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La relazione ebraico-cristiana: una scoperta conciliare e le conseguenze metodologiche nella teologia dogmatica

 

07/12/2004: Prof. Dr. Peter Hünermann

 

I. La problematica

La lotta del Segretariato per l’Unità dei Cristiani sotto il Cardinale Bea per una dichiarazione De Judaeis, culminata con successo nel documento conciliare Nostra aetate, ha prodotto frutti ricchissimi. Gli enunciati brevi ma equilibrati del Concilio Vaticano II non solo hanno avuto ampio consenso e sono stati ripresi in numerose pubblicazioni esegetiche e teologiche, ma hanno anche aperto la strada a un dialogo vivo fra la Chiesa e l’Ebraismo. [1] I papi stessi, specialmente Papa Wojtyla, i dicasteri romani, le conferenze episcopali e i singoli vescovi hanno preso posizione su questo tema e hanno promosso una revisione critica della storia ecclesiastica e un approfondimento teologico. Il documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (24 maggio 2001) è certamente uno degli studi più densi in questo ambito e un esempio significativo di questi sviluppi.

Una lettura attenta dei primi tre paragrafi dell’articolo quattro di Nostra aetate mostra la necessità di correggere una serie di proposizioni che facevano parte della tradizione teologica:

La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, [2] sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare di aver ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’antica alleanza, e che essa si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili. [3] La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e che dei due ha fatto una sola cosa in se stesso. [4] […]

Come attesta la Sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; [5] gli Ebrei, in gran parte, non hanno accettato il Vangelo, e anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. [6] Tuttavia, secondo l’Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono irrevocabili. [7] Con i profeti e con lo stesso Apostolo la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno tutti sotto lo stesso giogo» [Sof 3, 9]. [8] […]

E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, [9] tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi né agli Ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. […]

La Chiesa, inoltre, che condanna tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque…. [10]

Le constatazioni dogmatiche fondamentali sono tre. 1) L’inizio della fede e della elezione della Chiesa di Cristo si trova nei patriarchi, in Mosè e nei profeti; nell’esodo è prefigurata la salvezza della Chiesa. 2) I gentili, che appartengono alla Chiesa, sono innestati nell’ ulivo buono come un germoglio selvatico. 3) Nonostante il rifiuto del Vangelo da parte di numerosi ebrei, i doni di Dio e la vocazione d’Israele rimangono.

Si pone a questo punto la domanda se una semplice correzione materiale delle trattazioni dogmatiche, per esempio dell’ecclesiologia, sia sufficiente per rispettare la nuova concezione della relazione fra Chiesa di Cristo e popolo ebraico. Ci sono altri aspetti della teologia dogmatica che devono essere cambiati o rivisitati? Emerge inoltre la questione se la stessa metodologia della dogmatica non debba essere rinnovata affinché tutta la verità di questa relazione si possa sviluppare. Per fare un esempio: se la Chiesa e il popolo ebraico sono strettamente legati e se la Bibbia è riconosciuta come patrimonio comune della fede, nonostante le differenti tradizioni interpretative, non sorgono questioni che trascendono una correzione semplice di qualche proposizione finora trasmessa come ovvia? Qui – ci sembra – scaturiscono in effetti problemi metodologici. [11]

Questo sospetto è confermato da una riflessione più puntuale sulle tre constatazioni sopra menzionate. Esse non si riferiscono solo a qualche fatto casuale, accidentale, sul piano storico. Si tratta di proposizioni che aprono una visione trasformata della relazione Chiesa – popolo ebraico. Una visione che può essere misurata solo se il teologo la rapporta alle questioni teologiche fondamentali. In effetti, essa suppone un approccio specifico che fa vedere cose finora sconosciute, aprendo una serie di problematiche non facili da trattare. Per rispondere ad esse in maniera conveniente, è opportuno premettere un sintetico abbozzo della metodologia dogmatica, tralasciando le questioni di dettaglio e concentrandosi sugli aspetti fondamentali.

