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Mosè. Riflessioni sulla polisemia di una figura biblica

 

26/02/2004: Roberto Bonfil

 

Per gli eredi del paradigma di sapere occidentale, composto da una parte dalla cosiddetta tradizione giudeo-cristiana, e dall'altra parte dalla tradizione culturale greco-romana, arricchita dalla speculazione teologica dei pensatori arabi dell'Alto Medioevo recepita in Occidente a partire da quello che seguendo Georges Duby siamo soliti chiamare l'Anno Mille, la Bibbia è ancora oggi, oserei dire anche per chi non è credente, uno degli elementi più formativi del bagaglio delle idee costitutive della visione del mondo. Per gli uomini dell'epoca premoderna essa era senz'altro il più decisivo fattore formativo di quel bagaglio. Testo fondamentale dell'educazione e della predicazione a tutti i livelli, la Bibbia era il più ricco serbatoio di idee e idiomi comuni a tutti gli strati della società e quindi il più efficace strumento di comunicazione ideologica.

È con questa idea in testa, che d'impulso, naturalmente senza la minima presunzione di poter innovare, proposi come tema di questa relazione la riflessione su una figura che ha acceso l'immaginazione di uomini e donne per secoli ? specchio di conoscenza di se stessi e del mondo circostante nel molteplice senso attribuito a questa metafora, già dalla Bibbia, che lo applica alla singolare conoscenza di Dio che solo Mosè tra i veggenti poté raggiungere. Sulle orme dei neoplatonici, infatti, la metafora dello specchio si è stabilmente insediata tra le più diffuse espressioni della nostra cultura per indicare il multiforme, decisamente non univoco modo di prendere contatto con la realtà — a partire da quello erroneo di Narciso che, tutto preso dalla seducente bellezza delle proprie sembianze, era indotto a ritenere vero il falso, a quello dell'acquisizione del sapere enciclopedico raccolto in uno speculum doctrinale. San Tommaso definiva questa maniera di conoscere come un "vedere la causa a mezzo dell'effetto nel quale la sembianza si riflette"; il suo confratello domenicano Suso chiamava questo modo di conoscere speculare; e assai prima di loro, Sant'Agostino aveva scorso nella meditazione speculare una riflessione alla ricerca di analogie, di principi di imitazione, di incitamento all'emendamento morale — e non sono che tre fra i più famosi esempi di formulazione medievale. In termini più moderni, ma — temo — meno efficaci di quelli che usava la gente del medioevo, direi che dalla prospettiva dello storico, in questa maniera di conoscere convergono l'inevitabile componente di soggettiva distorsione della visione della realtà con l'istintiva aspirazione umana di "vedere le cause a mezzo degli effetti", di spaziare ultra, alla ricerca della regola generale di cui ogni congiuntura sia il paradigmatico riflesso.

Per nessun altro argomento sarebbe più appropriato il detto dell'Ecclesiaste: "Se di qualcosa uno potesse dire 'guarda questo è nuovo', già fu nei tempi passati che ci precedettero". Difficilmente si potrebbe invero immaginare argomento per il quale la ricchezza delle possibilità di scelta di un tema da mettere a fuoco della riflessione possa rivelarsi più imbarazzante: la secolare letteratura mondiale presenta un tale assortimento di rappresentazioni, che una vita intera non basterebbe per vagliarle seriamente. Mosè degli storici, che lo indicano spesso e volentieri come esempio di buona ma anche riprovevole azione politica di leadership, a partire già da Giuseppe Flavio; Mosè dei filosofi e dei teologi, che lo hanno voluto soprattutto filosofo e teologo, a partire già da Filone alessandrino, giù giù fino a Maimonide e san Tommaso, che non aveva difficoltà a ispirarsi al rabbi Moyses Egyptius per la conoscenza filosofica; Mosè dei predicatori, che in una prospettiva simile lo additerebbero a esempio di fede perfetta, a partire già da Gregorio di Nissa, che gli dedicò un volume intero, giù giù fino alle infinite possibilità di scavare nel testo biblico alla ricerca di conferme per idee organicamente inserite nella struttura delle proprie visioni del mondo, tra cui naturalmente le corrispondenze tipologiche che l’esegesi cristiana ha stabilito tra la figura di Mosè e quella di Gesù; Mosè dei poeti, degli autori di opere letterarie o degli psicologi, che lo vorrebbero esempio di comune vita umana in cui ognuno potrebbe identificare le proprie inclinazioni ? Friedrich Schiller, Siegmund Freud, Martin Buber; Mosè della rappresentazione artistica, a partire da Dura Europos, giù giù fino da Raffaello e Michelangelo, che ha stabilmente insediato nella rappresentazione visuale del Mosè un errore di lettura o di interpretazione di san Gerolamo e ha trasmesso all'umanità l'immagine mostruosa di Mosè cornuto, e poi ancora fino alle ricostruzioni cinematografiche hollywoodiane di Cecil B. De Mille o al più recente di Steven Spielberg; Mosè dell'uomo comune, che legge la Bibbia prima di addormentarsi e vi ritrova non solo se stesso ma anche, e forse soprattutto, materia su cui sognare.

