelo. [28] Per Overman, lo scriba sarebbe un leader che rivolge un insegnamento alla comunità [29] ; il versetto inoltre riflette la presenza di ebrei dentro la comunità di Matteo che posseggono la stessa educazione e abilità di quelli che sono in opposizione a loro. C’è lo scriba della comunità, che è discepolo nel Regno dei cieli e prende dal suo tesoro cose nuove e vecchie: l’insegnamento di Gesù da un lato, la Legge e i Profeti dall’altro. Ma ci sono anche gli scribi dei Farisei, i quali usano la loro autorità e conoscenza per portare le persone fuori strada. Anch’essi hanno studiato la legge e la conoscono bene. Per questo, come si può vedere da altri passi di Matteo, bisogna obbedire a ciò che essi dicono, ma sono piuttosto le loro azioni che devono essere evitate”. [30]

L’osservazione di Overman, comunque si voglia intenderla, [31] tuttavia rimanda al valore storico del versetto, che è stato sostenuto a due livelli. Il primo, intra muros, presuppone l’esistenza di scribi giudaici autorizzati in una comunità che rappresenta il giudaismo matteano; il secondo, extra muros, presuppone l’esistenza di scribi cristiani nella nuova comunità, i quali sostituirebbero il ruolo degli scribi giudaici, a cui la comunità era abituata, a causa delle sue radici giudaiche. [32] Il riferimento al tesoro da cui estrarre cose nuove e vecchie porta a un ulteriore sviluppo. In questa ultima affermazione si è visto il pensiero teologico centrale di Matteo, in uno sforzo di riflettere la continuità tra nuovo e vecchio in Gesù, compimento della Legge e dei Profeti (vedi 5:17). Ci sarebbe qui una connessione tra l’antico Israele, a cui erano state consegnate le scritture ebraiche e la comunità di Matteo, vista come il nuovo Israele, custode del tesoro che conserva il nuovo e il vecchio. Ci sarebbe cioè qui il fondamento alla concezione del “vero Israele”. [33]

Tuttavia, questo mi sembra andare molto al di là di quanto il testo stesso voglia dire, e soprattutto se, come già detto, consideriamo la difficoltà di determinarne l’origine e il genere. Nel prossimo incontro torneremo su questi problemi, a partire dallo studio di alcuni testi “problematici e controversi” presenti nel Vangelo di Matteo, alla luce sia delle acquisizioni degli studi più recenti sul rapporto tra giudaismo e cristianesimo sia degli sviluppi che dal Concilio Vaticano II in poi ha avuto la riflessione sul dialogo ebraico cristiano. Sempre a partire dal confronto con le Scritture.



[1] A.E. Ewherido, Matthew’s Gospel and Judaism in the Late Forst Century C.E. The Evidence from Matthe’s Chapter in Parables (Matthew 13:1-52). Studies in Biblical Literature 91, Peter Lang ed., New York 2006, 1.

[2] Ibidem, 1.

[3] Ibidem, 2.

[4] D.J. Harrington, Il Vangelo di Matteo, ElleDiCi 2005, p. 19.

[5] D. Marguerat ed., Introduzione al Nuovo Testamento, ed. Claudiana, Torino 2004, 81-86.

[6] Ibidem, p. 86.

[7] Per questo dibattito, dal suo sorgere ad ora, vedi D. R. Burkett, The Son of Man Debate. A History and Evaluation, Cambridge, New York 1999, specialmentespecially pp. 69-123.

[8] G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica. EDB, Bologna 2002, p. 614.

[9] Riguardo alla data del libro di Daniele, l’opinione generale è che si debba riferire al periodo dei Maccabei, vedi, ad esempio, J. J. Collins, A Commentary on the Book of Daniel, Minneapolis: Fortress Press, pp. 304-310.

[10] Per questo problema, c’è una bibliografia sterminata. Mi riferisco soprattutto a C. Colpe, o( ui(o\j tou= a)nqrw/pou, in GLNT XIV (1984), 325 ss and to J.J. Collins, A Commentary on the Book of Daniel, 304-310.

[11] Vedi D. Boyarin, ‘Two Powers in Heaven; or, The Making of a Heresy’, in The Idea of Biblical Interpretation: Essays in Honor of J.L. Kugel, Leiden: Brill, 2003, 344, traduzione propria. Riguardo a questa idea, che Boyarin chiama come “binitarism”, egli invita a considerare che questa “could not have been an early category of heresy, but could only have been one of the options for Jewish belief at this time”, vedi ‘Two Powers in Heaven’, 333.