II. Una riflessione intermedia: tratti fondamentali della metodologica dogmatica.
Osservando la molteplicità delle pubblicazioni dogmatiche, l’ampia diversità dei temi, gli approcci così distanti sorge spontanea la domanda: cos’è la teologia se non un lavoro scientifico riguardo a temi connessi in qualsiasi modo con la fede o col Cristianesimo? Ma cosa significa il carattere scientifico della teologia? Esistono tratti comuni formali che caratterizzano la teologia dogmatica?

Negare questi tratti formali ridurrebbe la teologia a un tipo di scienza culturale. L’unità della teologia e il suo carattere proprio nel cosmo delle differenti scienze sarebbero persi. La determinazione di una prospettiva formale della teologia è ineludibile.

Nella Summa Theologiae Tommaso d’Aquino ha descritto questa prospettiva formale della teologia nella maniera seguente: la teologia tratta di Dio “principaliter”, e tratta delle creature in quanto “referentur ad Deum, ut ad principium vel finem”. [12] La base di questa determinazione della prospettiva formale della teologia è che Dio si manifesta nella fede come la “prima veritas”, cioè non come una delle molteplici verità categoriali, come una verità qualsiasi. Dio è la verità che si apre a se stessa e così lascia scaturire tutte le verità. E la rivelazione di Dio è marcata da questa struttura formale: Dio è “prima veritas in quantum manifestabilis et manifestativa omnium”.

L’autocomunicazione o l’apertura di Dio stesso come “prima veritas” e come salute vera dell’uomo si svolge essenzialmente attraverso gli avvenimenti dell’economia della salvezza, che comincia con la creazione e trova la sua pienezza nell’evento del Cristo. Nella scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento questi avvenimenti dell’economia divina hanno trovato la loro espressione autentica. Solo attraverso questa economia, cioè attraverso gli “obiecta materialia fidei”, l’“obiectum formale fidei” – Dio come “prima veritas” – è presente. D’altra parte, gli “obiecta materialia fidei” possono essere creduti solo attraverso questa prospettiva formale, ossia attraverso la luce della fede. Che cosa consegue da questa concezione della rivelazione per la struttura fondamentale della teologia?

Tommaso constata questa dottrina, non argomenta per provare i suoi principi – che sono gli articoli della fede –, ma parte invece da questi principi per mostrare altre cose. [13] Che cosa dimostra la teologia? Non si tratta semplicemente di deduzioni o conclusioni derivate da principi. Si tratta di una intelligenza approfondita della fede, della dimostrazione delle relazioni e della coerenza dell’insieme della fede, dei suoi oggetti materiali. Perciò la teologia utilizza non solo gli articoli della fede, ma anche tutte le forze dell’intelligenza e i risultati delle scienze filosofiche e storiche. Ma la sacra dottrina fa uso di questo tipo di autorità delle scienze come argomento “esterno e probabile”. Utilizza invece l’autorità delle Scritture canoniche in senso proprio e argomentando “ex necessitate”. [14] “La nostra fede è basata sulla rivelazione che è data agli apostoli e ai profeti che hanno scritto i libri canonici”. [15]

La teologia ribadisce la sua prospettiva formale riconoscendo nell’ambito metodologico l’autorità delle Scritture canoniche come autorità primordiale in rapporto alle altre istanze della fede. Tutte queste istanze hanno una funzione indispensabile, però hanno una funzione secondaria, di servizio.

Melchiore Cano, basandosi su questa concezione di Tommaso, ha trattato dell’elenco intero dei loci theologici. L’autorità della Sacra Scrittura è la prima istanza anche per lui. Poi vengono le autorità delle tradizioni orali del Cristo e degli apostoli. Istanza ulteriore è la Chiesa come comunità dei fedeli nella sua totalità, e inoltre i concili, la Chiesa romana, i Padri, i teologi. Infine, i loci alieni: la ratio naturalis, la filosofia, la storia.

