04/11/2004: Card. Carlo Maria Martini
Nella sua conferenza, Mons. Bruno Forte richiama gli elementi fondamentali di una teologia cristiana dell’Ebraismo che legga positivamente il rapporto fra Ebraismo e Cristianesimo, senza lasciarsi tentare da estremismi esclusivisti (secondo cui il Cristianesimo non avrebbe niente in comune con l’Ebraismo e farebbe meglio a lasciar cadere il rapporto con il Primo Testamento) o inclusivisti (secondo cui il Cristianesimo implicherebbe la sostituzione del piano di Dio a favore del popolo di Israele con un altro piano di salvezza che prescinde da Israele).
La ricchezza dei dati della conferenza di Mons. Forte mostra che il problema è oltremodo complesso. Probabilmente siamo solo all’inizio di un ripensamento teologico, che è stato propiziato dal Concilio Vaticano II. Questo ripensamento si compie solo lentamente, e richiede tempo soprattutto la sua integrazione da parte delle comunità. Nella riunione tenuta a Grottaferrata dal 17 al 19 ottobre 2004 tra rappresentanti della Santa Sede e rappresentanti del Rabbinato d’Israele si è verificato che “non c’è ancora una coscienza diffusa nelle nostre rispettive comunità dei cambiamenti epocali avvenuti nella relazione tra cattolici ed ebrei”. Come ha riconosciuto di recente il rabbino Rosen, i progressi del dialogo sono poco conosciuti nella base del mondo ebraico; e questo vale in parte anche per il mondo cristiano. Perciò si è ritenuto opportuno dichiarare ancora un volta che “noi non siamo nemici, ma partner non equivoci nell’articolazione dei valori morali essenziali per la sopravvivenza e il benessere della società umana”.
Pensando alla lentezza di questo cammino di ripensamento, viene in mente la storia dolorosa del passato, quella che Giovanni Paolo II ha richiamato con senso di pentimento nella Quaresima dell’Anno Santo: secoli di incomprensioni, di ostracismi, di reciproci malintesi e di calunnie. È una storia alla quale non si può pensare senza una profondo senso di dolore e umiliazione, a mano a mano che ci si rende conto di quanto non pochi cristiani abbiano agito, in questo campo, contrariamente al Vangelo e abbiano perciò offuscato la verità e l’amore che dovrebbe sempre irradiare dalla Chiesa di Cristo. Oggi le cose stanno cambiando, ma occorre tempo ed energia, anche perché nuovi fatti storici nel tempo presente danno l’occasione al baco antisemita di riprodursi con teorie e giudizi negativi.
In questo quadro vorrei tentare di rispondere alla domanda: come può una Chiesa locale, tenendo conto dei pregiudizi ancora esistenti, aiutare la gente a superarli e creare un clima di convivialità, di rispetto e di stima, che sia terreno di coltura per un sano approfondimento teologico?
Non si tratta, infatti, soltanto di discutere fra specialisti del rapporto tra ebrei e cristiani, ma piuttosto di trovare dei punti di riferimento per un cammino di Chiesa, e per un dialogo tra popolo cristiano e popolo ebraico, che faccia da sfondo agli sforzi dei teologi e degli esegeti. La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore vitalità di un dialogo ad alto livello. Si tratta, da parte cristiana, di risuscitare nei fedeli la coscienza del loro legame con i figli di Abramo, con le conseguenze che ne derivano per la dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e per la sua missione nel mondo d’oggi. È necessario che la Chiesa si autocomprenda nella sua natura e missione in relazione al popolo ebraico. E ciò richiede innanzitutto l’attenzione a ciò che il popolo ebraico pensa e dice di se stesso.
Nell’indicare alcuni elementi che possono aiutare nello sviluppo di questa comprensione, non posso non fare riferimento alla mia più che ventennale esperienza di arcivescovo di Milano, durante la quale si sono avute numerose occasioni di incontro con membri della comunità ebraica. Ciò è stato anche merito del rabbino capo Prof. Laras, che ricordo con molta cordialità e gratitudine. Grazie a tali iniziative si è creato gradualmente un clima sempre più fraterno e aperto, con attenzione reciproca e sincero desiderio di mutua stima e conoscenza.
1. La mia esperienza mi dice appunto che è possibile intraprendere un cammino di amicizia e di riconciliazione, e che per questo sono necessarie almeno quattro premesse.