[12] Vedi anche dello stesso D. Boyarin, ‘The Gospel of the Memra; Jewish Binitarims and Prologue to John’, HTR 94 (2001), 243-284.

[13] D. Boyarin, ‘The Parables of Enoch and the Foundation of the Rabbinic Sect: A Hypothesis’, in M. Perani ed., The words of a wise man’s mouth are gracious (Qoh 10:12). Festschrift for Günter Stemberger on the occasion of his 65th Birthday, Studia Judaica 062, Berlin: Walter de Gruyter 2005, 57.

[14] A.A. Orlov, The Enoch-Metatron Tradition. Texte und Studien Zum Antiken Judentum, Tübingen: Mohr Siebeck 2005, 80 sottolinea il fatto che questo titolo è formulato nelle Parabole con tre differenti espressioni etiopiche e che esso appare numerose volte (46:2,3,4; 62,5,7,9,14; 63,11; 69:26,27,29 [twice]; 70:1; 71:14; 71,17).

[15] Vedi traduzione italiana di S. Chialà, Libro delle Parabole di Enoc, Brescia 1997, 97.

[16] Comunque, come nota Orlov, The Enoch-Metatron Tradition, 82-83, alcuni studiosi esprimono dubbi riguardo a questa identificazione perché essi ritengono che “Chapters 70-71 might represent later interpolation(s) and do not belong to the original text of the Book of the Similitudes”.

[17] Boyarin, ‘The Parables of Enoch and the Foundation of the Rabbinic Sect: A Hypothesis’, ritiene che il Libro delle Parabole sia “however typologically earlier than the Gospels in that the close connection with the exegetical source in Daniel is maintained throught”. Secondo lui, i Vangeli costituiscono “another typological moment in the development of this form of redeemer myth”.

[18] W. Davies- D.C. Allison, The Gospel according to Saint Matthew, in J.A. Emerton- C. Cranfield-G. Stanton, The International Critical Commentary on the Holy Scriptures of the Old and the New Testaments, II, Clark, Edinburgh 1991, 43-53.

[19] Ibidem, p. 45.

[20] Ibidem.

[21] G. Vermes, Gesù l’ebreo, Borla, Roma 1983, 211. Vedi anche 207. Vermes sostiene questa sua tesi in relazione al dato che nell’aramaico giudaico figlio d’uomo ricorre spesso come sinonimo di uomo e al posto del pronome indefinito e, più raramente, come una circonlocuzione per il pronome di prima persona

[22] G. Hamerton- Kelly, Pre-Existence, Wisdom and the Son of Man. A Study of the Idea of the Pre-Existence in New Testament, Cambridge: University Press: 1973, 22: “In the Synoptic tradition the idea of the pre-existence is always implied, never discussed explicity”. However, the authors find in the theme of the Son of Man one of the two elements in the tradition, “which seems to imply pre-existence most clearly”.

[23] Nota la somiglianza con 1 Enoch 61:8: “And the Lord of the Spirits placed the Elect One on the throne of glory/And he shall judge over all the works of the holy above in heaven.. Vedi anche 62: 2.

[24] Riguardo all’uso della terza persona nei detti di Gesù riferiti al Figlio dell’uomo e alle differenti intepretazioni di questo uso, vedi J. Dunn, Christology in the making: a New Testament inquiry into the origins of the Doctrine of the Incarnation, London: SCM 1980, 85-86.

[25] D. Boyarin, ‘Two Powers in Heaven’, 334.

[26] D. Boyarin, Border Lines. The Partition of Judaeo-Christianity, Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 2004, 89-90.

[27] Ewherido, Matthew’s Gospel and Judaism in the Late Forst Century C.E, 175.

[28] Questa convinzione si basa sull’assonanza del verbo maqhteuqei;" con il nome “Matteo”, vedi Harrington, Il Vangelo di Matteo, p. 187, ma Ewherido, Matthew’s Gospel and Judaism in the Late First Century C.E, 176 ritiene che essa non debba essere troppo accentuata.

[29] J.A. Overman, Matthew’s Gospel and formative Judaism: the social world of Matthean community, Fortress Press, Minneapolis, 1990, 128.

[30] Ibidem, 117.

[31] Ewherido, Matthew’s Gospel and Judaism in the Late First Century C.E, 176 osserva che tutta la seconda parte del discorso è rivolto ai discepoli della comunità e non ai capi della comunità o agli scribi.

[32] Ibidem, p. 177.

[33] Ibidem, p. 179.

 

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