La prima cosa da escludere in questa la sede dovrebbe quindi senza dubbio essere quella di passare in rassegna queste possibilità. Più che tedioso, superfluo, inutile, sarebbe sisifico. Con riferimento alla figura del sogno, che, anche senza essere specificatamente esperti nella psicologia freudiana, sappiamo essere liberatore da inibizioni di vario genere, tra cui anche quella della visione della realtà nella sua totalità, vorrei piuttosto suggerire di mettere a frutto la licenza onirica di passeggiare nel giardino virtuale degli innumerevoli fiori coltivati dalla secolare lettura della pagina bibblica, per soffermarsi ora su questo ora su quello apparentemente marginale, addirittura represso, in una specie di esercizio intellettuale inteso a stabilire una situazione dialogica con un testo che, come tutti i testi univocamente fissi nella loro forma scritta e come avrebbe detto Socrate per bocca di Platone, "se interrogato, maestosamente tace".

In effetti, sono precisamente i maestosi silenzi della pagina biblica a rendere preferibile l'irrealtà onirica della passeggiata in un giardino virtuale alla realtà delle speculazioni scientifiche intese a stabilire contestualizzazioni ermeneutiche univoche (in cui i dubbi sono solitamente accantonati o velati con formule retoriche del tipo "possiamo quindi presumere", "non è irragionevole pensare" e simili). Come infatti sanno bene tutti gli storici, a partire da Erodoto, padre della storia classica, storia e mito si confondono tanto facilmente che è spesso difficile, talvolta addirittura impossibile, distinguere l'uno dall'altro. Per Erodoto, come è noto, e in ultima analisi per tutti gli storici di tradizione "scientifica", il criterio ultimativo per effettuare questa distinzione è quello della razionalità. Quel che la ragione umana non può ragionevolmente ammettere per vero è necessariamente leggenda. Il significato della leggenda come pure la sua origine eziologica potranno naturalmente essere oggetto di investigazione "scientifica", investigazione per la quale lo storico userà quegli stessi strumenti che usa generalmente in ogni altra sua ricerca. La prospettiva scientifica della ricostruzione di una figura o di un evento narrato nella Bibbia non è per questo rispetto diversa: ricostruire storicamente, scientificamente, la figura di Mosè significa quindi essenzialmente contestualizzarla, rappresentarla in maniera plausibile, scavando ermeneuticamente nel testo biblico, con il supporto delle più recenti acquisizioni della scienza filologica e archeologica, respingendo teorie che la ragione ritiene improbabili e propugnando invece teorie la cui plausibilità poggia sul principio che è possibile comprendere l'azione umana per il fatto stesso che siamo uomini noi stessi e che questa nostra umanità deve considerarsi base non solo necessaria ma anche sufficiente per l'istaurazione del dialogo con il passato. Altrimenti non avremmo nessuna probabilità di comprenderlo.

In una direzione diversa, ma oserei dire sostanzialmente analoga, la speculazione omiletica sugli elementi sui quali il testo biblico maestosamente tace si vuole a modo suo autorizzata a dare libero sfogo all'immaginazione, a riempire i vuoti dei silenzi, a riferirsi al testo biblico come a un'opera aperta, come direbbe oggi Umberto Eco. A modo suo perchè, come dirò tra un momento, neppure essa rinuncia a un supporto atto a fare le veci di quella scientificità che rende legittima la rappresentazione antropologica moderna. L'aiuola del giardino virtuale della realtà onirica, nella quale propongo di soffermarci a riflettere, è appunto quella della tradizione omiletica ebraica, del midrash aggadah.