Primo: i cristiani devono conoscere non soltanto il Nuovo Testamento, ma anche i testi del Primo Testamento e debbono saperli interpretare alla luce del Vangelo, così da vedere la continuità tra le cose raccontate, promesse e previste nella Bibbia ebraica e gli eventi della Chiesa cristiana. È chiaro che questa lettura è tipicamente cristiana. Tuttavia essa aiuta a valorizzare il contenuto delle pagine del Primo Testamento e a stabilire una continuità, ponendo le basi per un approfondimento del dialogo.
Secondo: occorre una conoscenza dell’Ebraismo post biblico, che fino a ieri mancava quasi del tutto nella Chiesa cattolica. È necessario per questo – l’ho affermato più volte in questi anni – non solo conoscere i libri e le tradizioni che dopo la distruzione del Tempio hanno continuato a far vivere una speranza ebraica, ma anche allargare i propri orizzonti all’intera storia, alle consuetudini, ai talenti artistici, scientifici, letterari, musicali del popolo ebraico. Occorre, in sintesi, stimare e amare questo popolo. Non basta un semplice anti-antisemitismo. Bisogna dare motivazioni a un’amicizia che sempre più legga nel cuore dell’altro i pensieri comuni e trovi uno spazio per le differenze, senza che esse producano conflitto o emarginazione. A tale scopo saranno necessarie molte iniziative culturali. Anzitutto, nella formazione dei futuri sacerdoti, occorrerà insistere sulla conoscenza dell’Ebraismo biblico e post biblico. Negli ultimi anni si è fatto un certo progresso in questo campo, ma ancora molto resta da fare, anche perché sono pochi coloro che finora hanno ricevuto questa nuova formazione.
Terzo: è necessario mettersi insieme per realizzare iniziative concrete di carità, di servizio, di giustizia e di pace. L’etica cristiana e l’etica ebraica sono in gran parte identiche e tendono agli stessi obiettivi. Proprio per questo è possibile che ebrei e cristiani lavorino insieme in molti campi e si creino così quelle condizioni di mutua fiducia che sono la strada maestra per un dialogo interreligioso, interculturale e anche politico.
Quarto: là dove vi sono dei conflitti, come attualmente tra israeliani e palestinesi, bisogna stare in mezzo e operare perché cessino tutte le violenze e ciascuno impari a comprendere anche il dolore dell’altro. Per questo ho scelto di vivere gran parte del mio tempo a Gerusalemme e mi sono proposto come priorità la preghiera di intercessione (nel senso etimologico della parola: inter-cedere, camminare in mezzo, senza dare patenti di ragione o di torto a destra o a sinistra, camminare in mezzo in preghiera). Una preghiera di intercessione perché i popoli del Medio Oriente, e in particolare ebrei e palestinesi, trovino le strade della mutua fiducia e del dialogo. Quando mi si dice che questa preghiera non è esaudita, perché non si vede ancora la pace, io rispondo: non è vero. Ci sono a Gerusalemme molte iniziative di dialogo, di incontro, di ascolto. Gerusalemme non è solo città del conflitto, come appare dai mass media, ma anche città dell’amore e della preghiera.
Mi ha molto colpito, per esempio, l’incontro con un’associazione di famiglie palestinesi ed ebraiche, ciascuna delle quali ha avuto un parente ucciso nella guerra o a causa del terrorismo. Queste famiglie si trovano regolarmente insieme per comprendere le une il dolore delle altre e per proporre iniziative di dialogo, di riconciliazione e di pace. Mi pare che tutto sia nato dalla madre di una bambina ebrea che anelava alla pace e che già all’età di quattordici anni partecipava a manifestazioni per la pace. A sedici anni, la bambina venne uccisa da un terrorista. La madre, sconvolta, sentì che non doveva chiudersi in se stessa, nella disperazione e nel desiderio di vendetta. Essa si mise a cercare e a visitare le famiglie di coloro che avevano avuto una simile tragedia in casa, ebrei e arabi. Si sono così costituiti gruppi di incontro, che godono di grande credibilità presso le altre famiglie perché portano con sofferenza e dignità un dolore grande e ne fanno motivo per un superamento dei conflitti. Questo gruppo è riuscito a far parlare tra loro un gran numero di ebrei e arabi, offrendo la possibilità di mettersi in contatto telefonico. Sono state così promosse migliaia e migliaia di telefonate tra membri dei due popoli. Ho portato questo esempio per dire che la creatività per superare il muro dell’odio è senza limiti, e riesce a compiere cose mirabili.