Questa dottrina dei “loci theologici” è stata ampliata dal Concilio Vaticano II. Così le testimonianze della fede articolate e recepite nelle Chiese orientali sono state riconosciute come espressioni di fede autentica. Fra i “loci alieni”, il Concilio nomina anche la cultura profana nei suoi diversi aspetti e i risultati innegabili delle varie scienze moderne. [16] Nella Gaudium et Spes, per esempio, si afferma che la Chiesa comprende meglio il proprio messaggio e la propria struttura attraverso le scienze sociali.

Oltre ad aver ampliato i loci theologici, il Concilio Vaticano II ha trasformato l’uso che di essi fanno la Chiesa e la teologia.

Melchiore Cano sosteneva che i “loci theologici proprii” rappresentano i principi della fede in forma di proposizioni. Il Concilio invece, accogliendo la moderna prassi teologica, insegna che la Scrittura deve essere interpretata tenendo conto dei risultati delle scienze storiche e filologiche. Solo rispettando questi risultati si può arrivare all’intellectus fidei, che deve essere chiarito e spiegato. Questo intellectus fidei non è semplicemente comprensibile attraverso le proposizioni e le frasi della Sacra Scrittura. Lo stesso vale per gli altri loci theologici. Così la dottrina soggiacente alla metodologia teologica è stata approfondita rispetto alla concezione che proponeva Melchiore Cano. Un approfondimento e un cambiamento analoghi a quelli che Melchiore Cano stesso aveva introdotto rispetto alla concezione di Tommaso, senza tradirla.

Così i loci theologici rappresentano un nesso operativo, strutturato dalla fede nella sua storicità ecclesiologica. È il nucleo operativo della metodologia teologica.

Ora domandiamoci: non emerge un nuovo profilo dei loci theologici dalla nuova determinazione della relazione Chiesa-popolo ebraico?

Per indagare su possibili cambiamenti nella metodologia teologica e nel lavoro metodologico della teologia, propongo di procedere attraverso due fasi. Nella prima, cercheremo di capire se la scoperta conciliare della relazione ebraico-cristiana trasformi i loci finora conosciuti. Nella seconda fase, esamineremo alcune trattazioni dogmatiche e i nuovi problemi che esse pongono.

III. Cambiamenti dei loci theologici attraverso la scoperta conciliare della relazione ebraico-cristiana.

Vorrei mostrare la svolta avvenuta riflettendo innanzitutto sul primo locus theologicus, che è definito da Melchiore Cano “l’autorità della Scrittura Santa” contenuta nei libri canonici. Secondo Cano, la Sacra Scrittura consiste nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ma oggi la concezione dell’Antico Testamento e della sua relazione con il Nuovo Testamento appare parzialmente diversa.

Nel II secolo d.C. già si levano voci nella Chiesa che parlano della morte d’Israele. [17] Il senso è questo: a causa del suo rifiuto di Gesù Cristo, il popolo d’Israele ha perso la sua dignità come popolo d’elezione. È la Chiesa ora che rappresenta il popolo di Dio. Questa concezione è stata recepita rapidamente e ha marcato la tradizione cristiana, sia cattolica sia protestante. Nei suoi Discorsi sulla religione Friedrich D. Schleiermacher constata nel suo linguaggio romantico: “Da lungo tempo il Giudaismo è una religione morta: quelli che portano tuttavia oggi il suo colore assistono con lamenti una mummia incorruttibile e versano lacrime sulla sua morte e la sua triste eredità […]. Quando i suoi sacri libri furono terminati il dialogo di Dio col suo popolo terminò”. [18] Secondo questa prospettiva l’Antico Testamento è pre-storia del Nuovo Testamento, però una pre-storia definitivamente terminata, chiusa, quasi pietrificata.