Mi si permettano poche parole di introduzione, che per molti di voi saranno forse superflue, e per questo chiedo anticipatamente scusa. Come è noto, la tradizione omiletica ebraica va sotto il nome di midrash, che quando non tratta di temi di normativa, va precisato ulteriormente con l'aggiunta del termine aggadah. I due termini sono però tutt'altro che semanticamente chiari. Midrash, dalla radice darash, che significa ricercare ma anche predicare, rimanda a quanto pare all'attività degli esegeti del testo biblico in pubblico, in manifestazioni di carattere omiletico, nel senso comunemente attribuito all'omelia, ossia attività di predicazione pubblica. L'attività si iscrive quindi nel campo della retorica, che classicamente è pure il campo della storia, essa stessa, come tutti sanno, definita non solo come narrativa ma anche, e forse ancor più come ricerca. Poichè la ricerca del significato biblico non è però limitata ai testi di carattere narrativo, ma comprende pure (anzi precipuamente) testi di carattere normativo, il midrash deve pertanto distinguersi in midrash halakhah (cioè midrash di normativa) e midrash aggadah (cioè midrash di narrativa). Il midrash aggadah viene quindi a corrispondere ai due sensi della historia della tradizione greca, e per alcuni, nella scia di tutta una tradizione intenta a porre giudaismo ed ellenismo in opposizione binaria, esso sarebbe addirittura il parallelo della storiografia greca nell'ambito dell'ethos ebraico.

Va subito notato che rendendo aggadah con narrativa, si privilegia uno dei significati del termine, forse non il più comune nell'accezione recente, che è invece quello di leggenda, mito. In questo senso invero si è insediato il termine nella percezione più tarda, e così lo ha per esempio 'canonizzato' Louis Ginzburg nel suo monumentale The Legends of the Jews che è attualmente in corso di pubblicazione in traduzione italiana. Ma tutti i più attenti studiosi delle generazioni precedenti hanno invece, giustamente, messo l'accento invece che sul contenuto sull'aspetto della performance dell'attività, che è quella dell'oralità. Così si è detto che aggadah dalla radice nagad che significa propriamente mettere in opposizione ma che in una particolare coniugazione verbale (higghid) accentua l'opposizione fra chi espone retoricamente in pubblico e chi invece è tra gli ascoltatori, quindi attribuisce al termine il significato di quel che non è scritto (Güdeman), che è tramandato oralmente; altri, sempre accentuando questo significato ma in direzione diversa, hanno invece insistito sulla forma dell'esposizione orale, che essendo esegetica di un testo biblico avrebbe sempre avuto inizio in sede accademica con le parole magghid ha-katuv, 'la scrittura dice', e poi continuato a spiegare (Bacher); altri ancora hanno privilegiato la componente di narrativa nel senso di 'non normativa', intendendo narrativa di tutto quello che non tocca all'area della normativa.

Comunque sia, tanto nell'accezione comune quanto nella possibile etimologia del termine, sono quindi evidenti le componenti di narrativa e di oralità. Per quanto esso non debba necessariamente riferirsi esclusivamente al testo biblico, cioè possa includere pure narrative disgiunte dall'esegesi del testo biblico (storie di maestri, per esempio), il midrash aggadah si precisa come esposizione narrativa di un passo narrativo biblico, ossia, in termini moderni, una rappresentazione mitologizzata del racconto biblico. In termini di retorica classica, il midrash aggadah si precisa quindi come inclusivo di tutti e tre i generi della narrativa canonizzati da Isidoro alla fine del primo libro delle Etimologie come fabula, argumentum e historia — fabula, quel che non è certamente accaduto ne avrebbe potuto accadere, e quindi deve intendersi metaforicamente; argumentum, quel che può effettivamente essere accaduto, anche se non è accaduto proprio nella maniera in cui lo si racconta, quindi quel che in termini moderni si direbbe una rappresentazione retorica della realtà; historia, quel che è effettivamente accaduto, proprio come è accaduto, wie es Eigentlich gewesen, come avrebbe detto Ranke. Il passaggio da un genere all'altro è reso possibile dalla natura orale della trasmissione, che è quella del mito classico, ossia del racconto tradizionale trasmesso nell'interno del gruppo a scopo didattico edificante, e come tale liberamente manipolato in sede di performance.