2. Perché un cammino del genere sia possibile, occorre procedere per tappe
La prima tappa è quella della preghiera. Siamo consapevoli che, nel dramma della storia, l’uomo non è solo. Dimensioni insospettate di fede, di amore e di speranza si aprono sia per l’ebreo che per il cristiano. Per l’ebreo ogni momento o condizione di vita è una possibilità di adorare il nome dell’Altissimo, di rendere testimonianza al suo Nome Santo. A questo contribuiscono in particolare le feste che ritornano nei diversi periodi dell’anno, a partire dalla Pasqua. È perciò necessario che i cristiani comprendano questo costante atteggiamento ebraico di adorazione del Nome di Dio. Per vivificare le nostre eucaristie, per celebrare la nostra liturgia con tutti i suoi preziosi valori, noi cristiani dovremmo abituarci sempre più a capire le preghiere e la spiritualità degli ebrei.
La seconda tappa è la conversione dei cuore, in ebraico teshuvah. Per l’ebreo, ogni giorno è fatto per la teshuvah del singolo e della comunità. Anche per noi, ogni giorno dovrebbe essere il momento per cominciare a chiedere, a Dio e ai nostri fratelli, di accettare il nostro dolore per il male che abbiamo fatto e per il bene che ci siamo dimenticati di compiere. Curviamoci sul fratello ebreo, sulla storia delle sue sofferenze, del suo martirio, delle persecuzioni che ha subito. Rimuoviamo le interpretazioni tendenziose di passi contenuti nel Nuovo Testamento e in altri scritti. Dissipiamo le incomprensioni che ancora ci rendono diffidenti riguardo alla buona volontà reciproca. In realtà noi tutti desideriamo ardentemente la stessa cosa: essere autentici, essere fedeli alla verità conosciuta.
La terza tappa è quella dello studio e conseguentemente del dialogo. Per cercare la verità, l’umanità costruisce scuole, centri scientifici e universitari. L’Ebraismo ha elaborato in passato la riflessione talmudica con tutte le successive trattazioni. Oggi ha moltiplicato gli istituti di ricerca e di dialogo, che sono fiorenti sia a Gerusalemme sia in molte altre parti del mondo. La Chiesa non può ignorare i risultati di questa elaborazione, così come sono presentati nei testi religiosi, giuridici, filosofici della letteratura ebraica post-biblica. Il Pontificio Istituto Biblico di Roma ha ormai da anni un rapporto organico con l’Università Ebraica di Gerusalemme, per dare ai nostri studenti, futuri professori di Scrittura, la possibilità di frequentare almeno per un semestre un’istituzione prestigiosa di studi ebraici. Finora circa mille studenti, oggi docenti nei seminari di tutto il mondo, hanno tratto profitto da questo soggiorno. Sono convinto che la profonda penetrazione all’interno dell’Ebraismo e delle sue correnti sia vitale per la Chiesa, non soltanto per superare un’ignoranza vecchia di secoli e per avviare un dialogo fruttuoso, ma pure per approfondire l’interpretazione di sé come Chiesa.
In particolare, vorrei sottolineare l’importanza che avrebbe, per la teologia della prassi cristiana, lo studio dei problemi che derivarono dall’interruzione del contributo che la teologia e la prassi dei giudeo-cristiani stava dando alla primitiva comunità cristiana. Infatti, il primo grande scisma, quello fra ebrei e cristiani, privò la Chiesa dell’aiuto che le sarebbe venuto dalla tradizione ebraica. Mi limito a citare tre conseguenze di questo mancato apporto. In primo luogo, la difficoltà (tuttora evidente) della prassi cristiana a focalizzare il corretto atteggiamento dei singoli e delle comunità nei confronti del potere tecnico, economico e politico di questo mondo. In secondo luogo, la difficoltà della prassi cristiana a trovare il giusto atteggiamento nei confronti del corpo, del sesso, della famiglia. Infine, la difficoltà della spiritualità cristiana a individuare il legame autentico tra la speranza escatologica messianica e le speranze e le aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai diritti umani e così via. Le discussioni senza fine sulle applicazioni pratiche e sugli atteggiamenti in questi settori (basti pensare alle leggi sulla fecondazione artificiale e sull’uso degli embrioni per la ricerca) hanno le loro radici in quella ferita non guarita del primo scisma. Possiamo allora comprendere perché, nella Lettera ai Romani, San Paolo affermava che la ricomposizione dell’unità fra la tradizione ebraica e quella cristiana sarà “una risurrezione dai morti” (Rm. 11,15).