Certo, nello stesso Nuovo Testamento, l’economia divina d’Israele viene caratterizzata come “pre-storia”. Anche la Nostra aetate riafferma questa tesi:

“Scrutando accuratamente il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, [19] sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù”. [20]

Esiste, dunque, una pre-storia del Cristianesimo. Però questa pre-storia non è semplicemente terminata, morta, pietrificata. Questa pre-storia è ancora efficiente. Per utilizzare un termine di Hans-Georg Gadamer, questa pre-storia ha una Wirkungsgeschichte che è attuale ed efficace ancor oggi. Qual è la base teologica di questa affermazione?

Nella Lettera ai Romani, Paolo afferma che la salda promessa della salvezza e della redenzione è legata a Gesù Cristo, sia per l’ebreo sia per il pagano. [21] Cristo è, secondo Paolo, il Messia d’Israele e i gentili ricevono la loro partecipazione attraverso il suo mistero. [22]

La remissione dei peccati, la giustificazione, la rinascita attraverso il battesimo sono fatti nuovi, che trasformano la precedente storia d’Israele in una pre-storia. Però la giustizia di Dio (Rom 1, 16) rivelata in Cristo e destinata ai fedeli – all’ebreo prima, poi anche al pagano – è una giustizia “ex fide in fidem”.

La prima alleanza, la via che conduce a Gesù Cristo – e Paolo esalta i doni grandi che Dio ha concesso a Israele su questa via – presenta una certa ambiguità in rapporto ai nuovi dati dell’economia di Dio: non tutti, ma molti in Israele si negano alla novità del Vangelo di Gesù. Paolo definisce questa esperienza – che fa lui stesso nell’annuncio del Vangelo e nel suo agire missionario – come “porosis”, “indurimento”. Porosis non significa per Paolo semplicemente una colpa personale. Nell’Antico e nel Nuovo Testamento porosis comprende tutta una serie di fenomeni che vanno dalla insensibilità personale e collettiva, fattiva, storica, fino alla ostinata negazione nei confronti dello Spirito di Dio. Questa porosis d’Israele, che Paolo constata, possiede – a causa della giustizia di Dio e a causa della sua fedeltà – un profondo senso salvifico: “Dio ha incluso tutti nella disobbedienza per essere misericordioso verso tutti” (Rom 11, 32). Nella Lettera ai Romani (11, 25) Paolo afferma che la porosis è in atto “fino a che saranno entrate tutte le genti” e così “tutto Israele sarà salvato”. Dunque, il termine porosis utilizzato nella Lettera ai Romani non è una categoria morale: è una categoria storico-teologica e manifesta una prospettiva storico-teologica.

Da questa spiegazione paolina – che i gentili sono innestati nell’ulivo buono d’Israele e partecipano della linfa della radice – risulta un duplice effetto della pre-storia. Essa è la radice nutriente che porta il nuovo. Questo significa che la Chiesa è inesorabilmente Chiesa degli ebrei e dei gentili. Se in Cristo non c’è più divisione fra ebrei e gentili, la Chiesa è obbligata a dare accoglienza agli ebrei che appartengono al popolo di Dio attuale a causa della pre-storia. D’altra parte, bisogna riconoscere che la Wirkungsgeschichte conduce gran parte d’Israele nella porosis. Però questa porosis sarà uno strumento per realizzare la salvezza. È un mistero riservato a Dio e alla sua fedeltà all’alleanza come questa via della maggioranza degli ebrei sia un cammino verso la salvezza.

Quali sono le conseguenze di questa relazione rispetto al primo locus theologicus, l’autorità della Sacra Scrittura? Felicemente l’esegesi moderna parla di un “esito doppio” della Bibbia. [23] Questa formula riflette risultati storici della ricerca scientifica sul canone, ma presenta anche una implicazione teologica. L’esito doppio segnala in maniera esatta che la pre-storia ha una doppia Wirkungsgeschichte. In questo senso la Bibbia esiste in un modo duplice: esiste in una prospettiva neotestamentaria e esiste in una prospettiva che rifiuta l’evento cristologico affermando però la relazione d’Israele a Dio e l’idea che la fedeltà di Dio alla sua alleanza rimane la causa della redenzione d’Israele. In questo senso la Bibbia, l’Antico Testamento, interpretata nella prospettiva ebraica, deve essere accettata dal teologo cristiano come espressione di una speranza valida per il popolo prediletto. Questa accettazione dell’Antico Testamento interpretato nella prospettiva ebraica racchiude in sé la differenza profonda fra tradizione ebraica e cristiana. Perché l’Antico Testamento – nella interpretazione cristiana – conduce a Gesù Cristo.