È superfluo insistere sulle possibilità di manipolazione offerte dalla trasmissione e dalla performance orale e che sono oggi oggetto di approfonditi studi antropologici e folkloristici in diverse culture. Mentre è però ovvio che ogni rappresentazione narrativa nasce in un ben definito contesto sociopolitico al quale deve essere riferita oltre che a precise idiosincrasie particolari, è oggi sufficientemente acquisito che è praticamente impossibile una vera e propria contestualizzazione dei testi trasmessi in varie lezioni, in varie redazioni, sempre molto più tarde delle epoche dei personaggi nominati nei testi, spesso essi stessi dati in più d'una versione. Certo, non è escluso che siano possibili effettivi tentativi di contestualizzazioni storiche, con più o meno persuasive ricostruzioni di psicologie e ambienti, ma non credo di sbagliare dicendo che in genere queste rimangono l'eccezione piuttosto che la regola.

Non è ovviamente possibile entrare in questa sede in dettagli relativamente alle varie collezioni e radazioni di questi testi, nè tanto meno alle possibilità della loro datazione. Neppure è possibile entrare in dettagli sugli svariatissimi artifici retorici adoperati in quelli che a noi sono giunti come testi scritti, ma che in origine presentavano ovviamente anche tutta la ricchezza della performance orale (tonalità, gesticolazione, allusione mimica, e così via). Trattandosi però, come si è accennato più sopra, di rappresentazioni omiletiche sui generis della narrativa biblica, sarà naturale ritrovare in esse quegli artifici che più solitamente è dato ritrovare nelle rappresentazioni teatrali, come ad esempio, contrazione del tempo e dello spazio degli eventi narrati, sorprendenti trovate intese a épater les bourgeois, identificazioni di personaggi restati anonimi nel racconto biblico, e così via. Così, ad esempio, si dice che nel consiglio del Faraone prima della promulgazione dell'editto con l'obbligo di affogare tutti i figli maschi degli ebrei, erano presenti Giobbe, Ietro e Balaam (B. Sota 11a), o che la moglie di Giobbe era Dina, la figlia di Giacobbe sedotta da Hamor, e che fu poi la causa dello sterminio infame della tribù del seduttore, o che gli ebrei si resero colpevoli del culto del vitello d'oro nel medesimo giorno in cui cominciò a cadere la manna (Pesikta deRav Kahana XI, 99a), o che il giorno in cui gli angeli si presentarono ad Abramo per annunciare la distruzione di Sodoma era Pasqua.

Contrariamente a quel che potrebbe essere una completamente libera rappresentazione moderna, le rappresentazioni rabbiniche poggiano, però, come abbiamo accennato più sopra, su un dupplice supporto atto a fare le veci di quella scientificità che rende legittima la rappresentazione antropologica moderna: in primo luogo, sulla autorità degli autori in nome dei quali le tradizioni vengono riferite; e poi, sul quasi generale riferimento a regole esegetiche (le cosiddette middoth she-ha-Torah nidreshet, le regole di esegesi della Torah) le quali forniscono per così dire la giustificazione testuale della pratica seguita — generalmente analogie testuali, presenze di medesimi termini in testi diversi che permettono all'autore autorevole una lettura 'intertestuale' e porgono all'uditore un ulteriore fondamento persuasivo, e così via.

Con questa brevissima ma necessaria premessa, possiamo ora accostarci ad alcuni testi che vi proporrei di leggere come possibili esempi di contestualizzazioni antropologiche informate all'assiomatica convinzione che la natura umana è sostanzialmente uguale per tutti, compresi i grandi personaggi della storia, e che la storia biblica può legittimamente essere interpretata in questa prospettiva. In altre parole: la contestualizzazione di cui è questione ha una valenza doppia: mentre infatti si enuncia la validità metodica della comunanza di idiomi psicologici fra uomini vissuti in contesti storici lontani l'uno dall'altro, si enuncia pure implicitamente la convinzione che la contestualizzazione dell'osservatore non deforma sostanzialmente quella dell'oggetto dell'osservazione — cosa naturalmente discutibilissima. Dal immenso serbatoio di testi, ho estratto alcuni che, come spero di mostrare, possono presentare qualche risvolto di attualità.