La quarta tappa è un dialogo universale e aperto a tutti. Ebraismo e Chiese cristiane non possono fermarsi a un dialogo che esclude altri interlocutori. Questo rapporto, per sua natura, deve essere anzitutto aperto all’Islam, per le comuni radici cristiane (storiche, culturali, religiose) e per la comune discendenza da Abramo. Qui non possiamo aspettarci risultati a breve termine o vantaggi strategici preferenziali: al contrario, bisogna cominciare a proporre valori comuni, per scoprire obiettivi e strumenti di dialogo, sapendo di rendere così un servizio all’intera umanità.
In questo dialogo ha un’importanza fondamentale la città di Gerusalemme. In una sua lettera apostolica su questo tema, Giovanni Paolo II ha dichiarato: “noi dobbiamo invocare la desiderata sicurezza, la giusta pace per il popolo ebraico, mentre d’altra parte il popolo palestinese ha il diritto naturale, secondo giustizia […], di poter vivere in pace e in serenità con gli altri popoli della regione”.
Il Santo Padre ha sottolineato che “la città santa di Gerusalemme, così cara a ebrei, cristiani e musulmani si eleva come un simbolo di incontro, di unione e di pace per l’intera famiglia umana” e ha invocato che “con buona volontà e larghezza di vedute sia trovato un modo giusto ed efficace affinché differenti interessi e aspirazioni possano essere messi insieme in una forma armoniosa e ferma”.
I rabbini e i membri della Commissione della Santa Sede nel loro recente raduno di ottobre hanno dichiarato tra l’altro, riferendosi a qualche episodio recente, che “Gerusalemme ha un carattere sacro per tutti i figli di Abramo. Noi facciamo appello a tutte le competenti autorità per il rispetto di questo carattere e per la prevenzione di azioni che offendano le sensibilità delle comunità religiose che risiedono in Gerusalemme e hanno a cuore questa città. Chiediamo anche alla autorità religiose di protestare quando azioni irrispettose vengono compiute verso persone religiose, simboli e luoghi santi. [...] Facciamo appello per una educazione di queste comunità religiose affinché tutti si comportino con rispetto e dignità riguardo alle persone e al loro attaccamento ad altre fedi”.
L’Ebraismo offre in tale contesto molti esempi di apertura al dialogo, non solo con l’Islam ma pure con altre religioni, così come con la scienza e la filosofia. Tra i cristiani, a proposito di questo dialogo, ricordiamo i nomi di Louis Massignon e di Charles de Foucauld, e, più di recente, di Giorgio La Pira, di Monsignor Rossano, del Cardinale Willebrands e del Cardinale Bea.
La quinta tappa è quella delle iniziative a livello di studio e di formazione scolastica. L’approccio alla religiosità e alla cultura ebraica può essere coltivato su tanti piani diversi. Sul piano dell’indagine scientifica, promuovendo incontri e ricerche, e coordinando ciò che già esiste; nelle scuole, usando le possibilità previste dalle leggi scolastiche e rivedendo i libri di testo. Si possono poi programmare corsi di aggiornamento per il clero e i catechisti e istituire corsi nei seminari e nelle diocesi.
Se le tappe precedenti verranno percorse progressivamente, sarà più facile affrontare anche l’ultima tappa, quella della creazione di punti di incontro e luoghi di collaborazione sociale, politica e culturale. Possiamo così sperare che, nel promuovere e nel difendere la vita e la libertà di tutti gli uomini, ebrei e cristiani si troveranno più spesso di un tempo gli uni accanto agli altri, per il comune impulso religioso e per le stesse ragioni etiche e ideali. La dichiarazione dei vescovi e dei rabbini sopra citata ricorda che l’insegnamento biblico richiede che il traguardo della giustizia (tzedek u-mishpat) venga perseguito attraverso le vie della beneficenza e della compassione (hesed we-rahamim): ciò domanda lo sforzo di andare oltre la lettera della Legge (lifnim mi-shurat ha-din) per il bene della società nel suo insieme. Perciò il Comitato chiede che sia data speciale attenzione alle sfide della povertà, della malattia e dell’emarginazione; di combattere la distribuzione non equa delle risorse e una globalizzazione senza solidarietà umana; di operare per la risoluzione pacifica dei conflitti, sottolineando le nostre responsabilità di fronte allo spettro del terrorismo in tutte le sue manifestazioni.