C’è una conflittualità, un’opposizione nella posizione cristiana stessa. Ma ogni relazione, anche una relazione conflittuale o d’opposizione, presuppone certamente un punto comune, un fondamento comune. Il fondamento della relazione della quale parliamo è il fatto che nella morte di Gesù sulla croce si manifesta proprio la fedeltà di Dio alla sua alleanza con Israele. È precisamente nella morte sulla croce che – nonostante l’opposizione al messaggio evangelico – si manifesta l’incondizionato amore di Dio. [24] Qui conseguentemente – per la visione cristiana – si trova il centro ermeneutico su cui si instaura la relazione ebraico-cristiana, così tesa e a prima vista escludente. È solo a partire da questo centro ermeneutico che quella relazione può essere interpretata in maniera adeguata. Solo così si rispetta l’insondabile amore e la grazia di Dio espresse nella morte di Gesù.

Nella fede escatologica in Gesù, Messia d’Israele, è impiantato un limite, un no, la sua morte. Solo se impiantata in questa morte la Chiesa può sperare nella resurrezione. [25] Questa è l’esperienza paradossale, anzi contraddittoria, dei discepoli. Gli avvenimenti pasquali e le esperienze espresse nei primi testi pasquali non conducono a una semplice plausibilità della fede. Chi crede e afferma la verità escatologica del Cristo è chiamato ad accettare una radicale apertura, un’ignoranza teologica, l’impossibilità radicale di disporre di se stesso, l’impossibilità di fare della storia una linea diritta. Paolo dice che il battesimo impianta i fedeli nella morte di Gesù. Questo vale per i primi discepoli, ma anche per coloro che credono a causa della loro parola. È attraverso la morte di Cristo che i gentili sono innestati nell’ulivo buono. È attraverso il buio impenetrabile e la notte oscura che la salvezza dell’unico popolo di Dio sarà manifestata. Se la Chiesa vedente delle nostre cattedrali del Medioevo non abbraccia la sinagoga cieca, non avrà futuro. La via della fede è una via con Gesù Cristo e con la sua parola che si attua attraverso la morte e la vita.

Spostiamo ora l’attenzione su un altro locus theologicus, inteso da Melchiore Cano come “l’autorità della Chiesa cattolica”. Attraverso la riscoperta della comunione con il popolo ebraico anche questo topos – a mio parere – assume un profilo differente. In un’epoca in cui l’idea che la Chiesa ha preso il posto d’Israele, che Israele è stato rigettato da Dio e non gioca più un ruolo nella storia salvifica, era un’affermazione teologica ovvia, l’autorità della Chiesa cattolica era un qualcosa di chiuso in sé e auto-determinato. La Chiesa era il risultato del Vangelo escatologico e si fondava su se stessa. Ora, se la Chiesa cattolica è invece essenzialmente Chiesa degli ebrei e dei gentili e se i gentili sono essenzialmente innestati nelle radice di Israele, ne risulta che questa Chiesa contiene in sé un opposto, un altro innegabile. Questo opposto, questo altro innegabile marcato dalla porosis ma portatore delle promesse salvifiche, dà un nuovo profilo al locus theologicus dell’autorità della Chiesa cattolica. Questa autorità della Chiesa cattolica è una realtà relazionale in se stessa e in questo senso relativa. La relazione a Israele come radice e come gruppo caratterizzato dalla porosis fanno di questa autorità un’autorità simultaneamente escatologica e definitiva perché è testimone della salvezza destinata a ebrei e gentili. Ma i gentili sono ammoniti da Paolo a non diventare superbi, perché, se Dio non ha risparmiato i rami naturali, “così non risparmierà te” [26] .