Esodo Rabbà I, 28-30:

Disse Rav Huna a nome di Rav Kapparah: Per merito di quattro cose gli Ebrei furono redenti dall'Egitto. Per non aver cambiato i loro nomi, per non aver cambiato la loro lingua, perchè non aver rivelato il loro mistero, e per non aver reso le loro donne di dominio pubblico. E di dove si deduce che [le loro donne] non si resero sospette di trasgressioni sessuali? Dal fatto che una sola di loro si rese colpevole e la Scrittura ne rese pubblica l'identità. Come è scritto [del giovane resosi colpevole di bestemmia di cui in Lev. XXIV e conseguentemente messo a morte]: E il nome di sua madre era Shelomit figlia di Divri della tribù di Dan. Dissero i nostri maestri: i preposti ai lavori forzati erano egiziani, ma le guardie erano ebrei; un egiziano comandava una squadra di dieci guardie, e una guardia era responsabile di dieci lavoratori. Gli egiziani andavano alle case delle guardie di buon mattino al richiamo del gallo per portarli al lavoro. Una volta uno di questi egiziani andò in casa di una guardia ebreo e fu attratto dalla moglie di costui che era bellissima, senza difetto alcuno. Andò all'alba e lo portò fuori di casa, ritornò e si congiunse carnalmente con sua moglie che credeva che era suo marito e restò incinta. Il marito ritornò e trovò l'egiziano che usciva di casa sua. Domandò: ti ha toccata? Rispose: sí, e credevo che eri tu. Quando l'egiziano si accorse che era stato scoperto, tornò al luogo dei lavori forzati e lo picchiava con l'intenzione di ucciderlo … Mosè vide e riflettè — vide con lo spirito della profezia quel che aveva fatto in casa e riflettè su ciò che gli avrebbe fatto nel campo. Disse: quest'uomo è certamente meritevole di essere messo a morte, anzi per aver conosciuto carnalmente la moglie di Datan è passibile della pena di morte, secondo quanto è scritto 'saranno messi a morte l'adultero e l'adultera' (Lev. xx) ? questo è il significato di 'si voltò di qua e di là e vide che non c'era nessuno' perchè era meritevole di pena di morte [= era come uomo morto].

Rabbi Giuda dice: vide che non c'era nessuno che prendesse a cuore le cose di Dio e l'uccidesse.

Rabbi Hama bar Hanina disse: vide che non c'era chi sapesse pronunciare il Nome per ucciderlo.

I nostri maestri dicono: vide che non c'era da sperare che nella sua discendenza nascesse qualche uomo giusto fino alla fine dei tempi. Quando Mosè vide ciò, si consigliò con gli angeli dicendo loro: È quest'uomo passibile della pena di morte? Risposero: Sí. ? Così è scritto: vide che non c'era nessuno che ne perorasse la causa.

Colpì l'egiziano: Con che cosa? Rabbi Evyatar disse: con un pugno l'uccise, con la cazzuola della mota. I nostri rabbini dicono: pronunciò il Nome e l'uccise.