3. Che cosa ci aspetta come risultato di questo percorso? Proporre alcuni obiettivi comuni a lunga scadenza potrebbe apparire presuntuoso se non facessimo affidamento sullo Spirito di Dio, che fin dall’inizio ha aleggiato sulle acque primordiali. È Lui che invochiamo in ogni tempo: “Manda il tuo Spirito, Signore, e rinnova la faccia della terra” (Sal. 104,30).
Un primo obiettivo comune sarà di essere testimoni in tutto il mondo dell’amore del Padre, del fatto che tutti gli uomini sono ugualmente oggetto dell’amore di Dio. In questa testimonianza reciproca siamo dunque uniti, come da una meta che tutti ci attira.
Se noi cristiani crediamo di essere in continuità e in comunione con i patriarchi, i profeti, con gli esuli di Babilonia e con i martiri maccabei, è necessario che questa comunione si realizzi in tutti i modi possibili anche nei riguardi degli ebrei che a Yavne hanno codificato la Mishnah e a Babilonia il Talmud, che furono perseguitati dai crociati e processati per l’omicidio rituale. Andando oltre tutti questi eventi ed errori del passato dobbiamo tendere al tempo in cui saremo un unico popolo, che il Signore benedirà dicendo: “Benedetto sia l’Egitto mio popolo, la Siria opera delle mie mani, Israele mia eredità”.
Un secondo obiettivo comune per ebrei e cristiani viene dal fatto che entrambi sono chiamati a svolgere un servizio nei riguardi di tutta l’umanità, un servizio allo stesso progetto di alleanza. Questo servizio costituisce un ministero in qualche modo sacerdotale, una missione che può unirci senza confonderci, fino a quando verrà il Messia, che noi tutti invochiamo con le parole: Marana tha.
Se vogliamo tentare di descrivere questo ministero sacerdotale di Israele e della Chiesa, possiamo usare la categoria del “fare santo il Suo nome”, cioè di rendere presente la santità di Dio in noi stessi, nelle famiglie, nella società, nella creazione. L’Ebraismo ha sviluppato un’attenta riflessione sui precetti che santificano ogni momento della vita e sull’intenzione del cuore che ne costituisce l’anima vivificante.
Tra i molti campi di confronto, possiamo sottolineare la difesa e protezione della vita umana in ogni suo momento, dalla nascita alla morte; l’impegno di volontariato sociale; le diverse forme di non violenza; l’aiuto alle popolazioni in stato di grave necessità; l’assistenza ai malati e ai drogati; l’educazione dei giovani; la promozione artistica, culturale e scientifica. In tutti questi sforzi siamo guidati dal desiderio fondamentale di promuovere la pace nella giustizia. Una pace – ha ricordato Giovanni Paolo II ai rappresentanti della federazione israelitica svizzera a Friburgo – fondata sulla giustizia, sul rispetto dei diritti di ciascuno, sull’eliminazione delle cause di inimicizia, cominciando da quelle che sono nascoste nel cuore dell’uomo.
Se la Chiesa cristiana si sente chiamata ad essere coscienza critica, specialmente in Europa, non può non trovare al suo fianco, in questa missione, la forza della dottrina religiosa ed etica dell’Ebraismo. Se la Chiesa desidera essere ovunque promotrice del dialogo della pace, luogo di incontro universale dei popoli, nel nome di Cristo in cui tutte le cose verranno ricapitolate, allora è proprio nei confronti dell’Ebraismo che questo dialogo e questa pace devono essere innanzitutto promossi. Quanto più intensamente e profondamente ebrei e cristiani, nel rispetto della diversità dei contenuti specifici delle fedi, attueranno questa collaborazione fraterna, tanto più la loro presenza avrà un significato per l’Europa del terzo millennio e per il compito che l’Europa ha di fronte al resto del mondo.