Dunque, è possibile una porosis, o un “taglio”, per i rami selvatici innestati come per Israele. Questo significa che possono darsi anche nella Chiesa “indurimenti” storici. Infatti, se il magistero è esatto e la tradizione correttamente trasmessa, è però possibile che il magistero e il sensus fidelium siano ciechi di fronte ai segni dei tempi, di fronte alle necessità storiche e incapaci di una risposta adeguata al soffio dello Spirito. In questo caso la parola del magistero e della Chiesa sarebbe una parola sterile anche se corretta.

È lo Spirito di Dio e la sua grazia giustificante che permettono che anche da queste parole morte sgorghino penitenza e vita spirituale. “Dio può fare di queste pietre figli di Abraham” [27] . Questa è la speranza escatologica. I pronunciamenti di Papa Giovanni Paolo II sull’atteggiamento della Chiesa nella storia, l’antisemitismo e il disprezzo del popolo d’Israele nascosto nella vita della Chiesa, manifestano il riconoscimento di questa ambiguità nell’autorità della Chiesa cattolica. Le parole di Mt 16, 18: “et portae inferi non praevalebunt adversus eam”, spesso ripetute in uno spirito di sicurezza cieca, possono essere confessate solo in uno grande spirito d’umiltà e pensando alla grazia misericordiosa di Dio.

È logico che le riflessioni riguardanti questi loci theologici abbiano conseguenze per il profilo dei loci theologici subordinati. In questo senso la riscoperta della relazione Chiesa-popolo ebraico condiziona molti loci theologici in maniera significativa. La relazione Israele-Chiesa obbliga a mantenere l’accento sullo Spirito e non sulla lettera.

IV. Il nuovo uso dei loci theologici.

La trasformazione dei loci theologici di cui abbiamo appena parlato induce a un nuovo uso di questi loci.

Vorrei ora illustrare innanzitutto alcuni problemi che appaiono nella trattazione dogmatica di Dio. Nella dogmatica tradizionale e nell’uso dei loci theologici dominava, come abbiamo visto, il concetto della pre-storia determinata, finita, chiusa. Così gli enunciati veterotestamentari su Dio appartenevano a questa pre-storia. La maniera nella quale già nella Patristica – si pensi al De doctrina christiana di Agostino – venivano interpretati versi “offensivi” dell’Antico Testamento, mostra come la dogmatica ha trattato il mistero di Dio. Il modello della critica platonica dei miti serviva alla teologia per respingere enunciati antropomorfici su Dio e per differenziare così il messaggio del Vangelo.

È ovvio che il pensiero filosofico possiede uno spazio legittimo nella dogmatica. L’elaborazione dell’intellectus fidei non può rinunciare all’uso della ragione. Senza la ragione naturale la teologia non sarebbe altro che “una sancta rusticitas”, dice Melchiore Cano. D’altra parte, se la pre-storia è una pre-storia effettiva, se Israele è realmente la radice nutriente della Chiesa ex Judaeis et gentibus, in che modo si manifesta la verità di Dio anche nei versi “offensivi” su Dio?