La storia avrebbe potuto costituire tema di un romanzo ellenistico, di quelli che è certo erano letti e in che conseguentemente potevano costituire efficace serbatoio di motivi e idee per i dottori ebrei dell'epoca ellenistica. In un altro midrash si racconta per esempio che il re dell'Etiopia, che avrebbe sospettato la moglie di adulterio per aver partorito un bimbo bianco, sarebbe andato da rabbi Akiba per chiedere consiglio e che rabbi Akiva avrebbe "assolto" la regina dall'accusa dopo aver verificato che le figure rappresentate sugli affreschi dei muri della camera da letto erano bianche, suggerendo che esse avrebbero esercitato influenza sull'immaginazione della regina nell'atto dell'accoppiamento, conformemente a una diffusa credenza della ginecologia dell'epoca. La storiella infatti ricalca perfettamente una novella del romanzo di Eliodoro Athiopica, in cui si narra come la regina d'Etiopia avrebbe partorito una bellissima bambina bianca per aver fissato durante l'atto sessuale l'immagine di Andromeda dipinta sul muro della stanza. Che si tratti di motivo folkloristico, sulla cui tenace sopravvivenza sarebbe sufficiente la testimonianza della figura di Clorinda nella Gerusalemme Liberata del Tasso, o di prestito diretto da parte dell'autore del midrash, poco importa per quanto andiamo dicendo. Similmente, in tutt'altro contesto, Shlomo Pines ha dimostrato come intere espressioni comunemente ritrovate in romanzi ellenistici possano aver trovato la loro strada perfino nella liturgia ebraica del rito della cena pasquale. Nella retorica rabbinica essa adempie certamente una funzione provocatrice dell'immaginazione popolare ? un metodo sempre efficace per inchiodare l'attenzione sul tema, che naturalmente non è quello di puro e semplice thrilling entertainment. Quale il messaggio dell'omelia? Una lettura globale del testo, anche superficiale, mette subito in evidenza come in effetti quel che abbiamo è una concatenazione di tradizioni non necessariamente legate una all'altra in una sequenza esegetica piana. In altre parole: attingendo al serbatoio della mitologia biblica, l'autore mette insieme alla tradizione relativa alla straordinarietà del figlio blasfemo della donna ebrea del quale si dice che era figlio di un egiziano, tradizione che sfrutta il classico sistema sopra menzionato di attribuire eventi narrati nella Bibbia in maniera anonima a personaggi noti e che difende nel contempo la purità dei costumi sessuali degli ebrei, la sua interpretazione dell'azione di Mosè nei confronti dell'egiziano, azione che una mentalità orientata al rispetto della Legge, non poteva digerire sic et simpliciter. In altre parole: dietro il tentativo di scagionare Mosè dall'aver agito impropriamente, si nasconde la grande ombra del giudizio di valore dell'azione in se, che non può essere additata ad esempio all'uomo ordinario per il quale Mosè è figura esemplare, perchè straordinaria, unica nel suo genere, irripetibile. L'uomo ordinario, privo della facoltà profetica di Mosè, non potrà quindi valersi di quell'esempio in simili casi, che l'esperienza quotidiana mostra non essere proprio infrequenti. Tirando un po' il filo di questo ragionamento, si potrebbe senza difficoltà mettere insieme tutta una collana di perle dello stesso tipo: particolarmente eloquente, perchè diametralmente antitetica alla storia di Rav Kapparah, ma con messaggio identico, anche esso centrato sulla figura di Mosè, la rappresentazione del quadretto biblico di Mose e Aronne in lacrime davanti alla dilagante corruzione dei principi ebrei con le figlie di Midian a differenza dello zelo di Pinehas: anche per Pinehas sarà necessaria esplicita approvazione divina per un atto che altrimenti avrebbe dovuto essere categorizzato riprovevole.

Ma non solo il testo biblico che funge da sostrato per la storia è opera aperta. Anche il midrash è opera aperta, perchè le aporie e le risposte sono di vario genere. Quella di Rav Kapparah, mentre sembra la più rassicurante, in effetti invita a riflettere sulla realtà delle apparenze: nella vignetta biblica si vede un egiziano colpire selvaggiamente un ebreo, uno dei fratelli di Mosè, e nel quadretto successivo l'intervento di Mosè. Impulso incontrollato? Solidarietà eroica? Solidarietà calcolata ? si guardò intorno e verificò che non c'erano testimoni, si deve pensare che se avesse notato la presenza di osservatori, avrebbe frenato l'impulso di solidarietà? Fu il risultato dell'azione commensurabile con la gravità della colpa dell'egiziano? Avrebbe un normale tribunale condannato o assolto Mosè sulla base dei fatti? La risposta di Rav Kapparah invita a ignorare le apparenze, suggerisce che le apparenze ingannano, che Mosè non deve essere giudicato sulla base delle apparenze. L'operato di Mosè si situa su un piano di infallibilità metafisica, di un potere straordinario di visione inaccessibile ai comuni mortali, quindi al di là della possibilità di valutarlo coi normali elementi di giudizio.

Non così le soluzioni offerte dagli altri autori: per rabbi Giuda, la giustificazione per l'intervento straordinario sta nella straordinarietà della situazione: in una situazione di illegalità istituzionalizzata non è appropriato esigere che l'azione sia conforme ai normali criteri di legalità. In una situazione del genere, solo la parola divina può guidare, ed è appunto quella che conferisce legalità ad un atto che in altre circostanze sarebbe giudicato illegale. Mosè obbedì alla volontà divina in una situazione in cui nessun altro mostrava di tenere quella volontà in conto. La misura di arbitrarietà contenuta in una soluzione del genere costringe rabbi Hama a esigere una altrettanto starordinaria prova divina: egli richiede pertanto che l'intervento sia effettuato con mezzi sovrumani (con la pronuncia del Nome, che "funziona" solo se chi lo pronuncia è autorizzato a farlo). E si noti, tra parentesi, che ambedue avrebbero preferito che non fosse Mosè a "sporcarsi le mani" con un atto del genere.