L’esegesi veterotestamentaria moderna ha riscoperto l’immensa pluralità e complessità dei predicati di Dio nell’Antico Testamento. Ecco un solo esempio: recentemente Andreas Michel ha pubblicato un lavoro dal titolo Dio e la violenza contro i bambini nell’Antico Testamento, [28] in cui analizza un gran numero di testi che parlano della violenza contro i bambini e si concentra poi sui testi che parlano della violenza di Dio contro i bambini. Il problema di come trattare metodologicamente questi testi non è stato finora risolto. Ma certo, ignorare questi testi come spesso succede nella teologia dogmatica non è più tollerabile. I problemi che si aprono non sono solo problemi di teologia morale e di etica. La questione è molto più profonda: ci si chiede se questa maniera di parlare di Dio non sia una cosa blasfema per gli uomini di oggi e tutt’altro che una confessione della fede in Dio. È possibile snodare questa problematica senza un dialogo con l’interpretazione ebraica di tali testi? Questo non significa ovviamente che i classici loci alieni non devono essere consultati in questo contesto. Piuttosto, il riferimento all’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento diventa una istanza “semi-propria”, un locus theologicus semiproprius, per la teologia: “semi-proprio”, perché appartiene alla Chiesa e fa parte del suo “patrimonio” essendo la su radice. E “semi-proprio”, perché alienato da Cristo.

Un altro esempio del nuovo uso dei loci theologici potrebbe essere individuato nella trattazione della ecclesiologia. Abbiamo ricordato sopra il profilo proprio che riceve il locus theologicus dell’autorità della Chiesa cattolica. Come Chiesa ex Judaeis et gentibus che nasce da Israele, salvata e unita per la croce, per la resurrezione del Signore e per la missione dello Spirito, questo popolo di Dio è popolo messianico nel senso proprio e autentico.

È interessante che il Concilio Vaticano II abbia utilizzato la parola “popolo messianico” nella costituzione dogmatica Lumen gentium art. 9:

Questa alleanza nuova l’ha istituita Cristo: il nuovo patto nel suo sangue [cfr. 1 Cor 11, 25]. Egli chiama gli uomini dai giudei e dai pagani, per formare di essi un’unità che non è più secondo la carne ma nello Spirito, cioè il nuovo popolo di Dio. Infatti coloro che credono in Cristo, i rinati non da seme corruttibile ma da uno incorruttibile che è la parola del Dio vivente [cfr. 1 Pt 1, 23], non dalla carne ma dall’acqua e dallo Spirito Santo [cfr. Gv 3, 5s] costituiscono «la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato […]; quelli che un tempo erano non popolo, ora sono il popolo di Dio» [1 Pt 2, 9s].

Da questo carattere messianico derivano prospettive per l’elaborazione della ecclesiologia. La Chiesa è popolo messianico che segue Cristo: è chiamato, dunque, a partecipare alla missione messianica di Gesù Cristo. La riconciliazione, il perdono dei peccati, l’arrivo del regno sono proclamati messianicamente, e il popolo di Dio deve verificare queste verità nelle differenti situazioni storiche. È la missione messianica, descritta in Isaia 61, 1-4. La verifica del Vangelo si manifesta in una maniera di vivere. Dunque, il carattere pneumatico e carismatico della Chiesa deve essere determinato in una maniera nuova. E qui la relazione della Chiesa con il mondo e con la situazione storica degli uomini riceve un peso enorme.

Finora l’ecclesiologia teologica era interessata principalmente a mostrare che la Chiesa è fondata da Gesù Cristo e riceve le sue strutture da questa costituzione. Se l’accento nella ecclesiologia è messo invece sul popolo messianico che segue Gesù Cristo, la verifica della Chiesa e la verifica delle sue strutture si fondano primariamente sulla evoluzione della dinamica messianica che è la caratteristica di questo popolo. Anche se questa dinamica messianica si realizza sempre in forme frammentarie, essa rimane il tratto fondamentale. Così la teologia, e in particolare l’ecclesiologia, si trova di fronte a provocazioni metodologiche. Elaborando l’aspetto messianico che vede Gesù Cristo come il Messia che ha realizzato la sua messianicità nella forma di servo, emergono i criteri e le forme di vita per la Chiesa di oggi. Tutti i momenti organizzativi e strutturali della Chiesa trovano il loro senso nel servire ed esprimere il carattere messianico della comunità dei fedeli.