La soluzione di Rav Kapparah era imperniata sul passato, quella di rabbi Giuda e rav Hama sul presente, le ultime due sono sul futuro ? tre diverse prospettive per valutare la realtà delle apparenze. Tutte e tre assumono a priori la infallibilità di Mosè e si adoperano a giustificarne l'azione sottraendola ai normali criteri di giudizio. Non così un altro midrash che così rappresenta l'ultima ora di Mosè. Come un comune mortale, che sente arrivata la sua ora, Mosè non vuol morire. Implora Iddio di lasciarlo in vita. Ecco come un midrash immagina questo dialogo eccezionale:

Midrash Petirath Moshe Rabbenu (in: Jellinek, Beth Hamidrash, I, pp. 118-119): Dio benedetto gli disse: se resti vivo la gente si sbaglierà e ti crederanno Dio. Disse: Signore già mi hai messo alla prova con il vitello d'oro e ho superato la prova e ora debbo morire? Disse Iddio: Mosè, figlio di chi tu sei? Rispose: Di Amram. E Amram figlio di chi era? Di Itshar. E Itshar figlio di chi era? Di Kehat. E Kehat figlio di chi era? Di Levi. E tutti quelli da chi discendevano? Da Adamo. E qualcuno di loro è rimasto in vita? No sono tutti morti. Disse allora Iddio: E tu vuoi restare in vita? Rispose: Signore, Adamo rubò e mangiò quel che non volevi che mangiasse e tu lo punisti; io ho rubato? sei ben tu ad aver scritto di me (Num. xii, 7) "Mose mio servitore è il più fedele della mia Casa". Gli disse (ancora) Iddio: E tu saresti più meritevole di Adamo e della sua generazione? Rispose: Sí, Adamo ed Eva il serpente li sedusse , mentre io ho fatto rivivere morti col serpente (cfr. Num. xxi, 9). Disse (ancora) Iddio: E tu saresti più meritevole di Noè e della sua generazione? Rispose: sí, quando portasti il diluvio su Noè e sulla sua generazione, Noè non domandò pietà sulla sua generazione, mentre io implorai "ora se perdonerai la loro colpa bene, se no cancellami dal tuo libro che hai scritto" (Es. xxxii, 32). Disse (ancora) Iddio: E tu saresti più meritevole di Abramo che misi alla prova dieci volte? Rispose: era figlio suo Ismaele destinato a causare la rovina dei tuoi figli. Disse (ancora) Iddio: E tu saresti più meritevole di Isacco? Rispose: era ben figlio suo Esau che avrebbe distrutto la tua casa e sterminato i tuoi figli, i tuoi sacerdoti e i tuoi leviti! Disse (allora) Iddio: Ti ho forse detto io di uccidere l'egiziano? Rispose: Tu hai ucciso tutti i primogeniti d'Egitto e io morirò per un egiziano solo? Disse Iddio: Tu sei forse simile a me? Io faccio morire e vivere; sei tu capace di far vivere come me?

Nessun dubbio: in questa prospettiva Mosè non è assolto. La vita irreprensibile del più santo tra i profeti resta irrimediabilmente macchiata da un unico atto, da una decisione che il midrash forse comprende ma non può giustificare. Dico "forse comprende" perchè in effetti mette in bocca a Mosè una risposta che valutata con metro umano dovrebbe essere convincente: la sua azione aveva pure una sua logica, soprattutto se messa a confronto con la straordinaria portata dell'operato divino in quella situazione medesima; ciononostante, la risposta è considerata insoddisfacente. L'operato divino non è commensurabile con l'operato umano. E Mosè resta senza risposta.

Vorrei avvalermi della prerogativa dell'omiletica e lasciare anche io il tema aperto all'immaginazione degli uditori, nel senso che i risvolti attuali della tematica possono essere molteplici. Non prenderò quindi posizione tra le possibili soluzioni, non assolverò né condannerò Mosè, additerò piuttosto la problematica che è emersa da quanto abbiamo considerato a esempio di problematica sempre valida anche per persone di straordinaria levatura, e sulle cui azioni neppure il giudizio della storia può rivelarsi lineare. Se l'azione è sempre necessariamente univoca nelle cose umane, non altrettanto univoca può esserne la valutazione a cose fatte.

 

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