Come ultimo esempio, vorrei accennare rapidamente alla trattazione dogmatica delle virtù teologali, in specie della fede. È la fede che caratterizza i giusti dell’Antico Testamento come i fedeli del Nuovo Testamento. Cambiano gli oggetti materiali della fede nell’economia divina, ma non cambia la fede stessa. I Padri della Chiesa come i teologi medievali hanno affermato questa verità con fermezza. Oggi si pongono questioni ulteriori: come parlare della fede, se l’Antico Testamento parla dell’alleanza di Noè, di Melchisedek e degli altri patriarchi prima dell’alleanza con il popolo dopo l’esodo? Che “figure” può assumere la fede in Dio? Sono questioni che toccano il dialogo con le differenti religioni. Possono essere risolte senza prendere in considerazione l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento?

Spero che queste riflessioni esemplificative abbiano mostrato che la scoperta della relazione ebraico-cristiana provoca nuove riflessioni metodologiche nella teologia cristiana e specialmente nella teologia dogmatica.



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[1] Cfr. La relazione sulla situazione del dialogo cristiano-ebraico, in: ThQ 180 (2000), 81-160.

[2] Cfr. Gal 3, 7.

[3] Cfr. Rm 11, 17-24.

[4] Cfr. Ef 2, 14-16.

[5] Cfr. Lc 19, 44.

[6] Cfr. Rm 11, 28.

[7] Cfr. Rm 11, 28s. Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, n. 16 (AAS 57 [1965] 20, 4140).

[8] Cfr. Is 66, 23; Sal 66[65], 4; Rm 11, 11-32.

[9] Cfr. Gv 19, 6.

[10] Nostra aetate art. 4, 4198.

[11] Cfr. Peter Hünermann/Thomas Söding (a cura di), Methodische Erneuerung der Theologie. Konsequenzen der wiederentdeckten jüdisch-christlichen Gemeinsamkeiten, Quaestiones Disputatae 200, Freiburg i.Br. 2003.

[12] STh I q.1 a. 3, ad 1.

[13] STh I q. 1 a. 8.

[14] STh I q. 1 a. 8, ad 2.

[15] Ibid.

[16] Cfr. GS 44.

[17] Melito di Sardi, Homilia in passionem Christi, Z. 762-764. Cfr. Walter Groß, Der doppelte Ausgang der Bibel Israels und die doppelte Leseweise des christlichen Alten Testaments, in W. Groß (a cura di), Das Judentum – eine bleibende Herausforderung, Mainz 2001, 9-25, 14.

[18] Friedrich D. E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden and die Gebildeten unter ihren Verächtern, Kritische Gesamtausgabe I-XII, a cura di G. Meckenstock, Berlin-New-York 1995, 282, 284f. [trad. ital. Sulla religione: discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano. Edizione italiana a cura di Salvatore Spera. Brescia: Queriniana, 1989].

[19] Cfr. Gal 3, 7.

[20] Nostra aetate art. 4, 4198.

[21] Cfr. Rom 1, 16s.

[22] Cfr. Rom 1, 3s.; 9, 5;15, 8. Cfr. Michael Theobald, Studien zum Römerbrief (WUNT 136), Tübingen 2001, 278-323; 367-395. Cfr. Willhelm Thüsing, Die neutestamentlichen Theologien und Jesus Christus. Grundlegung einer Theologie des Neuen Testaments III: Einzigkeit Gottes und Jesus-Christus-Ereignis (mit Studien zum Verhältnis von Juden und Christen), a cura di Thomas Söding, Münster 1999.

[23] Cfr. Walter Groß, Der doppelte Ausgang der Bibel Israels, cit.

[24] Cfr. Helmut Merklein, Der Sühnetod Jesu nach dem Zeugnis des Neuen Testaments, in H. Merklein, Studien zu Jesus und Paulus II (WUNT 105) Tübingen 1998, 31-59, in part. 35-37.

[25] Cfr. Rom 6, 5.

[26] Rom 11, 21.

[27] Cfr. Lc 3, 8.

[28] Andreas Michel, Gott und Gewalt gegen Kinder im Alten Testament. Tübingen: Mohr, 2003.

 

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